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I discorsi di Mussolini
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Giovanni




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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:11 am    Oggetto:  
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AI FANTI E AGLI ALPINI DELLA DIVISIONE «LITTORIO»

Il pomeriggio del 18 luglio 1944, proveniente da Grafenwoehr, Mussolini giunge col seguito a Heidelberg, campo di addestramento della divisione Littorio, per ispezionarla. Assistito ad una manovra della divisione, passa in rassegna i reparti, accompagnato dal maresciallo Graziani e dal comandante dell'unità, generale Agosti. « I suoi occhi incontrano quelli degli uomini e la sua volontà si trasmette nell'animo dei soldati e li fa fremere. Il Duce è in loro, essi lo sentono, comprendono che il loro cuore batte con quello del capo. Avvenuta la consegna delle bandiere ai comandanti dei reggimenti », Mussolini, « rivolgendosi agli uomini dell'intera divisione, porge il proprio saluto: "Salve o camerati della divisione 'Littorio' ». Indi pronuncia il discorso qui riportato.

Ufficiali ! Sottufficiali ! Graduati e soldati della divisione « Littorio » !
Con la visita alla vostra divisione si chiude il ciclo delle mie ispezioni alle divisioni italiane che, nell'alleata e ospitale terra tedesca, si stanno preparando per la riscossa.
Tutte le divisioni si sono presentate a me in modo assolutamente impeccabile. Ma la vostra, con la complessa esercitazione a fuoco alla quale ho assistito, mi ha dato l'impressione che la vostra preparazione è molto avanzata e che vi dedicate ad essa con la diligenza necessaria e il non meno necessario entusiasmo.
Io voglio dinanzi a voi ringraziare il generale von Hott, che sovraintende all'addestramento delle divisioni italiane in Germania, e il generale von Tschudl, che al vostro addestramento si è dedicato con particolare assiduità ed energia. E con lui voglio ringraziare i suoi collaboratori, dal primo all'ultimo.
La vostra divisione si chiama « Littorio » e tale nome conserverà. E’ un nome che ha già una tradizione, consacrata brillantemente durante la guerra di Spagna e nel Nord Africa.
È un nome che ci è particolarmente caro. È col simbolo del Littorio che i legionari dell'antica Roma marciavano e vincevano. È il simbolo della Repubblica Sociale Italiana.
Più che una promessa deve levarsi dai vostri cuori un giuramento solenne. Voi difenderete sino all'ultima stilla del vostro sangue le bandiere che sto per consegnarvi. E non dovrà mai accadere che i camerati tedeschi abbiano un giorno anche vagamente a pentirsi di avervi consegnato le loro armi moderne per la riscossa della nostra patria.
Tutte le nostre forze spirituali e materiali debbono essere tese a questo scopo: risorgere e combattere, perché il tradimento e la capitolazione obbrobriosa dell'8 settembre si cancellino in un modo solo: col sangue.
Eterna e sempre attuale è la parola d'ordine che assegno alla vostra divisione: «Tutti per uno ed uno per tutti».
Così prepareremo il nuovo e migliore destino della patria.
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Giovanni




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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:12 am    Oggetto:  
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RAPPORTO AGLI UFFICIALI DELLA DIVISIONE « LITTORIO »

Il 18 luglio 1944, verso le 19, nella sala della mensa del campo di addestramento di Heidelberg, Mussolini tiene rapporto agli ufficiali della divisione Littorio. In tale occasione, dopo la relazione del maresciallo Graziani, pronuncia il discorso qui riportato.

Voglio ancora ripetervi, o camerati ufficiali, il mio compiacimento per la manovra alla quale ho assistito. Ho seguito con attenzione la manovra delle truppe nell'insieme e nei dettagli, a proposito dei quali non è inopportuno ricordare una frase di Napoleone, che di guerre, bisogna riconoscerlo, se ne intendeva: « Non ci sono dettagli; tutto nella vita militare è importante ». Anche il movimento di un soldato, che può apparire superfluo, è quello che forse gli salverà la vita.
È necessario che voi approfittiate al massimo di questa scuola, poiché avete, si può affermarlo chiaramente, dei maestri fuori classe. Bisogna quindi superare talune suscettibilità che apparirebbero. tremendamente ridicole e convincersi che il popolo tedesco è popolo eminentemente militare, che prende le cose sul serio e soprattutto la cosa più seria di tutte, che è la guerra.
Per ciò che riguarda la politica, le idee devono essere estremamente precise. Soprattutto in periodo di transizione e di crisi, le parole d'ordine devono avere il timbro e la durezza dei metalli. L'8 settembre, noi abbiamo vissuto un episodio della storia che ci fa fremere di sdegno, ci fa piegare la testa. Bisogna realizzare in tutta la sua portata la gravità dell'episodio per comprendere quale sia il dovere imprescindibile del momento attuale.
È accaduta una cosa inaudita: che cioè di punto in bianco si abbandona l'alleato di ieri, di cui ancora nel bollettino si esaltava la comunità delle armi, per passare al nemico. La Marina, quella Marina che il fascismo aveva costruita tutta, dalle grandi corazzate ai piccoli rimorchiatori, non ha sentito la suprema vergogna di consegnarsi, guidata da un mezzo ebreo come il Da Zara, alla flotta nemica nel porto di Malta.
Di fronte a questo spettacolo di rovine, il compito di ricostruzione non è semplice. Le difficoltà hanno qualche volta caratteri eccezionali. Tuttavia, giorno per giorno, queste difficoltà sono affrontate, e in terra germanica risorgono le prime divisioni dell'Esercito italiano, e ai reggimenti che le compongono vengono consegnate le bandiere della Repubblica Sociale Italiana.
Repubblica non solo perché per tradizione l'Italia, compreso il Piemonte, è più repubblicana che monarchica, ma anche perché improvvisamente ci siamo trovati dinanzi ad una monarchia che si è disonorata con la capitolazione, davanti ad un re che, nel tentativo inutile e criminale di salvare la propria personale corona, è passato puramente e semplicemente al nemico. Quando questo accade, sistemi ed uomini sono definitivamente liquidati.
Perché Repubblica Sociale? Per una ragione evidente: abbiamo un campionario di repubbliche dinanzi a noi, nel mondo moderno. Io spero che nessuno di voi voglia istituire in Italia una repubblica plutocratica tipo Roosevelt, o realizzarne una comunista tipo Stalin. Penso che meno ancora voi vogliate una repubblica arciparlamentare, fradicia di giudaismo e di massoneria, come quella francese; e nemmeno una repubblica cantonizzata come quella svizzera; e non parliamo inoltre delle repubbliche d'oltre Oceano, dove i termini di comando e di obbedienza paiono precari ad ogni volger di stagione. È chiaro quindi che la Repubblica Sociale Italiana è fascista, non può essere che fascista e le sue istituzioni non possono essere che ispirate alla dottrina del fascismo ed ai suoi insegnamenti.
Coloro che vogliono vivere nell'equivoco e credono di mimetizzarsi fanno un calcolo inutile e vile. Molti dei traditori di ieri furono puniti ed altri lo saranno.
Dall'8 settembre in poi le sofferenze alle quali il popolo italiano è stato sottoposto possono dirsi inaudite. Ma le hanno meritate coloro i quali il 25 luglio si abbandonarono all'orgia di distruzione dei nostri simboli, credendo di distruggere ciò che non può essere distrutto: le opere e lo spirito. Meritate le hanno coloro che, dopo l'8 settembre, per un fenomeno di quasi incredibile incoscienza, hanno suonato 1e campane a stormo, improvvisato cortei, accesi i fuochi di gioia sulle montagne, mentre quella era e doveva essere una giornata di profondissimo lutto nazionale.
Così doveva essere accolto un falso armistizio con clausole tanto schiaccianti e draconiane che ancor oggi, dopo dieci mesi, non si ha il coraggio di renderle di pubblica ragione.
Ora bisogna raccogliere violentemente tutte le forze rimaste intatte nel nostro spirito e bisogna dire: in queste condizioni non è più importante vivere. In queste condizioni importa una cosa sola: combattere. Chi non combatte oggi, si illude di vivere. Chi non combatte oggi, è un uomo già moralmente morto o che merita di esserlo. Camerati!
Il ricordo di questo mio incontro io penso che rimarrà a lungo nei nostri cuori. Ci rivedremo in Italia, quando avrete finalmente la gioia di far fuoco sui nemici che bivaccano all'ombra dei nostri monumenti secolari ed universali.
Così riprenderemo la battaglia per tornare ad essere un popolo. Perché l'Italia si trova di fronte sempre a questo tremendo dilemma: o è grande o non è.
Le armi, o camerati, vi sono state date perché i nostri ideali diventino realtà.

(Le parole del Duce hanno entusiasmato e commosso. Gli ufficiali si stringono intorno a lui e gli gridano la loro riconoscenza, la loro dedizione, la loro fede incandescente nella rinascita della patria).
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Giovanni




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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:12 am    Oggetto:  
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NEL QUARTO ANNUALE DEL TRIPARTITO

Il 27 settembre 1944, alle 13, in occasione del quarto anniversario della firma del Patto tripartito, le stazioni della Radio repubblicana trasmettono il discorso di Mussolini qui riportato.

Quando il 27 settembre 1940 fu concluso il Patto tripartito tra l'Italia, la Germania e il Giappone si compiva un atto d'importanza storica in vista di quello che già appariva il fatale sviluppo della guerra allora in essere per la decisa volontà anglosassone: la conflagrazione mondiale.
Ma nel Patto era anche, secondo l'intendimento dei tre alleati, un ammonimento nella speranza che la guerra potesse non propagarsi al continente allora immune e che attraverso la limitazione del conflitto si addivenisse ad una nuova organizzazione mondiale sulla base del principio di giustizia internazionale enunciato nel preambolo del Patto stesso e cioè che tutte le nazioni devono avere il posto che a ciascuna spetta.
Il Patto a tre fu così una misura di difesa in vista di quel complotto che era già nell'aria e che le nazioni cosiddette democratiche già tessevano per colpire mortalmente le tre grandi nazioni che rappresentavano i valori e la forza dello spirito, il duro lavoro, il diritto alla pacifica espansione. Ma oltre che arma di difesa, il Tripartito era anche un pegno di responsabilità e di solidarietà nella grande opera che doveva dare al mondo un ordine nuovo, dove il diritto alla vita dei popoli giovani avrà giusto riconoscimento e le ingiustizie antiche saranno eliminate.
Non è dunque per passeggere contingenze politiche, bensì in armonia con la fatale logica della storia che, prima della prova suprema, si concludeva l'alleanza dei tre popoli, i quali nell'Occidente e nell'Oriente erano, con il loro regime di disciplina e di sacrificio liberamente accettato, gli enunciatori di una nuova epoca e di un nuovo modo di vita.
Gli avvenimenti che si sono succeduti di poi hanno dimostrato che giustificata era la volontà di difesa delle nazioni dal pane più scarso nei confronti di quei paesi che vogliono mantenere a ogni costo il possesso e il monopolio delle ricchezze materiali del mondo.
Tali avvenimenti sono storia di ieri: una provocazione quotidiana di tre paesi in una forma tosi diretta e preordinata che ha pochi precedenti nella storia; provocazione e atti di ostilità il cui esito non poteva essere che una estensione della guerra al mondo intero.
Il complotto che da qualche tempo covava a danno delle nazioni del Tripartito è diventato gioco aperto senza scrupoli. Nessun ritegno hanno oggi i nostri nemici, neppure nel campo della parola, nel quale essi sogliono essere tosi attentamente guardinghi, da proclamare che il fine della loro guerra è la completa e definitiva distruzione dei tre popoli.
Possono levarsi e si levano fra i nostri comuni nemici le voci più chiare o più ambigue a questo riguardo, ma la volontà è sempre una: cancellare dalla storia avvenire i nomi dell'Italia, della Germania e del Giappone.
Questa è la realtà che giova guardare virilmente in faccia in questo asperrimo momento della lotta. Bisogna non illudersi e non lasciarsi ingannare. L'Italia messa in ginocchio, ma non abbattuta, sa, per amarissima esperienza, quale sia l'animo dei nostri nemici, quale realtà si celi sotto le loro lusinghe propagandistiche. Per salvarsi e per salvare il futuro dei figli il cammino della storia e la via del destino devono essere seguiti fino in fondo, nonostante gli ostacoli, i sacrifici e i dolori.
Soltanto così un popolo dà la prova della sua maturità e del suo diritto a crearsi il suo avvenire.
Io chiedo agli italiani di guardare alle sublimi prove di patriottismo e di valore che danno il popolo germanico e il popolo nipponico e misurare così i loro spiriti scossi dal tradimento subito e la forza della fede.
Chiedo agli italiani di riflettere sulle condizioni di armistizio che, dopo l'Italia, furono imposte ad altri paesi; condizioni che ricordano la storica frase «Guai ai vinti ».
La Repubblica Sociale Italiana, che rappresenta l'Italia che tenne fede alla parola data, considera l'onore il più alto bene degli uomini e dei popoli, in quanto salvaguarda il presente e il futuro.
La Germania, il Giappone e l'Italia non possono essere vinti dal peso dell'oro, né dalla vastità dell'odio dei loro nemici, né dai loro mezzi materiali. L'Italia fascista repubblicana oggi riafferma fedelmente il vincolo del Patto con i suoi fedeli alleati, sicura nella, giustizia della causa e ferma nella volontà di resistere e di combattere fino alla vittoria.
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Giovanni




