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I discorsi di Mussolini
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 2:41 pm    Oggetto:  
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FASCISMO E SINDACALISMO

Discorso pronunciato a Milano, nel teatro « Lirico », la mattina del 4 giugno 1922, durante la cerimonia inaugurale del primo congresso nazionale delle Corporazioni sindacali.

Cari amici!
Assolvo con vivo entusiasmo l'incarico che mi è stato affidato dalla Direzione del Partito, dal Fascio Milanese e dal Gruppo parlamentare fascista, di portare il saluto cordiale e fraterno di tutto il fascismo italiano alla prima adunata nazionale delle Corporazioni sindacali. Dico con vivo entusiasmo non per fare della retorica. La frase risponde veramente, intimamente, al mio pensiero e al mio sentimento. Ho l'immodestia di ricordare che io sono stato uno dei primi in Italia, nell'immediata dopoguerra, che ha tentato ed è riuscito a mettere in circolazione i concetti del sindacalismo nazionale o fascista. Il seme non fu gettato invano se oggi, a così breve distanza di tempo, ci è concesso di assistere a questa imponentissima adunata di forze autentiche dell'autentico popolo lavoratore italiano. Non si tratta ormai di indagare se si debba o non si debba fare del sindacalismo perché il quesito è già stato risolto, prima ancora che dalle teorie, dalle pratiche necessità della vita.
Signori!
Bisogna, quando si vuole vincere, sabotare e distruggere il nemico in tutti i suoi ripari, in tutte le sue trincee. Finché il fascismo si occupava prevalentemente di problemi di politica estera, il socialismo si manteneva in un atteggiamento di ostilità perché ci dipingeva come degli imperialisti e dei guerrafondai ansiosi di nuove avventure, ma in realtà sentiva che le sue accuse erano false.
Quando noi siamo entrati direttamente nei loro vigneti, quando abbiamo cercato di raccogliere delle masse lavoratrici, quando abbiamo costituito dei sindacati e delle cooperative, allora il Pus è diventato furibondo perché ha sentito che noi portavamo la lama acuminata del nostro ferro nel suo punto più sensibile e vitale.
E poi c'è una ragione molto più semplice e molto più profonda, o amici, ed è questa: nella nazione ci sono anche e soprattutto i lavoratori.
Lavoratori dello spirito, lavoratori del braccio. Il nostro sindacalismo li comprende tutti e stabilisce fra di essi le necessarie gerarchie. È evidente, e lo ha riconosciuto anche Lenin in Russia, che l'ingegnere deve essere pagato più del manovale.
Ci sono, vi dicevo, questi sedici o diciotto o venti milioni di lavoratori dello spirito e del braccio. Possiamo noi trascurarli? Dobbiamo noi considerarli come materia vile ed intrattabile? Dobbiamo lasciare che questa materia, che non è vile e che non è intrattabile, continui ad essere il monopolio sfruttato dai demagoghi rossi? No, non è possibile! Non si può prescindere dalle classi che lavorano, se si vuole veramente la grandezza della nazione. Le classi lavoratrici, tranquille, ordinate, coscienti sono una garanzia: non un impedimento alla grandezza della Patria. Bisogna dunque fare del sindacalismo. Ma quale sindacalismo? Ed è su questo punto che io mi permetto di richiamare la vostra attenzione. Gli uomini che sono alla testa delle Corporazioni nazionali sindacali, mi danno pienissimo affidamento che il sindacalismo fascista non sarà mai in nessun caso la copia del sindacalismo socialista od estremista. Il nostro sindacalismo deve essere qualitativo, non quantitativo. Non possiamo respingere le masse, ma non dobbiamo nemmeno cercarle troppo e lusingarle e promettere loro cose che poi non è possibile mantenere. Come il fascismo politico rappresenta nella società nazionale italiana una aristocrazia: del coraggio, della volontà e della fede, così il sindacalismo fascista deve raccogliere le aristocrazie del proletariato, perché chi possiede la qualità finirà, se lo vuole e lo desidera, per trascinare la quantità. A questi criteri certamente si ispira il mio amico Rossoni, la cui attività io seguo da ormai dieci anni. Egli è stato uno dei primi, in America, a proclamare sul suo giornale che la Patria non si nega, perché è soprattutto ridicolo negarla, ma si conquista. Egli, avendo vissuto per lungo tempo all'estero, si è convinto che certamente le classi, non due ma duecento; sono una realtà, ma che altrettanto realtà è quella costituita dal fatto insopprimibile, storico, fisiologico, morale: la nazione.
Bisogna dunque conciliare nel sindacalismo fascista questi tre elementi: la nazione, la produzione, gli interessi delle categorie che lavorano.