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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:12 am    Oggetto:  
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ALLE CAMICIE NERE DELLA BRIGATA NERA « ALDO RESEGA »

A Gargnano, alla villa delle Orsoline, il 14 ottobre 1944, Mussolini riceve lo Stato Maggiore ed un folto gruppo di ufficiali della brigata nera Aldo Rerega, al comando del commissario federale di Milano, Vincenzo Costa. Sono presenti il ministro segretario del Partito, il ministro della Cultura popolare e il sottosegretario alla Presidenza. Il comandante della brigata nera rivolge al Duce il seguente indirizzo: "Duce! Vi presento i miei collaboratori della brigata nera Aldo Rerega. Noi vi abbiamo amato e vi ameremo sempre. Vi abbiamo seguito nei giorni della vigilia, a fianco di Corridoni, all'Arena di Milano. Vi abbiamo seguito nel 1915. Vi abbiamo seguito il 23 marzo 1919. Vi abbiamo seguito il 26 luglio e il 9 settembre. Vi seguiremo sempre, fino alla morte! " ». Indi Mussolini pronuncia il discorso qui riportato.

Rivedo con gioia volti di camerati che mi furono familiari nei tempi della vigilia, quando, come oggi, avevamo di fronte un mondo che, attraverso dure battaglie e cruenti sacrifici, fu sgominato. Anche allora tutto e tutti, dai più rossi ai più neri, erano contro di noi e la nostra causa appariva condannata. Se trionfò, ciò significa che portava in sé le ragioni del suo sorgere e della sua affermazione. Rivedo dei camerati che, nonostante il passare degli anni e i molti tradimenti dell'estate infausta, sono rimasti fedeli alla bandiera e tali in ogni evento intendono rimanere.
La vostra brigata nera si intitola al nome intemerato di Resega, un combattente valoroso, un cuore generoso, un cittadino esemplare, che consacrò nel sangue la sua fede. Si può dire di lui che veniva dal popolo e morì per il popolo, poiché i sicari che al soldo del nemico lo spensero erano fuori della comunità popolare. Tutti voi, dal capo all'ultimo gregario, siete strettamente impegnati a un contegno irreprensibile secondo la legge formale e il costume fascista, perché niente possa offuscare il nome e la memoria di questo soldato della patria e del fascismo. Dai rapporti che mi sono giunti traggo la conclusione che la vostra brigata si compone di solidi e coraggiosi camerati, nei quali il « combattimento » è una seconda natura, e l'amore per l'Italia un dato fondamentale delle anime. La struttura militare data al Partito nel giugno scorso è in perfetta relazione coi compiti del Partito stesso nell'attuale periodo della storia nazionale, che è dominato dal fatto guerra, in relazione col nero, inqualificabile, obbrobrioso tradimento dell'8 settembre.
Quale pace è stata data al popolo con la resa a discrezione ? Quale pace, se il 13 ottobre fu dichiarata la guerra agli alleati di ieri e se oggi si pensa di dichiararla al Giappone e di aggiungere, quindi, alla guerra che si è svolta e si svolge in Italia un'altra, nelle lontane distese del Pacifico, dove i marinai italiani dovrebbero morire per le plutocrazie anglosassoni e per saldare il debito di riconoscenza verso l'America per i suoi recenti e troppo stamburati « aiuti » di natura puramente elettorale, vera goccia nell'arido deserto della miseria e della disperazione italiane ?
Nella riunione di Verona il Partito Fascista Repubblicano fissò i suoi postulati. Se le vicende della guerra hanno ritardato l'applicazione di alcuni di essi, ciò non significa che siano cambiati. Essi rimangono.
Nei momenti di alta tensione morale e politica bisogna ché le parole d'ordine siano poche ed estremamente chiare.
A chi ci domanda ancora « che cosa volete ? », rispondiamo con tre parole, nelle quali si riassume il nostro programma. Eccole: Italia, Repubblica, socializzazione.
Italia, per noi, nemici del patriottismo generico, concordatario e in fondo alibista, quindi inclinante al compromesso e forse alla defezione, Italia significa onore e onore significa fede alla parola data, indispensabile titolo di reputazione così per gli individui come per i popoli; e la fede alla parola data significa collaborazione con l'alleato, nel lavoro e nel combattimento.
Ognuno ricordi, sull'esempio della storia, che i traditori, sia nella politica come nelle guerre, sono utilizzati ma disprezzati.
Ora è proprio in questo momento, nel quale la Germania è impegnata in una lotta suprema e ottanta milioni di tedeschi stanno diventando ottanta milioni di soldati, tesi in uno sforzo di resistenza che ha del sovrumano, è proprio in questo momento, nel quale i nemici anticipano, nelle speranze e nelle illusioni, una vittoria che essi non raggiungeranno, perché la Germania non capitolerà mai, perché capitolare per la Germania sarebbe politicamente, moralmente, anche fisicamente « morire », è in questo momento che noi riaffermiamo la nostra piena, totale solidarietà con la Germania nazionalsocialista, che è la Germania combattente con un coraggio e una virtù che potrebbe dirsi « romana » e che strappa riconoscimenti di ammirazione anche a quei nemici che non siano completamente accecati e abbrutiti dall'odio.
Ciò sia ben chiaro per tutti. Questo è l'atteggiamento inflessibile dell'Italia repubblicana. La serie dei tradimenti nei quali i Savoia, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele III, si squalificarono, è finita con la caduta della monarchia. La nostra Italia è repubblicana. Esiste a nord dell'Appennino la Repubblica Sociale Italiana. E questa Repubblica sarà difesa palmo a palmo, sino all'ultima provincia, sino all'ultimo villaggio, sino all'ultimo casolare. Quali si siano le vicende della guerra sul nostro territorio, l'idea della repubblica, fondata dal fascismo, è oramai entrata nello spirito e nel costume del popolo.
La terza parola del programma, socializzazione, non può essere considerata che la conseguenza delle prime due: Italia e Repubblica. La socializzazione altro non è se non la realizzazione italiana, umana, nostra, effettuabile del socialismo; dico «nostra» in quanto fa del lavoro il soggetto unico dell'economia, ma respinge le meccaniche livellazioni di tutto e di tutti, livellazioni inesistenti nella natura e impossibili nella storia.
Tutti coloro che hanno l'animo sgombro da prevenzioni e da faziosi settarismi possono riconoscersi nel trinomio Italia, Repubblica, socializzazione.
Con questo noi intendiamo evocare sulla scena politica gli elementi migliori del popolo lavoratore. La capitolazione del settembre segna la liquidazione ontosa della borghesia, considerata globalmente come classe dirigente. Lo spettacolo da essa offerto è stato scandaloso. Si sono avuti incredibili fenomeni di abiezione, manifestazioni sordide di egoismo asociale e anazionale.
Come sempre sono appena meritevoli di compassione e, secondo i casi, di disprezzo, coloro che adeguano i loro sentimenti e le loro opinioni in vista degli sviluppi della guerra. Gli alti e bassi negli stati d'animo di molta gente prescindono dall'esame positivo della situazione, la quale, per essere complessa e universale, non può essere giudicata in base alle impressioni del momento, provocate spesso dall'assordante propaganda nemica.
Non solo la Germania non capitolerà mai, perché non può capitolare, dato che i nemici si propongono di annientarla e come Stato e come razza, ma ha ancora molte frecce nel suo arco, oltre a quella che può chiamarsi unanime decisione, ferrea volontà del suo popolo.
I nemici hanno fretta e lo dichiarano. Noi conosciamo i nostri dolori e sono molti, ma vi è qualcuno così volutamente ingenuo da credere che in Inghilterra, in Russia e anche negli Stati Uniti tutto proceda nel migliore dei modi? E voi ritenete che in Inghilterra non vi sia un gruppo abbastanza numeroso di persone intelligenti che si domandano: valeva la pena di scendere in campo contro il cosiddetto imperialismo tedesco, di perdere centinaia di migliaia di uomini oltre a tutte le posizioni dell'Estremo Oriente, per provocare l'affermazione di un imperialismo slavo, che ha già nel suo pugno tutta l'Europa dalla Vistola in là, dal Baltico - nota assai dolente per Londra! - al Mediterraneo? E non si odono già voci proclamanti che l'altezzosa e assurda formula di Casablanca della «resa senza condizioni » va riveduta, se non si vuole che ciò significhi l'ulteriore sacrificio di milioni di vite umane ? Poiché il più grande massacro di tutti i tempi ha un nome: democrazia; sotto la quale parola si nasconde la voracità del capitalismo giudaico, che vuole realizzare, attraverso la strage degli uomini e la catastrofe della civiltà cristiana, lo scientifico sfruttamento del mondo.
Realizzare nel proprio spirito queste verità significa rendersi conto che ad un certo momento gli eventi prenderanno un'altra direzione, e che gli sviluppi futuri della guerra, nei quali la scienza avrà una parte di importanza suprema, strozzeranno. nella gola dei nemici i troppo anticipati inni di vittoria. A questa fase della guerra noi intendiamo di partecipare: eliminando i complici del nemico all'interno e chiamando attorno a noi quanti italiani accettano il nostro trinomio programmatico. Qualunque cosa accada, noi non defletteremo di una sola linea dal programma che oggi, parlando a voi, o camerati della brigata nera, espressione ed onore del Fascio primogenito, ho voluto illustrare.
Inutilmente, sotto la protezione delle baionette straniere e mercenarie, gli uomini della resa a discrezione, cioè dell'infamia e della codardia, si accaniscono nella persecuzione contro i fascisti e il fascismo. Essi non fanno altro che documentarne la insopprimibile continuità. Ben sei partiti sono artificiosamente cementati da un vincolo solo e negativo: la persecuzione epuratrice ed iconoclastica al fascismo.
Questo fanno perché sentono che il presunto morto è ancora ben vivo, che è ancora nell'aria che essi respirano, nelle cose che esse incontrano ad ogni passo, negli insopprimibili segni materiali e spirituali che esso ha dovunque lasciato. Nessuna forza umana può cancellare dalla storia ciò che nella storia è entrato come una realtà e una fede. All'ombra dei gagliardetti neri sono caduti in un ventennio, in pace e in guerra, in Italia, in Europa, in Africa, decine di migliaia di fascisti, il fiore della razza italiana. Espressione eroica del fascismo, essi ne costituiscono la testimonianza e la salvaguardia imperitura.
Portate ai camerati milanesi, insieme col mio saluto, la eco della mia certezza nella conclusione vittoriosa per l'Italia e per l'Europa di questo colossale urto di civiltà, che prende nome dal fascismo.

(Al termine del discorso, i dirigenti del fascismo repubblicano milanese si sono stretti intorno al Duce, intonando. le vecchie canzoni della vigilia rivoluzionaria. La riunione si è svolta in uno stile prettamente militare e si è conclusa con una manifestazione di acceso entusiasmo).
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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:13 am    Oggetto:  
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NEL VENTIDUESIMO ANNUALE DELLA MARCIA SU ROMA

Presso Gargnano, il 28 ottobre 1944, si celebra il ventiduesimo anniversario della marcia su Roma. Personalmente, il Duce, davanti alle truppe schierate, ha proceduto alla consegna della bandiera di combattimento alla legione "Guardia del Duce". Al rito hanno assistito il maresciallo Graziani, l'ambasciatore del Giappone, il ministro von Halem, in rappresentanza dell'ambasciatore del Reich, il generale Wolff, comandante supremo delle S.S. e della Polizia in Italia, il vicesegretario del Partito, Pizzirani, ministri e personalità civili e militari. Salutato al suo giungere da una calorosa ovazione della folla assiepata lungo le strade e all'ingresso della caserma, il Duce ha passato rapidamente in rivista le truppe schierate. Quindi, salito sul podio, ha rivolto ai legionari le parole qui riportate.

Legionari !
Oggi, 28 ottobre, anniversario di un evento carico di destini per l'Italia e per il mondo, ho l'onore di consegnarvi la bandiera di combattimento. Ve la consegno nel nome e nella memoria dei nostri innumerevoli gloriosi caduti, memoria che voi rispetterete nel modo degno di soldati, compiendo sempre e dovunque il vostro dovere.
La bandiera della Repubblica Sociale Italiana è il simbolo della nostra fede assoluta nella riscossa della patria, è il pegno della nostra fedeltà non meno assoluta verso il nostro intrepido alleato, è la certezza del nostro vittorioso futuro. La bandiera è l'anima delle nostre anime.
Ricevendola, voi prestate solenne giuramento che mai, dico mai, sarà macchiata dal disonore e dalla viltà, ma sempre, in pace e in guerra, sarà difesa e consacrata col sangue.
Legionari !
Meditate su queste mie parole e siano esse la guida nella vostra vita di italiani e di fascisti.
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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:13 am    Oggetto:  
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IL DISCORSO AL “LIRICO” DI MILANO

Discorso pronunciato la mattina del 16 dicembre 1944 a Teatro “Lirico” di Milano.