Bisogna dunque ché il sindacalismo fascista sia la risultante, la fusione armonica ed armoniosa del passato, che grandi cose ci insegna e ci ha tramandato, e dell'avvenire, verso il quale tendiamo con tutte le nostre forze; del diritto e del dovere; della esperienza acquisita e della esperienza che è necessario tentare. Questo deve essere, questo sarà il sindacalismo fascista italiano. Ed accanto al fascismo politico, che è, certissimamente, dopo il fenomeno bolscevica, il fenomeno più interessante e più ricco di destino che sia sorto nell'Europa del dopoguerra, deve sorgere il sindacalismo fascista, il quale liquiderà tutti i postumi dei dogmi socialistici crollati sotto l'urto della guerra. Il sindacalismo fascista deve costituire la giovinezza impetuosa e travolgente del proletariato italiano che ha ritrovato la Patria, che vuole renderla prosperosa, grande e libera. Largo, dunque, a queste prime avanguardie di lavoratori fascisti, che a Rovigo, a Ferrara, a Bologna hanno dimostrato quanta. capacità di sacrificio sia nelle loro anime! Largo a tutta l'aristocrazia del lavoro, perché essa deve preparare i nuovi e più grandi destini della. Patria.
(Il vibrante saluto del nostro Direttore è interrotto spesso da generali applausi e salutato alla fine da una grande ovazione).
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 2:42 pm    Oggetto:  
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LA MOZIONE CELLI

La mozione proposta dall'on. Celli, deputato riformista, era l'esponente di una meschina manovra parlamentare, architettata con una preparazione di oltre due mesi. Si era stabilito che i riformisti, i democratici e i popolari avrebbero votato compatti la mozione; i socialisti si sarebbero astenuti, in modo da permettere ai tre gruppi suddetti d'avere la maggioranza; le destre avrebbero certo votato contro, rimanendo isolate in minoranza. Così i tre gruppi centrali, consenzienti i socialisti, avrebbero potuto formare un ministero antifascista, con il programma unico di distruggere il Fascismo, sotto l'ipocrita pretesto del rispetto allo Stato e alle Leggi - rispetto sostenuto dagli stessi sovversivi, pronti a qualunque transazione, pur di eliminare il Fascismo.
Ma la manovra fu prevista e sventata da Mussolini: Egli approvò quelle parti della mozione Celli che, parlando d'autorità stataria, erano accettabili anche dalle destre. I voti si suddivisero, le destre non caddero nel piccolo agguato, e la mozione ebbe solo il risultato di dare il colpo di grazia al già dimissionario Ministero Bonomi. In questo modo, la faticosa strategia parlamentare si coperse di ridicolo e servì solo a portare zizzania nel campo socialista, ove era apparsa palese la tendenza alle più vergognose transazioni.
Per intendere il discorso pronunciato in quest'occasione alla Camera da Mussolini - nella tornata del 17 febbraio 1922 - è necessario tener presente il testo della mozione Celli, che è il seguente:
« La Camera,
« considerata la necessità di restituire al paese le condizioni indispensabili per la pacifica convivenza delle classi nel rispetto alla libertà di lavoro e di organizzazione nell'obbedienza alla legge;
« di mettere le classi lavoratrici in grado di assumere sempre più elevata partecipazione e responsabilità nell'andamento delle aziende, ed in grado di concorrere con le proprie rappresentanze allo sviluppo della legislazione del lavoro;
« ritenuto essere la inscíndibile unità dei problemi economici dell'Europa assoluta premessa alla sistemazione della vita di tutte le Nazioni ora tormentate e depresse da intransigenti egoismi e da crudeli spogliazioni;
a approva le dichiarazioni del Governo e passa all'ordine del giorno.
Bisogna poi tener presente che l'on. Cavazzoni, popolare, aveva chiesto che le destre si pronunciassero con tre distinte dichiarazioni di voto, corrispondenti ai tre gruppi di destra: fascista, nazionalista, liberale. In seguito a questa richiesta, Mussolini prese la parola per il suo gruppo:

Onorevoli colleghi, io non so se al termine di questa giornata, si possa realmente dire con coscienza tranquilla che le situazioni politiche siano perfettamente chiarite. Ma dal momento che l'onorevole Cavazzoni mi ha quasi personalmente chiamato in causa mi sono deciso a prendere la parola per contribuire a chiarire questa situazione, per vedere se è possibile di chiarirla, per esaminare se sia possibile non di dare un Ministero alla nazione, ma un Governo.