Camerati, cari camerati milanesi!
Rinuncio ad ogni preambolo ed entro subito nel vivo della materia del mio discorso.
A sedici mesi di distanza dalla tremenda data della resa a discrezione imposta ed accettata secondo la democratica e criminale formula di Casablanca, la valutazione degli avvenimenti ci pone, ancora una volta, queste domande: Chi ha tradito? Chi ha subito e subisce le conseguenze del tradimento? Non si tratta, intendiamoci bene, di un giudizio in sede di revisione storica, e, meno che mai, in qualsiasi guisa, giustificativa.
È stato tentato da qualche foglio neutrale, ma noi lo respingiamo nella maniera più categorica e per la sostanza e in secondo luogo per la stessa fonte dalla quale proviene. Dunque chi ha tradito? La resa a discrezione annunciata l'8 settembre è stata voluta dalla monarchia, dai circoli di corte, dalle correnti plutocratiche della borghesia italiana, da talune forze clericali, congiunte per l'occasione a quelle massoniche, dagli Stati Maggiori, che non credevano più alla vittoria e facevano capo a Badoglio. Sino dal maggio, e precisamente il 15 maggio, l'ex-re nota in un suo diario, venuto recentemente in nostro possesso, che bisogna ormai «sganciarsi» dall'alleanza con la Germania. Ordinatore della resa, senza l'ombra di un dubbio, l'ex-re; esecutore Badoglio. Ma per arrivare all'8 settembre, bisognava effettuare il 25 luglio, cioè realizzare il colpo di Stato e il trapasso di regime.
La giustificazione della resa, e cioè la impossibilità di più oltre continuare la guerra, veniva smentita quaranta giorni dopo, il 13 ottobre, con la dichiarazione di guerra alla Germania, dichiarazione non soltanto simbolica, perché da allora comincia una collaborazione, sia pure di retrovie e di lavoro, fra l'Italia badogliana e gli Alleati; mentre la flotta, costruita tutta dal fascismo, passata al completo al nemico, operava immediatamente con le flotte nemiche. Non pace, dunque, ma, attraverso la cosiddetta cobelligeranza, prosecuzione della guerra; non pace, ma il territorio tutto della nazione convertito in un immenso campo di battaglia, il che significa in un immenso campo di rovine; non pace, ma prevista partecipazione di navi e truppe italiane alla guerra contro il Giappone.
Ne consegue che chi ha subito le conseguenze del tradimento è soprattutto il popolo italiano. Si può affermare che nei confronti dell'alleato germanico il popolo italiano non ha tradito. Salvo casi sporadici, i reparti dell'Esercito si sciolsero senza fare alcuna resistenza di fronte all'ordine di disarmo impartito dai comandi tedeschi. Molti reparti dello stesso Esercito, dislocati fuori del territorio metropolitano, e dell'Aviazione, si schierarono immediatamente a lato delle forze tedesche, e si tratta di decine di migliaia di uomini; tutte le formazioni della Milizia, meno un battaglione in Corsica, passarono sino all'ultimo uomo coi tedeschi.
Il piano cosiddetto «P. 44», del quale si parlerà nell'imminente processo dei generali e che prevedeva l'immediato rovesciamento del fronte come il re e Badoglio avevano preordinato, non trovò alcuna applicazione da parte dei comandanti e ciò è provato dal processo che nell'Italia di Bonomi viene intentato a un gruppo di generali che agli ordini contenuti in tale piano non obbedirono. Lo stesso fecero i comandanti delle Armate schierate oltre frontiera.
Tuttavia, se tali comandanti evitarono il peggio, cioè l'estrema infamia, che sarebbe consistita nell'attaccare a tergo gli alleati di tre anni, la loro condotta dal punto di vista nazionale è stata nefasta. Essi dovevano, ascoltando la voce della coscienza e dell'onore, schierarsi armi e bagaglio dalla parte dell'alleato: avrebbero mantenuto le nostre posizioni territoriali e politiche; la nostra bandiera non sarebbe stata ammainata in terre dove tanto sangue italiano era stato sparso; le Armate avrebbero conservato la loro organica costituzione; si sarebbe evitato l'internamento coatto di centinaia di migliaia di soldati e le loro grandi sofferenze di natura soprattutto morale; non si sarebbe imposto all'alleato un sovraccarico di nuovi, impreveduti compiti militari, con conseguenze che influenzavano tutta la condotta strategica della guerra. Queste sono responsabilità specifiche nei confronti, soprattutto, del popolo italiano.
Si deve tuttavia riconoscere che i tradimenti dell'estate 1944 ebbero aspetti ancora più obbrobriosi, poiché romeni, bulgari e finnici, dopo avere anch'essi ignominiosamente capitolato, e uno di essi, il bulgaro, senza avere sparato un solo colpo di fucile, hanno nelle ventiquattro ore rovesciato il fronte ed hanno attaccato con tutte le forze mobilitate le unità tedesche, rendendone difficile e sanguinosa la ritirata.
Qui il tradimento è stato perfezionato nella più ripugnante significazione del termine.
Il popolo italiano è, quindi, quello che, nel confronto, ha tradito in misura minore e sofferto in misura che non esito a dire sovrumana. Non basta. Bisogna aggiungere che mentre una parte del popolo italiano ha accettato, per incoscienza o stanchezza, la resa, un'altra parte si è immediatamente schierata a fianco della Germania.
Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai camerati giapponesi che l'apporto dato dall'Italia repubblicana alla causa comune dal settembre del 1943 in poi, malgrado la temporanea riduzione del territorio della Repubblica, è di gran lunga superiore a quanto comunemente si crede.
Non posso, per evidenti ragioni, scendere a dettagliare le cifre nelle quali si compendia l'apporto complessivo, dal settore economico a quello militare, dato dall'Italia. La nostra collaborazione col Reich in soldati e operai è rappresentata da questo numero: si tratta, alla data del 30 settembre, di ben settecentottantaseimila uomini. Tale dato è incontrovertibile perché di fonte germanica. Bisogna aggiungervi gli ex-internati militari: cioè parecchie centinaia di migliaia di uomini immessi nel processo produttivo tedesco, e molte altre decine di migliaia di italiani che già erano nel Reich, ove andarono negli anni scorsi dall'Italia come liberi lavoratori nelle officine e nei campi. Davanti a questa documentazione, gli italiani che vivono nel territorio della Repubblica Sociale hanno il diritto, finalmente, di alzare la fronte e di esigere che il loro sforzo sia equamente e cameratescamente valutato da tutti i componenti del Tripartito.
Sono di ieri le dichiarazioni di Eden sulle perdite che la Gran Bretagna ha subito per difendere la Grecia. Durante tre anni l'Italia ha inflitto colpi severissimi agli inglesi ed ha, a sua volta, sopportato sacrifici imponenti di beni e di sangue. Non basta. Nel 1945 la partecipazione dell'Italia alla guerra avrà maggiori sviluppi, attraverso il progressivo rafforzamento delle nostre organizzazioni militari, affidate alla sicura fede e alla provata esperienza di quel prode soldato che risponde al nome del maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani.
Nel periodo tumultuoso di transizione dell'autunno e inverno 1943 sorsero complessi militari più o meno autonomi attorno a uomini che seppero, col loro passato e il loro fascino di animatori, raccogliere i primi nuclei di combattenti. Ci furono gli arruolamenti a carattere individuale. Arruolamenti di battaglioni, di reggimenti, di specialità Erano i vecchi comandanti che suonavano la diana. E fu ottima iniziativa, soprattutto morale. Ma la guerra moderna impone l'unità. Verso l'unità si cammina.
Oso credere che gli italiani di qualsiasi opinione saranno felici il giorno in cui tutte le Forze Armate della Repubblica saranno raccolte in un solo organismo e ci sarà una sola Polizia, l'uno e l'altra con articolazioni secondo le funzioni, entrambi intimamente viventi nel clima e nello spirito del fascismo e della Repubblica, poiché in una guerra come l'attuale, che ha assunto un carattere di guerra «politica», la politicità è una parola vuota di senso ed in ogni caso superata.
Un conto è la «politica», cioè l'adesione convinta e fanatica all'idea per cui si scende in campo, e un conto è un'attività politica, che il soldato ligio al suo dovere e alla consegna non ha nemmeno il tempo di esplicare, poiché la sua politica deve essere la preparazione al combattimento e l'esempio ai suoi gregari in ogni evento di pace e di guerra.
Il giorno 15 settembre il Partito Nazionale Fascista diventava il Partito Fascista Repubblicano. Non mancarono allora elementi malati di opportunismo o forse in stato di confusione mentale, che si domandarono se non sarebbe stato più furbesco eliminare la parola «fascismo», per mettere esclusivamente l'accento sulla parola «Repubblica». Respinsi allora, come respingerei oggi, questo suggerimento inutile e vile.
Sarebbe stato errore e viltà ammainare la nostra bandiera, consacrata da tanto sangue, e fare passare quasi di contrabbando quelle idee che costituiscono oggi la parola d'ordine nella battaglia dei continenti. Trattandosi di un espediente, ne avrebbe avuto i tratti e ci avrebbe squalificato di fronte agli avversari e soprattutto di fronte a noi stessi.
Chiamandoci ancora e sempre fascisti, e consacrandoci alla causa del fascismo, come dal 1919 ad oggi abbiamo fatto e continueremo anche domani a fare, abbiamo dopo gli avvenimenti impresso un nuovo indirizzo all'azione e nel campo particolarmente politico e in quello sociale. Veramente più che di un nuovo indirizzo, bisognerebbe con maggiore esattezza dire: ritorno alle posizioni originarie. È documentato nella storia che il fascismo fu sino al 1927 tendenzialmente repubblicano e sono stati illustrati i motivi per cui l'insurrezione del 1922 risparmiò la monarchia.
Dal punto di vista sociale, il programma del fascismo repubblicano non è che la logica continuazione del programma del 1919: delle realizzazioni degli anni splendidi che vanno dalla Carta del lavoro alla conquista dell'impero. La natura non fa dei salti, e nemmeno l'economia.
Bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli organismi corporativi per compiere il passo, ulteriore della socializzazione. Sin dalla prima seduta del Consiglio dei ministri del 27 settembre 1943 veniva da me dichiarato che «la Repubblica sarebbe stata unitaria nel campo politico e decentrata in quello amministrativo e che avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale, tale da risolvere la questione sociale almeno nei suoi aspetti più stridenti, tale cioè da stabilire il posto, la funzione, la responsabilità del lavoro in una società nazionale veramente moderna».
In quella stessa seduta, io compii il primo gesto teso a realizzare la più vasta possibile concordia nazionale, annunciando che il Governo escludeva misure di rigore contro gli elementi dell'antifascismo.
Nel mese di ottobre fu da me elaborato e riveduto quello che nella storia politica italiana è il «manifesto di Verona», che fissava in alcuni punti abbastanza determinati il programma non tanto del Partito, quanto della Repubblica. Ciò accadeva esattamente il 15 novembre, due mesi dopo la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano.
Il manifesto dell'assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano, dopo un saluto ai caduti per la causa fascista e riaffermando come esigenza suprema la continuazione della lotta a fianco delle potenze del Tripartito e la ricostituzione delle Forze Armate, fissava i suoi diciotto punti programmatici.
Vediamo ora ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto e soprattutto perché non è stato fatto.
Il manifesto cominciava con l'esigere la convocazione della Costituente e ne fissava anche la composizione, in modo che, come si disse, «la Costituente fosse la sintesi di tutti i valori della nazione».
Ora la Costituente non è stata convocata. Questo postulato non è stato sin qui realizzato e si può dire che sarà realizzato soltanto a guerra conclusa. Vi dico con la massima schiettezza che ho trovato superfluo convocare una Costituente quando il territorio della Repubblica, dato lo sviluppo delle operazioni militari, non poteva in alcun modo considerarsi definitivo. Mi sembrava prematuro creare un vero e proprio Stato di diritto nella pienezza di tutti i suoi istituti, quando non c'erano Forze Armate che lo sostenessero. Uno Stato che non dispone di Forze Armate è tutto, fuorché uno Stato.
Fu detto nel manifesto che nessun cittadino può essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine dell'Autorità giudiziaria. Ciò non è sempre accaduto. Le ragioni sono da ricercarsi nella pluralità degli organi di Polizia nostri e alleati e nell'azione dei fuori legge, che hanno fatto scivolare questi problemi sul piano della guerra civile a base di rappresaglie e contro-rappresaglie. Su taluni episodi si è scatenata la speculazione dell'antifascismo, calcando le tinte e facendo le solite generalizzazioni. Debbo dichiarare nel modo più esplicito che taluni metodi mi ripugnano profondamente, anche se episodici. Lo Stato, in quanto tale, non può adottare metodi che lo degradano. Da secoli si parla della legge del taglione. Ebbene, è una legge, non un arbitrio più o meno personale.
Mazzini, l'inflessibile apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli albori della Repubblica romana nel 1849 un commissario ad Ancona per insegnare ai giacobini che era lecito combattere i papalini, ma non ucciderli extra-legge, o prelevare, come si direbbe oggi, le argenterie dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del Partito, merita doppia condanna.
Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole che il Partito, come si legge nel «manifesto di Verona», sia veramente «un ordine di combattenti e di credenti, un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell'idea rivoluzionaria».
Alta personificazione di questo tipo di fascista fu il camerata Resega, che ricordo oggi e ricordiamo tutti con profonda emozione, nel primo anniversario della sua fine, dovuta a mano nemica.
Poiché attraverso la costituzione delle brigate nere il Partito sta diventando un «ordine di combattenti», il postulato di Verona ha il carattere di un impegno dogmatico e sacro. Nello stesso articolo 5, stabilendo che per nessun impiego o incarico viene richiesta la tessera del Partito, si dava soluzione al problema che chiamerò di collaborazione di altri elementi sul piano della Repubblica. Nel mio telegramma in data 10 marzo XXII ai capi delle provincie, tale formula veniva ripresa e meglio precisata. Con ciò ogni discussione sul problema della pluralità dei partiti appare del tutto inattuale.
In sede storica, nelle varie forme in cui la Repubblica come istituto politico trova presso i differenti popoli la sua estrinsecazione, vi sono molte repubbliche di tipo totalitario, quindi con un solo partito. Non citerò la più totalitaria di esse, quella dei sovieti, ma ricorderò una che gode le simpatie dei sommi bonzi del vangelo democratico: la Repubblica turca, che poggia su un solo partito, quello del popolo, e su una sola organizzazione giovanile, quella dei «focolari del popolo».
A un dato momento della evoluzione storica italiana può essere feconda di risultati, accanto al Partito unico e cioè responsabile della direzione globale dello Stato, la presenza di altri gruppi, che, come dice all'articolo tre il «manifesto di Verona», esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione. Gruppi che, partendo dall'accettazione leale, integrale e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, socializzazione, abbiano la responsabilità di esaminare i provvedimenti del Governo e degli enti locali, di controllare i metodi di applicazione dei provvedimenti stessi e le persone che sono investite di cariche pubbliche e che devono rispondere al cittadino, nella sua qualità di soldato-lavoratore contribuente, del loro operato.
L'assemblea di Verona fissava al numero otto i suoi postulati di politica estera. Veniva solennemente dichiarato che il fine essenziale della politica estera della Repubblica è «l'unità, l'indipendenza, l'integrità territoriale della patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla storia».
Quanto all'unità territoriale, io mi rifiuto, conoscendo la Sicilia e i fratelli siciliani, di prendere sul serio i cosiddetti conati separatistici di spregevoli mercenari del nemico. Può darsi che questo separatismo abbia un altro motivo: che i fratelli siciliani vogliano separarsi dall'Italia di Bonomi per ricongiungersi con l'Italia repubblicana.
È mia profonda convinzione che, al di là di tutte le lotte e liquidato il criminoso fenomeno dei fuorilegge, l'unità morale degli italiani di domani sarà infinitamente più forte di quella di ieri, perché cementata da eccezionali sofferenze, che non hanno risparmiato una sola famiglia. E quando attraverso l'unità morale l'anima di un popolo è salva, è salva anche la sua integrità territoriale e la sua indipendenza politica.