Evidentemente l'onorevole Modigliani afferma sempre più in modo brillante le sue attitudini di stratega del gruppo parlamentare socialista. Siete arrivati all'astensionismo: siete già sulla via della perdizione! (Ilarità). Ma io richiamo i democratici e i popolari a valutare nella sua concretezza l'apporto collaborazionista del gruppo parlamentare socialista. Non vi porto centoventidue astensioni, perché in quel gruppo fanno capo a Maffi, Vella ed altri una quarantina che io chiamo - senza intenzione di offendere - selvaggi, i quali sono ancora fermi nella posizione della vecchia intransigenza più o meno elettorale e non seguirebbero, io credo, l'altra parte del gruppo sulla strada del collaborazionismo.
L'ordine del giorno Celli è un ordine del giorno insidioso e contraddittorio: solo attraverso dichiarazioni di voto si possono determinare le posizioni reciproche di fronte a questo ordine del giorno. Noi di quest'ordine del giorno non accettiamo la conclusione, cioè non approviamo le dichiarazioni del Governo, quindi neghiamo la fiducia al Governo dell'onorevole Bonomi.
Quanto alle premesse conviene intenderci e spiegarci. Dice quest'ordine del giorno : « La Camera considera la necessità di restituire al Paese le condizioni indispensabili per la pacifica convivenza delle classi s. Questo significa, se le parole hanno un senso, che le classi esistono e nessuno pensa a violentemente sopprimerle; di più, che è augurabile che fra queste classi vi sia un regime di pacifica convivenza...
Modigliani. Quindi non la dittatura! (Ilarità, commenti).
Mussolini. Vengo anche alla dittatura. Ora io dico ai socialisti: queste parole significano che voi anche attraverso la vostra semplice astensione siete convinti che le classi devono esistere e che fra di esse ci debba essere un regime di pacifica convivenza. (Commenti). Quindi non più tentativi di occupazione delle fabbriche. (Approvazioni a destra, commenti a sinistra).
Non più scioperi generali politici; poiché tutto ciò turberebbe quel regime di pacifica convivenza, al quale voi stessi date... (Interruzioni, commenti).
La libertà del lavoro e delle organizzazioni è un principio che noi accettiamo, perché voi sapete - lo sapete benissimo - che a lato del movimento fascista è sorto un movimento sindacale (commenti all'estrema sinistra) e non è possibile reclutare 250.000 organizzati con la violenza. (Rumori vivissimi all'estrema sinistra). Ma c'è di più, in quest'ordine del giorno; c'è la necessità dell'obbedienza alla legge di questo Stato, di queste istituzioni; alla legge esistente, che voi oggi implicitamente riconoscete ed alla quale vi impegnate di obbedire. (Applausi all'estrema destra). È quindi pacifico che almeno 70 dei 122 deputati socialisti, pur semplicemente astenendosi, entrano con quest'ordine nelle rotaie della legalità monarchica. (Applausi a destra, rumori vivissimi all'estrema sinistra).
Noi dichiariamo - e parlo in nome di tutti i gruppi della destra - che voteremo questa prima parte dell'ordine del giorno. (Commenti).
Respingiamo invece la seconda parte dell'ordine del giorno, non tanto per quello che dice, quanto per ciò che può non dire o sottintendere. Voi sapete che il fascismo già da tre anni ha nel suo programma la costituzione dei Consigli tecnici nazionali; ragione per cui noi non ci opponiamo al secondo capoverso di questa parte dell'ordine del giorno, cioè non ci opponiamo a che le rappresentanze dirette del lavoro facciano sentire la loro voce nei consessi del lavoro.
La terza parte dell'ordine del giorno è assai vaga. Qui si rivela veramente la mentalità del riformista Celli e dei riformisti in genere. Noi non abbiamo difficoltà di votare anche questa terza parte dell'ordine del giorno, perché là dove si parla di « nazioni depresse da intransigenti egoismi e da crudeli sperequazioni A noi comprendiamo in primo luogo la nazione italiana. (Applausi a destra). Ecco perché noi fascisti non ci facciamo illusioni soverchie sui risultati della Conferenza di Genova.
Io non avevo mai assistito a Conferenze internazionali; ma mi è bastata l'esperienza di Cannes per diventare assai scettico sui risultati di queste accademie. Si tratta di vedere con quali mezzi, attraverso quali sistemi, si può arrivare a ricostruire economicamente l'Europa. Ad ogni modo il Governo che verrà dovrà tener conto che una delle nazioni che soffre di più per queste sperequazioni, è l'Italia, e per le materie prime e per i cambi.
E anche per le conseguenze politiche di una pace che, come quella di Rapallo, non ci poteva e non ci doveva accontentare.