A questo punto occorre dire una parola sull'Europa e relativo concetto. Non mi attardo a domandarmi che cosa è questa Europa, dove comincia e dove finisce dal punto di vista geografico, storico, morale, economico; né mi chiedo se oggi un tentativo di unificazione abbia migliore successo dei precedenti. Ciò mi porterebbe troppo lontano. Mi limito a dire che la costituzione di una comunità europea è auspicabile e forse anche possibile, ma tengo a dichiarare in forma esplicita che noi non ci sentiamo italiani in quanto europei, ma ci sentiamo europei in quanto italiani. La distinzione non è sottile, ma fondamentale.
Come la nazione è la risultante di milioni di famiglie che hanno una fisionomia propria, anche se posseggono il comune denominatore nazionale, così nella comunità europea ogni nazione dovrebbe entrare come un'entità ben definita, onde evitare che la comunità stessa naufraghi nell'internazionalismo di marca socialista o vegeti nel generico ed equivoco cosmopolitismo di marca giudaica e massonica.
Mentre taluni punti del programma di Verona sono stati scavalcati dalla successione degli eventi militari, realizzazioni più concrete sono state attuate nel campo economico-sociale.
Qui la innovazione ha aspetti radicali. I punti undici, dodici e tredici sono fondamentali. Precisati nella «premessa alla nuova struttura economica della nazione», essi hanno trovato nella legge sulla socializzazione la loro pratica applicazione. L'interesse suscitato nel mondo è stato veramente grande e oggi, dovunque, anche nell'Italia dominata e torturata dagli anglo-americani, ogni programma politico contiene il postulato della socializzazione.
Gli operai, dapprima alquanto scettici, ne hanno poi compreso l'importanza. La sua effettiva realizzazione è in corso. Il ritmo di ciò sarebbe stato più rapido in altri tempi. Ma il seme è gettato. Qualunque cosa accada, questo seme è destinato a germogliare. È il principio che inaugura quello che otto anni or sono, qui a Milano, di fronte a cinquecentomila persone acclamanti, vaticinai «secolo del lavoro», nel quale il lavoratore esce dalla condizione economico-morale di salariato per assumere quella di produttore, direttamente interessato agli sviluppi dell'economia e al benessere della nazione.
La socializzazione fascista è la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell'economia attraverso il totalitarismo di Stato e supera l'individualismo dell'economia liberale, che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell'economia capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere «sociale» delle comunità nazionali.
Attraverso la socializzazione i migliori elementi tratti dalle categorie lavoratrici faranno le loro prove. Io sono deciso a proseguire in questa direzione.
Due settori ho affidato alle categorie operaie: quello delle amministrazioni locali e quello alimentare. Tali settori, importantissimi specie nelle circostanze attuali, sono ormai completamente nelle mani degli operai. Essi devono mostrare, e spero mostreranno, la loro preparazione specifica e la loro coscienza civica.
Come vedete, qualche cosa si è fatto durante questi dodici mesi, in mezzo a difficoltà incredibili e crescenti, dovute alle circostanze obiettive della guerra e alla opposizione sorda degli elementi venduti al nemico e all'abulia morale che gli avvenimenti hanno provocato in molti strati del popolo.
In questi ultimissimi tempi la situazione è migliorata. Gli attendisti, coloro cioè che aspettavano gli anglo-americani, sono in diminuzione. Ciò che accade nell'Italia di Bonomi li ha delusi. Tutto ciò che gli anglo-americani promisero, si è appalesato un miserabile espediente propagandistico.
Credo di essere nel vero se affermo che le popolazioni della valle del Po non solo non desiderano, ma deprecano l'arrivo degli anglosassoni, e non vogliono saperne di un governo, che, pur avendo alla vicepresidenza un Togliatti, riporterebbe a nord le forze reazionarie, plutocratiche e dinastiche, queste ultime oramai palesemente protette dall'Inghilterra.
Quanto ridicoli quei repubblicani che non vogliono la Repubblica perché proclamata da Mussolini e potrebbero soggiacere alla monarchia voluta da Churchill. Il che dimostra in maniera irrefutabile che la monarchia dei Savoia serve la politica della Gran Bretagna, non quella dell'Italia!
Non c'è dubbio che la caduta di Roma è una data culminante nella storia della guerra. II generale Alexander stesso ha dichiarato che era necessaria alla vigilia dello sbarco in Francia una vittoria che fosse legata ad un grande nome, e non vi è nome più grande e universale di Roma; che fosse creata, quindi, una incoraggiante atmosfera.
Difatti, gli anglo-americani entrano in Roma il 5 giugno; all'indomani, 6, i primi reparti alleati sbarcano sulla costa di Normandia, tra i fiumi Vire e Orne. I mesi successivi sono stati veramente duri, su tutti i fronti dove i soldati del Reich erano e sono impegnati.
La Germania ha chiamato in linea tutte le riserve umane, con la mobilitazione totale affidata a Goebbels, e con la creazione della «Volkssturm». Solo un popolo come il germanico, schierato unanime attorno al Führer, poteva reggere a tale enorme pressione; solo un Esercito come quello nazionalsocialista poteva rapidamente superare la crisi del 20 luglio e continuare a battersi ai quattro punti cardinali con eccezionale tenacia e valore, secondo le stesse testimonianze del nemico.
Vi è stato un periodo in cui la conquista di Parigi e Bruxelles, la resa a discrezione della Romania, della Finlandia, della Bulgaria hanno dato motivo a un movimento euforico tale che, secondo corrispondenze giornalistiche, si riteneva che il prossimo Natale la guerra sarebbe stata praticamente finita, con l'entrata trionfale degli Alleati a Berlino.
Nel periodo di tale euforia venivano svalutate e dileggiate le nuove armi tedesche, impropriamente chiamate «segrete». Molti hanno creduto che grazie all'impiego di tali armi, a un certo punto, premendo un bottone, la guerra sarebbe finita di colpo. Questo miracolismo è ingenuo quando non sia doloso. Non si tratta di armi segrete, ma di «armi nuove», che, è lapalissiano il dirlo, sono segrete sino a quando non vengono impiegate in combattimento. Che tali armi esistano, lo sanno per amara constatazione gli inglesi; che le prime saranno seguite da altre, lo posso con cognizione di causa affermare; che esse siano tali da ristabilire l'equilibrio e successivamente la ripresa della iniziativa in mani germaniche, è nel limite delle umane previsioni quasi sicuro e anche non lontano.
Niente di più comprensibile delle impazienze, dopo cinque anni di guerra, ma si tratta di ordigni nei quali scienza, tecnica, esperienza, addestramento di singoli e di reparti devono procedere di conserva. Certo è che la serie delle sorprese non è finita; e che migliaia di scienziati germanici lavorano giorno e notte per aumentare il potenziale bellico della Germania.
Nel frattempo la resistenza tedesca diventa sempre più forte e molte illusioni coltivate dalla propaganda nemica sono cadute. Nessuna incrinatura nel morale del popolo tedesco, pienamente consapevole che è in gioco la sua esistenza fisica e il suo futuro come razza; nessun accenno di rivolta e nemmeno di agitazione fra i milioni e milioni di lavoratori stranieri, malgrado gli insistenti appelli e proclami del generalissimo americano. E indice eloquentissimo dello spirito della nazione è la percentuale dei volontari dell'ultima leva, che raggiunge la quasi totalità della classe. La Germania è in grado di resistere e di determinare il fallimento dei piani nemici.
Minimizzare la perdita di territori, conquistati e tenuti a prezzo di sangue, non è una tattica intelligente, ma lo scopo della guerra non è la conquista o la conservazione dei territori, bensì la distruzione delle forze nemiche, cioè la resa e quindi la cessazione delle ostilità.
Ora le Forze Armate tedesche non solo non sono distrutte, ma sono in una fase di crescente sviluppo e potenza.
Se si prende in esame la situazione dal punto di vista politico, sono maturati, in questo ultimo periodo del 1944, eventi e stati d'animo interessanti.
Pur non esagerando, si può osservare che la situazione politica non è oggi favorevole agli Alleati.
Prima di tutto in America, come in Inghilterra, vi sono correnti contrarie alla richiesta di resa a discrezione. La formula di Casablanca significa la morte di milioni di giovani, poiché prolunga indefinitamente la guerra; popoli come il tedesco e il giapponese non si consegneranno mai mani e piedi legati al nemico, il quale non nasconde i suoi piani di totale annientamento dei paesi del Tripartito.
Ecco perché Churchill ha dovuto sottoporre a doccia fredda i suoi connazionali surriscaldati e prorogare la fine del conflitto all'estate del 1945 per l'Europa e al 1947 per il Giappone.
Un giorno un ambasciatore sovietico a Roma, Potemkin, mi disse: «La prima guerra mondiale bolscevizzò la Russia, la seconda bolscevizzerà l'Europa». Questa profezia non si avvererà, ma se ciò accadesse, anche questa responsabilità ricadrebbe in primo luogo sulla Gran Bretagna.
Politicamente Albione è già sconfitta. Gli eserciti russi sono sulla Vistola e sul Danubio, cioè a metà dell'Europa. I partiti comunisti, cioè i partiti che agiscono al soldo e secondo gli ordini del maresciallo Stalin, sono parzialmente al potere nei paesi dell'occidente.
Che cosa significhi la «liberazione» nel Belgio, in Italia, in Grecia, lo dicono le cronache odierne. Miseria, disperazione, guerra civile. I «liberati»greci che sparano sui «liberatori» inglesi non sono che i comunisti russi che sparano sui conservatori britannici.
Davanti a questo panorama, la politica inglese è corsa ai ripari. In primo luogo, liquidando in maniera drastica o sanguinosa, come ad Atene, i movimenti partigiani, i quali sono l'ala marciante e combattente delle sinistre estreme, cioè del bolscevismo; in secondo luogo, appoggiando le forze democratiche, anche accentuate, ma rifuggenti dal totalitarismo, che trova la sua eccelsa espressione nella Russia dei sovieti.
Churchill ha inalberato il vessillo anticomunista in termini categorici nel suo ultimo discorso alla Camera dei Comuni, ma questo non può fare piacere a Stalin. La Gran Bretagna vuole riservarsi come zone d'influenza della democrazia l'Europa occidentale, che non dovrebbe essere contaminata, in alcun caso, dal comunismo.
Ma questa «fronda» di Churchill non può andare oltre ad un certo segno, altrimenti il grande maresciallo del Cremlino potrebbe adombrarsi. Churchill voleva che la zona d'influenza riservata alla democrazia nell'Occidente europeo fosse sussidiata da un patto tra Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Norvegia, in funzione antitedesca prima, eventualmente in funzione antirussa poi.
Gli accordi Stalin-De Gaulle hanno soffocato nel germe questa idea, che era stata avanzata, su istruzioni di Londra, dal belga Spaak. Il gioco è fallito e Churchill deve, per dirla all'inglese, mangiarsi il cappello e, pensando all'entrata dei Russi nel Mediterraneo e alla pressione russa nell'Iran, deve domandarsi se la politica di Casablanca non sia stata veramente per la «vecchia povera Inghilterra» una politica fallimentare.
Premuta dai due colossi militari dell'Occidente e dell'Oriente, dagli insolenti insaziabili cugini di oltre Oceano e dagli inesauribili euroasiatici, la Gran Bretagna vede in gioco e in pericolo il suo avvenire imperiale; cioè il suo destino. Che i rapporti «politici» tra gli Alleati non siano dei migliori, lo dimostra la faticosa preparazione del nuovo convegno a tre.
Parliamo ora del lontano e vicino Giappone. Più che certo, è dogmatico che l'impero del Sole Levante non piegherà mai e si batterà sino alla vittoria. In questi ultimi mesi le armi nipponiche sono state coronate da grandi successi. Le unità dello strombazzatissimo sbarco nell'isola di Leyte, una delle molte centinaia di isole che formano l'arcipelago delle Filippine, sbarco fatto a semplice scopo elettorale, sono, dopo due mesi, quasi al punto di prima.
Che cosa sia la volontà e l'anima del Giappone è dimostrato dai volontari della morte. Non sono decine, sono decine di migliaia di giovani che hanno come consegna questa: «Ogni apparecchio una nave nemica». E lo provano. Davanti a questa sovrumanamente eroica decisione, si comprende l'atteggiamento di taluni circoli americani, che si domandano se non sarebbe stato meglio per gli statunitensi che Roosevelt avesse tenuto fede alla promessa da lui fatta alle madri americane che nessun soldato sarebbe andato a combattere e a morire oltremare. Egli ha mentito, come è nel costume di tutte le democrazie.
È per noi, italiani della Repubblica, motivo di orgoglio avere a fianco come camerati fedeli e comprensivi i soldati, i marinai, gli aviatori del Tenno, che colle loro gesta s'impongono all'ammirazione del mondo.
Ora io vi domando: la buona semente degli italiani, degli italiani sani, i migliori, che considerano la morte per la patria come l'eternità della vita, sarebbe dunque spenta?
(La folla grida: «No! No!»). Ebbene, nella guerra scorsa non vi fu un aviatore che non riuscendo ad abbattere con le armi l'aeroplano nemico, vi si precipitò contro, cadendo insieme con lui? Non ricordate voi questo nome? Era un umile sergente: Dall'Oro.
Nel 1935, quando l'Inghilterra voleva soffocarci nel nostro mare e io raccolsi il suo guanto di sfida (la folla si leva in piedi con un grido unanime di esaltazione: «Duce! Duce! Duce!») e feci passare ben quattrocentomila legionari sotto le navi di Sua Maestà britannica, ancorate nei porti del Mediterraneo, allora si costituirono in Italia, a Roma, le squadriglie della morte. Vi devo dire, per la verità, che il primo della lista era il comandante delle forze aeree. Ebbene, se domani fosse necessario ricostituire queste squadriglie, se fosse necessario mostrare che nelle nostre vene circola ancora il sangue dei legionari di Roma, il mio appello alla nazione cadrebbe forse nel vuoto? (La folla risponde: «No!»).
Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po (grida: «Sì!»); noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l'Italia sia repubblicana. (Grida entusiastiche: «Si! Tutta!»). Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal nemico, il destino dell'intera nazione sarebbe compromesso; ma io sento, io vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po. (La folla prorompe in grida unanimi di consenso. Si grida: «Si! Sì!»).
Da quanto vi ho detto, balza evidente che non solo la coalizione nemica non ha vinto, ma che non vincerà. La mostruosa alleanza fra plutocrazia e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica come la esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di innocenti e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato in venti secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito eterno che tali monumenti innalzò.
La nostra fede assoluta nella vittoria non poggia su motivi di carattere soggettivo o sentimentale, ma su elementi positivi e determinanti. Se dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell'esistenza di Colui che regola, secondo giustizia, le sorti degli uomini.
Quando noi come soldati della Repubblica riprenderemo contatto con gli italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato. La delusione, la miseria, l'abbiezione politica e morale esplode non solo nella vecchia frase «si stava meglio», con quel che segue, ma nella rivolta che da Palermo a Catania, a Otranto, a Roma stessa serpeggia in ogni parte dell'Italia «liberata».
Il popolo italiano al sud dell'Appennino ha l'animo pieno di cocenti nostalgie. L'oppressione nemica da una parte e la persecuzione bestiale del Governo dall'altra non fanno che dare alimento al movimento del fascismo. L'impresa di cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella di sopprimerne l'idea, impossibile. (La folla grida: «Mai!»).
I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani confrontano ieri e oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava dalle Alpi all'equatore somalo e l'italiano era uno dei popoli più rispettati della terra.
Non v'è italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell'udire un nome africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono milioni di italiani che dal 1919 al 1939 hanno vissuto quella che si può definire l'epopea della patria. Questi italiani esistono ancora, soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi per riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto ed è oggi presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da migliaia e migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane, che non hanno dimenticato, né possono dimenticare.
Già si notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente colpito, ma non ha minimamente piegato.
Camerati, cari camerati milanesi!
È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!

(Interrotto sovente da applausi, lo storico discorso viene salutato alla fine da una manifestazione non meno appassionata di quella svoltasi all'ingresso di Mussolini nel teatro. Una, due, sei volte il Duce è costretto a risalire sul podio dall'affettuosa insistenza della folla, che non si stanca di acclamarlo e d'invocare un suo prossimo ritorno).
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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:14 am    Oggetto:  
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DALL'ARENGO DI PIAZZA SAN SEPOLCRO

Discorso pronunciato il pomeriggio del 16 dicembre 1944.

Camerati !
Ora che non ho innanzi a me il piccolo schermo di poche cartelle, mi sento in più diretta comunicazione col vostro spirito. Vi parlo e ci guardiamo negli occhi, e sentiamo che le nostre anime vibrano all'unisono, perché una sola fiamma le agita: l'amore profondo per questa Italia, che era grande e che, a costo di qualsiasi sacrificio, grande deve ritornare.
Camerati !
Non si ritorna dopo tanti anni in questa vostra e nostra città, non si ritorna in questo luogo senza essere afferrati da un intimo, irresistibile senso di emozione. Questa piazza è legata ad un avvenimento non solo della storia italiana, ma della storia mondiale.
Oggi, nella rapida corsa attraverso la vostra città, ho avuto la netta impressione delle tremende ferite che un nemico barbaro ed abbietto le ha inferto. Il popolo milanese ha dimostrato di reggere orgogliosamente a questi colpi; ha dimostrato la sua salda struttura morale e la sua forza.
Milano ha dimostrato ancora una volta di sapere accogliere nelle sue mura ospitali i profughi di ogni regione d'Italia, ha dimostrato che l'anima ambrosiana considera fratelli tutti gli italiani, dalle Alpi all'estremo lembo delle isole.
Mano mano che il nemico ha avanzato verso il nord, ha trovato sempre di più facce chiuse ed ostili, franchi tiratori che gli hanno sparato addosso. Firenze ha dato un esempio che ha riempito di orgoglio tutti gli italiani. Questo esempio è stato imitato da Forlì. Ed io sono sicuro che in tutte le città domani sarebbe altrettanto, perché ormai tutti conoscono di quale pasta siano fatti questi «liberatori ». Essi non ci portano che la schiavitù politica, il servaggio economico, l'abbiezione morale.
Un popolo degno di questo nome non è mai vinto finché non depone le armi.
E noi non le deporremo fino al giorno della vittoria.
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« LA GRANDE PRIMAVERA DELLA PATRIA È IMMINENTE »

Discorso pronunciato a Milano, da un balcone della caserma della legione autonoma Ettore Muti sita in via Rovello, la mattina del 17 dicembre 1944.

Se qualcuno dei nostri multicolori nemici, e dico multicolori perché accanto a pochi bianchi bastardi sono genti di tutte le razze, avesse assistito alla sfilata di oggi in via Dante, si sarebbe convinto che, malgrado il grigiore di questo autunno, la grande primavera della patria è imminente. Lo sento nel vostro entusiasmo, lo leggo nei vostri occhi.
Io so già che la eco delle manifestazioni milanesi è giunta ai legionari delle quattro divisioni che, addestrate in Germania sotto una severa disciplina e una forte preparazione, si accingono a liberare il suolo della patria.
Ognuno di voi deve sentirsi un soldato e fare sua questa consegna: tutto e tutti per l'Italia.

(Galvanizzata da queste frasi, esprimenti una fede incrollabile sull'esito della dura lotta che il paese sta sostenendo, la folla è scattata in una nuova, travolgente manifestazione, costringendo il Duce a riaffacciarsi più volte).
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AI LEGIONARI DELLA “GUARDIA NAZIONALE REPUBBLICANA"

A Milano, il 18 dicembre 1944, verso le 10, Mussolini visita la caserma Medici della Guardia Nazionale Repubblicana sita in via Lamarmora. Poi, nel cortile, passa in rivista «il gruppo corazzato Leonessa, il battaglione O.P. coi reparti di Como, Varese, Bergamo, Pavia, i reparti postelegrafonici e ferrovieri, le ausiliarie, la banda presidiaria ». Terminata la rivista, sale su un carro armato e rivolge ai legionari le parole qui riportate.

Legionari della Guardia!
Vi ho concesso l'alto onore di costituire nel seno dell'Esercito repubblicano la prima arma combattente. Voi dovete essere in ogni istante e nell'adempimento del vostro dovere in pace e in guerra degni di questo privilegio. Ho la certezza che voi lo farete, perché so che la fede che vi anima è ancora e sempre quella del glorioso squadrismo, artefice della rivoluzione delle camicie nere. In una sola parola io riassumo la consegna: voi dovete essere irreprensibíli, in modo che il popolo italiano sia in ogni istante fiero di voi.

(Quasi subito, per un incontenibile desiderio, i reparti hanno rotto le righe e si sono affollati intorno al Duce, chiamandolo a gran voce. A fatica Mussolini si è sciolto da quell'entusiasmo che voleva trattenerlo ed è risalito in macchina fra rinnovate grida d'entusiasmo e di fede).
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Giovanni




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MessaggioInviato: Ven Mar 13, 2009 8:15 am    Oggetto:  
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ALLE AUSILIARIE DELL'ESERCITO REPUBBLICANO

A Milano, la mattina del 18 dicembre 1944, lasciata la caserma Medici, Mussolini si dirige in auto verso il Castello Sforzesco.
Al Castello s'erano schierate le formazioni convenute per le cerimonie del giuramento di un battaglione d'ausiliarie e dell'inaugurazione del gagliardetto del Fascio femminile repubblicano milanese. Tutt'attorno, sì da occupare tutto il vastissimo cortile, erano formazioni delle varie armi dell'Esercito, dell'Aviazione, della Marina, della Guardia Nazionale Repubblicana, della Decima Mas. Giungevano frattanto tutte le autorità militari, politiche e civili italiane e germaniche e, alle 10.15, faceva il suo ingresso, dalla porta del Filarete, il maresciallo Graziani, accolto da insistenti applausi e da grida inneggianti al risorgente Esercito repubblicano. Preceduto da un rombo di acclamazioni, alle 10.30 precise, il Duce, ricevuto da Graziani, entrava col suo seguito nel cortile, passando in rivista i reparti; quindi assisteva alla benedizione del gagliardetto del Fascio femminile, impugnato da una giovane ausiliaria della brigata nera di Milano, essendo madrina la vedova di Aldo Resega, e si tratteneva, quindi, dopo aver baciato il drappo, con un balilla, Renato Loi, mutilato d'un piede in conseguenza d'un bombardamento aereo. Ecco finalmente Mussolini sul podio. Il segretario del Partito lancia un triplice " Saluto al Duce! " e dallo schieramento le grida d'invocazione al capo salgono possenti, fino a che gli squilli di tromba non avvertono che il Duce sta per parlare ». Le sue parole sono qui riportate.

Camerate ausiliarie!
Vi è stato riservato il privilegio di prestare il vostro giuramento in una ricorrenza memorabile nella storia della patria. Nove anni orsono ben cinquantadue Stati, manovrati come sempre da Londra, si schierarono nell'iniquo sinedrio ginevrino contro l'Italia fascista, tentando di comprometterne il futuro attraverso il più miserabile dei metodi: quello della fame. Il popolo italiano, raccolto in masse compatte intorno alle. insegne del Littorio, raccolse la sfida ginevrina e il giorno 18 dicembre del 1935 rispose nel più romano dei modi. Milioni e milioni di donne si raccolsero attorno all'ara sacra dei caduti e vi deposero i loro ori, ivi compreso l'anello nuziale.
Fu quella che si chiama da allora e si chiamerà sempre la « giornata della fede »; gesto spontaneo di tutte le donne italiane, che veramente in quel giorno emularono le donne di Roma antica. Il popolo italiano resisté, combatté, vinse ed alla fine ebbe ragione della coalizione nemica. (Grida: « Bene ! »).
Io sono sicuro che voi, o camerate ausiliarie, terrete fede in ogni circostanza e con animo purissimo al giuramento che oggi avete prestato, e ricordate: non lo avete prestato a me, ma lo avete prestato all'Italia !

(Un'ovazione imponente accoglie le parole del Duce, che saluta romanamente).
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Giovanni




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ELOGIO A PADOVA PER LA SUA FEDE NELLA SOCIALIZZAZIONE

Discorso pronunciato a Gargnano, alla villa delle Orsoline, il 20 febbraio 1945

Ho ascoltato con la più grande attenzione la vostra interessante ed esauriente relazione, che renderò di pubblica ragione, perché anche fuori dalla vostra provincia se ne tragga sprone e ammaestramento.
Davanti alla vostra documentazione si può affermare ed affermo, che Padova insegna. Ciò si deve, prima di tutto, alla collaborazione fraterna di tutte le autorità e di tutti gli enti, nonché alla concorde disciplina consapevole dei cittadini e dei rurali per cui si può dire che ogni energia è convogliata con impegno e intelligenza verso il comune obbiettivo.
I risultati, più che soddisfacenti, lo dimostrano. Voi avete camminato, con passo celere, verso quello che oramai comunemente si chiama lo “Stato del Lavoro” e cioè la Repubblica Sociale Italiana. Secondo i primi e immutabili postulati del fascismo. Oltre la socializzazione, cardine fondamentale della Repubblica, le classi operaie hanno ora la responsabilità amministrativa dei comuni e quella dei problemi annonari che interessano così da vicino il popolo.
A mano a mano che la Repubblica Sociale Italiana consolida la sua struttura e diventa sempre più regime di popolo, è necessario che essa sia difesa sui fronti di battaglia, onde impedire il ritorno delle forse reazionarie monarchiche e capitalistiche, rappresentate dal regio Governo dei traditori di Roma. La partecipazione alla guerra e la trasformazione sociale all’interno devono procedere di conserva, poiché sono interdipendenti. Se vi fossero nelle nostre file elementi che non si rendono conto della assoluta necessità di questa duplice direttrice di marcia, si tratta di elementi reazionari nel peggior senso della parola e, come tali, devono essere allontanati dai nostri ranghi.
Vi ringrazio, malgrado le difficoltà del viaggio, di essere venuti sin qui e vi prego di portare il mio saluto alle categorie lavoratrici della vostra città e della vostra provincia, le quali dimostrano cion fatti concreti di essere degne di un sempre miglio destino.

Le parole del Duce sono state accolte dai presenti con una manifestazione di vibrante fede nei destini della Repubblica
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Giovanni




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NEL SETTIMO ANNUALE DELLA MORTE DI D'ANNUNZIO

Al Vittoriale degli italiani, il pomeriggio del 1° marzo 1945, si celebra il settimo annuale della morte di Gabriele d'Annunzio. «Alle ore 17 in punto è giunto il Duce, salutato da una calorosa manifestazione di entusiasmo popolare. Dopo aver passato in rivista i reparti armati della legione M, guardia del Duce, delle brigate nere alpine e della Decima Mas, schierati all'ingresso, il Duce si è portato sulla piazzetta dove sorge il loculo provvisorio che raccoglie le spoglie del Comandante. Corone di lauro e di fiori erano state deposte a terra. Il Duce ha sostato in silenzio nell'interno della cappella, mentre il trombettiere squillava l’" attenti! " e tutti gli astanti si irrigidivano, levata alta la destra, nel saluto romano. Subito dopo il Duce, accompagnato dall'architetto Maroni e dall'accademico Ercole e seguito dalle autorità, si è portato attraverso i viali del Vittoriale sulla punta della nave Puglia. Dappertutto al suo passaggio si sono levate incontenibili grida di saluto. Quindi il Duce è salito al mausoleo tuttora in costruzione, dove ha portato il suo tributo di omaggio alle arche che raccolgono le spoglie di dieci legionari fiumani. Il cappellano militare ha impartito la benedizione alle arche. Subito dopo il Duce si è recato sulla parte più alta del mausoleo stesso, che dovrà raccogliere la definitiva tomba del Comandante, ed ha pronunziato una breve orazione commemorativa del Poeta ». Le sue parole sono qui riportate.

Da sette anni assente e presente attende su questo eremo colui che durante cinquanta anni, con la poesia e con le azioni, sui campi di battaglia della terra, del mare e del cielo, esaltò come nessun altro le virtù della nostra razza.
Coloro che ebbero dimestichezza con lui sanno che gli non amava che lo si chiamasse Poeta soldato, ma egli lo fu nell'espressione più pura della parola, nell'incarnazione più eccelsa, da Tirteo a Mameli.
Oggi egli è qui fra i suoi intrepidi legionari, che trovano definitivo riposo nelle arche marmoree che sfideranno il tempo e le generazioni. Egli è qui, qui tra noi, e non mai come in questi tempi di universale palingenesi abbiamo acutamente sentito la mancanza della sua voce. Con quali parole egli avrebbe bollato col marchio rovente dell'infamia il gesto del re traditore e fuggiasco e dei suoi non meno miserabili complici della resa a discrezione ? E come, in un altro momento grigio della nostra patria, non avrebbe egli trovato le parole per risospingere il popolo percosso e sperduto verso la linea del fuoco, verso la linea del combattimento e dell'onore, accanto ai camerati germanici, che con un inesauribile coraggio tengono. e terranno testa al mondo intero ? (Acclamazioni).
E come non avrebbe egli dato la sua aperta adesione alla nostra Repubblica, egli che nel 1920, con colui che vi parla in questo istante, tracciò le linee di una marcia repubblicana verso Roma ?
La morte improvvisa, quella che tutti i combattenti prediligono, lo colse al suo tavolo di lavoro ancora gagliardo, perché il volgere degli anni non lo aveva toccato, al tavolo del lavoro per l'Italia e sempre per l'Italia.
I piccoli traditori di Roma, che non ne apprezzarono mai la multiforme grandezza, hanno tentato di inscenargli un postumo processo morale. Con ciò essi hanno dato la prova insuperabile della loro abiezione.
Per qualche tempo dopo la sua morte si fece alquanto silenzio attorno al suo nome. I morti chiedono un po' di solitudine. Oggi il ritmo delle sue poesie suona incalzante ai nostri spiriti, e noi lo consideriamo come il vessillifero della riscossa della nazione. E ora che vi ho parlato, ho quasi l'impressione che lo spirito del Poeta aggirantesi fra questi olivi e cipressi mi domandi: « Perché mi hai commemorato ? ». Perché veramente è difficile commemorare un uomo dall'anima molteplice come quella di Gabriele d'Annunzio. Noi gli rispondiamo: « No, Comandante, tu non sei morto e tu non morirai fino a quando, piantata nel mezzo del Mediterraneo, sta una penisola che si chiama Italia. (Prolungati applausi; la folla acclama lungamente al Duce). Tu non sei morto e non morirai fino a quando, nel centro di questa penisola, vi è una città nella quale ritorneremo, e che si chiama Roma ».

(L'orazione è stata più volte interrotta dalle acclamazioni, particolarmente fervide quando il Duce ha esaltato l'incomparabile sforzo bellico del popolo germanico e ha riaffermato la sua certezza nel vittorioso ritorno delle nostre armi a Roma).
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Giovanni




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A QUATTROCENTO UFFICIALI DELLA GUARDIA NAZIONALE REPUBBLICANA

Presso Brescia, nella sede del Comando generale della Guardia Nazionale Repubblicana, il pomeriggio del 6 marzo 1945, Mussolini passa in rivista quattrocento ufficiali della Guardia stessa. Indi, alla presenza del ministro Pavolini, del sottosegretario Barracu, del generale Nicchiarelli e di altre personalità, tiene rapporto agli ufficiali. In tale occasione, pronuncia il discorso qui riportato.

Questo, camerati ufficiali della Guardia, può essere il primo di una serie di rapporti attraverso i quali io intendo riprendere contatto non soltanto morale, ma vorrei dire fisico, con voi e con i vostri legionari.
Prima di dirvi alcune cose che vi potranno in qualche guisa interessare, desidero, non per una mera formalità, ma per un impulso profondo del mio spirito, sicuro di interpretare anche il vostro sentimento, rivolgere un commosso saluto ai duemilasettecentosessantatre legionari (tutti i presenti scattano sull'« attenti ! ») che sono caduti dal settembre 1943 a oggi per tenere fede all'idea fascista, per tenere fede all'alleanza con la Germania, per tenere fede soprattutto ai destini della patria. E ricordo anche i tremilasettecentosette feriti.
Saluto anche qui, non per una vuota formalità, i nostri camerati che sono in Balcania da mesi e anni. Essi hanno ragione di ritenersi dimenticati, perché molti di essi da quaranta mesi non vedono più l'Italia. Durante questo periodo di tempo hanno avuto scarse notizie dai loro familiari, mai un giorno di licenza, hanno subito, ben più di coloro che sono stati in Italia, tutte le conseguenze del tradimento del settembre. Hanno visto con i loro occhi lo scherno delle popolazioni che noi avevamo amministrate, hanno assistito con profonda umiliazione all'ammainare delle nostre bandiere in territori che erano stati bagnati dal sangue dei soldati italiani, mentre i civili italiani venivano abbandonati alle rappresaglie di gente primitiva.
Credo che la loro sofferenza sia stata tale da lasciare un solco indelebile nelle loro anime. Di quando in quando essi mi scrivono e hanno tuttavia un morale altissimo. Hanno combattuto con i camerati germanici in circostanze sempre straordinariamente difficili, hanno lasciato centinaia di camerati caduti nelle contrade di quella infida Balcania che sarà sempre una terra di torbida razza.
Camerati ufficiali!
Voi dovete tenere il contatto continuo con i legionari. L'epoca dell'ufficiale distante dai suoi uomini è terminata. Bisogna stare con i legionari, vivere con i legionari, assisterli, interpretarli, anche quando non sanno esprimersi, essere dei curatori di anime, non soltanto degli uomini che impartiscono degli ordini. L'obbedienza deve essere sempre pronta, cieca, assoluta, ma oggi deve essere anche intelligente. Colui che obbedisce deve essere convinto che il suo dovere è quello di obbedire. Così voi potrete avere alla mano i vostri uomini e potrete loro chiedere quello che essi devono dare. Ma, soprattutto, l'esempio, o camerati.
Il soldato si specchia nel suo ufficiale e il legionario deve trovare nel suo ufficiale la sua guida, il suo maestro, l'uomo che è animato da una fede indomita.
Dovete essere i propagatori di questa fede assoluta, dogmatica, nella vittoria. Colui che, dubita è già un vinto che si prepara a piegare il ginocchio davanti al vincitore. Nessuno è mai vinto fino al giorno in cui si dichiara vinto. Da quel giorno c'è un vinto e un vincitore; mai prima.
Secondo. La collaborazione con i camerati germanici deve essere quotidiana, schietta, leale, senza riserve. Qualche volta le difficoltà della lingua, dei temperamenti, possono farsi sentire, ma bisogna ricordarsi che siamo sulla stessa nave e vogliamo insieme raggiungere vittoriosamente il porto.
Terzo. Io non amo, ve lo dico con la massima schiettezza, coloro che fanno sempre i conti su quello che essi o gli altri ricevono. Quando un legionario fa questo, non è più un legionario, ma un mercenario. Con questo non voglio dire che i bisogni della vita non devono essere soddisfatti, che non si debba pensare alle famiglie, alle vostre famiglie, ma i confronti sono sempre odiosi e forse inattuali, perché le disuguaglianze saranno riparate.
Ottima cosa lo spirito di corpo. Ognuno deve essere fiero di militare sotto il proprio reparto, ma questo spirito non deve diventare esclusivismo di corpo, assumere cioè aspetti grotteschi, che lo rendono ridicolo; mentre, viceversa, deve essere la coscienza di un dovere che si compie con purezza di spirito, una tradizione sempre più profonda, che diventa il patrimonio spirituale del corpo cui si appartiene.
Ancora. Non vi è dubbio che la tecnica del colpo di Stato del 25 luglio fu perfetta. Fu un capolavoro. Tutto era stato predisposto fino nei più minuti dettagli di uomini, di luogo, di tempo. Se lo Stato Maggiore regio avesse preparato con la stessa finitura le sue battaglie, a quest'ora io vi parlerei in una piazza del Cairo, non in un sobborgo di Brescia. (Segni di consenso e di vivissima approvazione). Evidentemente il fascismo fu sorpreso. Ebbene, bisogna intendersi. Il tradito può essere ingenuo, ma il traditore è sempre un infame. (Vivissime acclamazioni).
Molti capi tradirono, ma le masse dei fascisti furono sorprese. Già da tempo gli autori che prepararono il tradimento ponevano sempre il dilemma: che fa la Milizia ? Se la Milizia resta nell'interno per vigilare, si dirà: la Milizia è imboscata, non fa la guerra. Ed effettivamente fra lo stare all'interno o l'andare al fronte, tutti i legionari preferirono di gran lunga la seconda soluzione. Ma i traditori intanto raggiungevano il loro scopo di allontanarli. Così i migliori della Milizia erano altrove, oltre le frontiere metropolitane. Il fascismo si trovò quindi nell'impossibilità quasi pratica di operare una resistenza immediata.
Ci fu la fase dell'annebbiamento. La gente rimase confusa: « La guerra continua ». L'altro traditore, il sabaudo, che continuava una lunga tradizione, che va da Carlo Alberto in poi, proclamava che non bisognava fare recriminazioni. I capi del fascismo delle provincie furono richiamati. La confusione fu grande. Evidentemente eravamo di fronte a una immaturità di almeno una parte del popolo italiano. Né si può pretendere che in vent'anni di regime si trasformi profondamente la struttura morale di un popolo. Ci vogliono alcune generazioni. Bisogna pensare che dal 1530 in poi, dalla caduta della Repubblica fiorentina, ci furono due secoli di imbellicosità, durante i quali, con l'esclusione del Piemonte, nessuna parte dell'Italia aveva Forze Armate. E un granduca di Toscana aveva anche trovato una formula che giustificava in un certo senso la sua imbellicosità. Egli diceva: « Principoni, caserme e cannoni, - principini, ville e casini ». (Si ride).
La Germania era stata frantumata, col trattato di Westfalia del 1648, in trecentotrè Stati: un vero rompicapo, parole incrociate. E quando Napoleone fece in Italia la prima leva, si trovò di fronte a una massa di uomini dai quali pensava che non avrebbe potuto cavare mai una massa di soldati degni di questo nome. Eppure Napoleone stesso, nelle sue memorie di Sant'Elena, dopo aver visto i soldati italiani battersi con lui in Russia - e sarà bene che voi sappiate che gli unici reparti che non abbandonarono Napoleone durante la ritirata della Russia furono alcuni squadroni di cavalleria napoletani e reparti di esploratori toscani (i francesi lo mollarono) - dopo aver visto i piemontesi battersi ad Austerlitz, scrisse che dalla vecchia razza italiana era possibile in determinate circostanze trarre fuori dei soldati valorosi, poiché il popolo italiano, individualmente preso, quanto a coraggio personale non ha nulla da invidiare a nessun altro popolo della terra.
Gli italiani che non hanno paura di giocare la loro pelle. sono numerosi; più di quanto non si pensi. (Approvazioni).
Dicevo dunque che fummo sorpresi; aggiungo però che non saremo più sorpresi. (Acclamazioni).
Noi abbiamo promesso - l'ho dichiarato nel discorso di Milano - che difenderemo la valle del Po città per città, casa per casa. Questo è un impegno sacro che dobbiamo prendere e che prenderemo, e bisogna preparare i legionari per questa difesa. (Applausi). Io sono sicuro che ognuno di voi sarà fiero soprattutto se potrà portare i legionari al combattimento.
La Guardia ha già dato una divisione, che si batte con l'artiglieria contraerea e anticarro. Questi ragazzi dapprima ebbero qualche esitazione, ma oggi sono lieti di stare al cannone, la gran bocca che parla con voce intelligibile a tutti.
Noi fummo sorpresi alla fine di un periodo che definisco il periodo del fascismo che aveva accettato la monarchia, noi non possiamo e non vogliamo essere sorpresi nella fase del fascismo che è repubblicano. (Approvazioni).
Se poi gli avvenimenti ci permettessero di irrompere oltre l'Appennino - nessuno può escluderlo - io credo che troveremmo un'ondata di entusiasmo come forse non supponiamo nemmeno. (Vivissime approvazioni).
Non vi ho detto stasera cose di eccezionale interesse. L'importante, o camerati ufficiali, è quello di tenere duro. E finisco al punto in cui ho cominciato: mettetevi bene in testa che la Germania non può essere battuta. Non può essere battuta per una ragione molto semplice: che si tratta per lei, come per noi del resto, di vita o di morte. Si gioca a carte scoperte. Non si dice alla Germania, come all'epoca dei famosi quattordici punti di Wilson: se cambi regime, tu avrai delle facilitazioni, che poi non ci furono nemmeno allora. Oggi si dice chiaramente, dopo Yalta, che la Germania deve essere distrutta in quanto popolo.
È chiaro che il popolo tedesco, dal più alto dei cittadini, che è il Fuhrer, all'ultimo dei suoi operai, è impegnato in una lotta per la vita e per la morte. Oggi lo Stato Maggiore tedesco e il popolo tedesco sono storicamente giustificati, dinanzi a Dio e agli uomini, se ricorrono a tutte le armi pur di non soccombere. (Applausi prolungati).
Quanto vi ho detto sarà per voi una guida e un viatico per quella che è la vostra missione quotidiana. E’ appunto nei tempi difficili e straordinari che si misura la tempra delle anime. In tempi di bonaccia ognuno è capace di navigare.
Voi dovete rimeditare le mie parole e trasfonderle nei vostri legionari, fare di quanto vi ho detto uno strumento per il vostro orientamento quotidiano e soprattutto essere convinti che il fascismo non può essere cancellato dalla storia d'Italia. (Si grida: « Mai! »). Faranno, nell'Italia invasa, tutto quello che vorranno e dimostrano ancora di essere poco intelligenti, ma tutto ciò che è entrato nella storia non si cancella e noi abbiamo lasciato tracce troppo profonde nelle cose e negli spiriti degli italiani per pensare che questi resuscitati dalle tombe, nelle quali erano fino ad ieri vissuti e nelle quali avremmo dovuto definitivamente cacciarli (vivissime approvazioni), possano combattere e vincere le nostre generazioni e le nostre idee, che rappresentano e rappresenteranno la vita e il futuro della patria.
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Giovanni




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NEL VENTISEIESIMO ANNUALE DELLA FONDAZIONE DEI FASCI

Presso Bogliaco, davanti alla caserma della legione M, il 23 marzo 1945, si celebra il ventiseiesimo annuale della fondazione dei Fasci. Al rito prendono parte i rappresentanti del Governo e del Partito e le più alte gerarchie militari e politiche della Repubblica Sociale. La legione M, guardia del Duce, e i reparti in armi della Decima Mas, delle brigate nere, della Marina repubblicana, della Polizia, delle S.S., della Wehrmacht erano schierati in attesa dell'arrivo del Duce, il quale è giunto alle 17.30, accompagnato dal maresciallo Graziani, dal vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano, Bonino, dal capo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana, generale Nicchiarelli, e seguito dai ministri Zerbino, Mezzasoma, Romano, Tarchi, Liverani, dal sottosegretario medaglia d'oro Barracu e dal consigliere Bock, in rappresentanza dell'ambasciatore del Reich. Il Duce, acclamato entusiasticamente dalla popolazione ammassatasi intorno alle truppe, ha passato in rivista i reparti in armi. Indi pronuncia il discorso qui riportato.

Quanti erano gli italiani che il 23 marzo 1919, raccogliendo il mio appello, si riunirono a Milano nella piazza San Sepolcro ?
Un centinaio. Chi erano ?
I superstiti dell'interventismo, i ritornati dalle trincee, coloro che avevano sempre combattuto e non avevano mai disperato. Non c'erano a quell'assemblea quelli che io bollai come i « maddaleni pentiti », qualche cosa di simigliante agli alibisti dell'epoca nella quale viviamo. Da quali classi venivano ? Da tutte. Erano poeti, artisti, professionisti, studenti, impiegati, operai.
Quale programma ? Programma audace. Un programma che tendeva a risolvere i problemi più urgenti, più immediati della vita nazionale, e apriva ampi varchi per tutte le possibilità dell'avvenire.
Chi avevamo di fronte ? Gli stessi di oggi. I venduti al nemico, i predicatori di una pace ad ogni costo, i vessilliferi della rinuncia, gli speculatori sul sangue e sul sudore del popolo. Parevano i dominatori dell'epoca ed avevano inaugurato la corsa al più rosso. Anche allora folle di illusi e di mentecatti guardavano a Mosca, come se da Mosca dovessero venire il verbo e la felicità per il genere umano. Eravamo pochi, ma decisi. E quantunque gli altri vantassero di avere dietro di sé delle masse compatte, noi li affrontammo. con estrema energia e ci convincemmo che, fatta astrazione di qualche decina di criminali autentici, dietro ai capi non c'era che una massa esaltata ma conservatrice. Li affrontammo nelle piazze, li andammo a cercare nei loro rifugi e cominciò la battaglia che dura tutt'oggi.
La situazione di allora aveva degli strani aspetti, simiglianti all'attuale. Anche allora un Governo di confusionari e di rinunciatari, un Governo che il Poeta bollò con frasi roventissime, che si incidevano per sempre nel più vivo delle carni.
Tre anni di battaglie, durante le quali fu sparso preziosissimo sangue, il miglior sangue della migliore gioventù italiana. Caddero a migliaia i nostri martiri. Poi, nell'ottobre del 1927, occupammo piazze e strade d'Italia, entrammo a Roma ed iniziammo la nuova vita del regime, nato dalla rivoluzione delle camicie nere.
Quello che abbiamo fatto in vent'anni è consegnato alla storia, è consegnato alle pietre e più ancora agli spiriti. Nessuna forza umana riuscirà a cancellare quella che è la documentazione della nostra indomabile volontà di creazione e di ricostruzione.
Oggi la storia ci afferra per la gola e ci pone dinanzi a nuovi compiti, ad una situazione durissima, provocata da un tradimento miserando, ontoso, per cui bisogna chiamate a raccolta tutte le sane energie della nazione, per spingerle di nuovo accanto ai camerati germanici, sulla linea dèl fuoco, dove solo si può riscattare l'onore del popolo italiano. (Alte, prolungate acclamazioni).
Io richiamo la vostra attenzione su questa immagine plastica, che ci darà l'idea di quello che eravamo e di quello che siamo. Cinque anni fa il tricolore dell'Italia era issato sul « ghebbi » del Negus di Addis Abeba. Oggi, dopo cinque anni, i traditori hanno portato i negri nella terra di Toscana, di quella Toscana che ha dato al mondo una fioritura di geni come nessun altro popolo della terra diede mai.
Io so, io sento, e dovrei dubitare della vostra qualità di italiani, di fascisti, di legionari se ciò non fosse, io sento che questa immagine, questa constatazione brucia ai vostri cuori, tende le vostre volontà e vi fa dire che, piuttosto che durare in una situazione come questa, vale mille volte meglio morire.
(Un solo urlo risponde: « Sì! »).
E morire in combattimento, come tutti gli uomini liberi e degni di questo nome preferiscono di morire. No, l'uomo libero, l'uomo forte non desidera di finire i suoi giorni, di trascinarli in un letto, inchiodato da una delle troppe malattie che tormentano il genere umano. I veri soldati, i veri guerrieri desiderano di misurarsi col nemico, di guardarlo, se possibile, nel bianco degli occhi, abbatterlo e convincerlo che vi sono degli italiani, moltissimi italiani, per fortuna, i quali non accetteranno mai e poi mai l'onta e il disonore del tradimento, ma faranno di tutto, in ogni istante della loro vita, in ogni movimento dei loro pensieri, per capovolgere la situazione, per inaugurare il nuovo capitolo della storia, che ci deve riportare là dove eravamo e dove vogliamo tornare.
(Altissime acclamazioni).
Per questo occorre tendere tutte le energie, convogliare tutti gli sforzi, armonizzare tutte le volontà. E fare in ogni istante il proprio dovere. Non compiere il proprio dovere da rimorchiati. Fare il proprio dovere da uomini consapevoli, obbedire non perché ciò sta scritto nel regolamento di disciplina, ma perché ciò corrisponde a un intimo convincimento della coscienza, a un imperativo categorico della vostra fede. Questa è l'obbedienza dei veri soldati, dei veri combattenti, degli uomini liberi.
E voi soprattutto, che costituite la mia legione, dovete compiere il vostro dovere in una misura che io non esito a reclamare perfetta. La vostra condotta deve essere irreprensibile. Dovete essere di esempio a tutti nell'adempimento del vostro dovere quotidiano e, domani, nell'ora della battaglia. Forse è quest'ora che voi soprattutto desiderate. Uscire dai binari di quella che è la necessaria normalità della vita per vivere le ore che non si dimenticano più. Convincetevi che un uomo il quale evita scrupolosamente tutte le guerre, sarà tutto fuori che un uomo. Perché solo la battaglia completa l'uomo, solo chi rischia la propria vita, solo chi non teme di dare il proprio sangue, quegli è uomo. Se così non fa, è uno schiavo che merita le catene. Vi prego di riflettere a quello che vi ho detto e di preparare i vostri muscoli, le vostre volontà e la vostra fede per l'ora della riscossa.

(Il discorso, di frequente interrotto da applausi e da segni di vivo consenso, è stato da ultimo salutato da un'ardente manifestazione di entusiasmo, mentre gli uomini in armi levavano il alto le insegne).
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AI FASCISTI DI MILANO, DELLA PROVINCIA E AI FASCISTI PROFUGHI

A Milano, la mattina del 22 aprile 1945, i fascisti della città, della provincia,e quelli profughi si adunano in piazza San Sepolcro e chiedono subito a gran voce di conoscere quali sono gli ordini impartiti da Mussolini. Una camicia nera del gruppo rionale Cesare Battisti grida: « Per ventisei anni abbiamo seguito il Duce. Ora è bene che egli segua noi, altrimenti i suoi ministri chissà dove lo portano! ». Allora il commissario federale di Milano, Vincenzo Costa, decide, di sua iniziativa, di guidare i presenti a palazzo Monforte. Entrati nel cortile della prefettura, i fascisti si dispongono in quadrato e cominciano a scandire: « Duce! Duce! ». Finalmente egli appare nel vano di una finestra. Visibilmente lieto, rimane un attimo a guardare la massa che lo invoca. Poi fa un cenno con una mano che sarebbe disceso. Quando appare nel centro del cortile, le invocazioni dei fedeli divengono più insistenti. Fattosi silenzio, Costa rivolge il seguente breve indirizzo a Mussolini: «Duce! I fascisti di Milano, della provincia ed i fascisti profughi sono convenuti stamane in piazza San Sepolcro per chiedermi quali erano i vostri ordini. Io personalmente ancora nessun ordine ho ricevuto. Noi siamo qui per obbedirvi. Vi saremo fedeli sino alla morte! Comandateci!». Indi Mussolini pronuncia le parole qui riportate.

Cari camerati milanesi ! Cari camerati profughi !
Avete fatto bene a venirmi a trovare stamane. Ho sentito ancora una volta i palpiti dei vostri cuori generosi.
Si stanno prendendo decisioni importantissime; gli ordini, quindi, non mancheranno.
Le prossime ore potranno decidere le sorti della guerra. Forse il Po diventerà fronte di battaglia.
Bisogna saper resistere. Resistendo, avremo la possibilità di trattare una pace onorevole.
Ma qualunque cosa dovesse accadere, ricordatevi che il cameratismo conservato nelle ore terribili della patria ci dovrà tenere più che mai uniti.

(Le parole di Mussolini sono seguite da applausi entusiastici e da acclamazioni. Una giovane fascista esce dal quadrato e lo abbraccia).
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