Dopo di che io vi dico tranquillamente che dal punto di vista degli interessi della Nazione, un esperimento collaborazionista mi atterrisce, perché il socialismo dovrebbe largheggiare con la famiglia innumerevole dei suoi clienti; ma quando le casse sono vuote e l'erario è esausto, non si può largheggiare, se non facendo funzionare la rotativa dei biglietti, con l'accrescere quindi la circolazione monetaria e la miseria generale. (Approvazioni a destra, interruzioni a sinistra). Ma dal punto di vista dell'interesse del mio partito, io non tre vorrei vedere di ministri socialisti in quei banchi, ma cinque, perché il giorno in cui voi sarete là, non potrete mantenere nessuna delle vostre mirabolanti promesse. (Approvazioni a destra, interruzioni all'estrema sinistra). E mentre voi fallirete a questo compito, avrete alla vostra sinistra i comunisti e gli anarchici, i quali approfitteranno largamente del vostro esperimento collaborazionista. Non ritornerete in 122 alla Camera (interruzioni e rumori all'estrema sinistra), se avrete il coraggio di spingere il vostro astensionismo fino alla partecipazione diretta al potere. (Interruzioni e rumori all'estrema sinistra).
Dopo di che io ripeto l'interruzione che ho fatto al discorso dell'onorevole Modigliani: infine tutte queste combinazioni parlamentari ci interessano mediocremente. (In~ ierruzioni a sinistra). Noi siamo pochi qui dentro, ma abbiamo delle forze grandissime nel Paese. (Interruzioni e rumori all'estrema sinistra, scambio di apostrofi). Ma soprattutto convincetevi che sarebbe la vostra totale rovina una reazione antifascista che partisse dai banchi del Governo.
Voci all'estrema sinistra: Non vogliamo farla.. (Rumori, commenti).
Mussolini. Voi non la volete fare adesso, ma in pieno Congresso di Milano uno dei vostri dichiarava che avrebbe vestito volentieri la divisa di Guardia regia pur di debellare il fascismo. (Commenti). E il vostro segreto pensiero è questo: valervi dei mezzi, delle forze armate che il Governo ha nelle sue mani per schiantare il movimento fascista. Disilludetevi: è tempo che mettiate in applicazione quella famosa mentalità marxista che non vi sorregge più evidentemente! (Rumori, interruzioni). Se questa mentalità marxista vi sorreggesse ancora, voi capireste che un movimento come quello fascista non è nato nel mio cervello e non si domina con misure di polizia. Tra poco vi convincerete che il movimento fascista corrisponde a una profonda trasformazione economica che si sta verificando nel paese e che tra poco sarà chiara attraverso le luci della statistica.
E giacché indicate la democrazia, sappiatelo, e lo sappiano anche i democratici, che se per democrazia si intende facilonismo, irresponsabilità, tendenza al compromesso e alla transazione, noi siamo recisamente antidemocratici (rumori, commenti) e sin da questo momento vi annunciamo che non faremo più blocchi. (Commenti). Anche se la fine dei blocchi dovesse rappresentare una fiera disgrazia elettorale per la democrazia, nell'attesa che la democrazia diventi partito. Se la democrazia non è capace di darsi una organizzazione storica nel paese, in un paese, signori, come il nostro, fin troppo democratico, vuol dire che in Italia la democrazia non ha più niente da dire e da fare. (Commenti).
Non c'è da stupirsi se il processo di chiarificazione politica è così difficile e lento. La situazione politica non è che il riflesso necessario di una situazione mondiale
assai confusa ed assai incerta. Ma io penso però che se ognuno qui e fuori di qui avrà il coraggio di essere quello che deve essere, se qui e fuori di qui il borghese avrà il coraggio di essere borghese, e non falso democratico o falso riformista, (applausi a destra, rumori a sinistra, commenti) le cose andranno molto meglio. Una delle cause di quello che si potrebbe chiamare il malcostume politico italiano, sta nel fatto che nessuno ha mai il coraggio di mostrarsi con i suoi propri ed inconfondibili connotati politici. (Ilarità, commenti, approoazioni).
Vi risparmio, data l'ora, ogni e qualsiasi perorazione. Combinate o non combinate il Ministero, fatelo o non fatelo di sinistra; questo però sia chiaro, ad evitare un pericoloso salto nel buio: che non si va contro il fascismo e che non si schiaccia il fascismo. (Applausi a destra, congratulazioni, rumori all'estrema sinistra, commenti).
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 2:42 pm    Oggetto:  
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L'ULTIMO DISCORSO DAL BANCO DI DEPUTATO

Lo scacco subìto alla Camera in occasione della mozione Celli non disarmò il gruppo socialista che continuò ad illudersi di poter costituire un ministero di sinistra con programma esclusivamente antifascista. Al debole ministero Bonomi era succeduto il ministero Facta, più debole ancora, senza programma determinato, con quelle funzioni inesorabilmente transitorie che nel gergo parlamentare dànno a un Governo la denominazione di « ministero d'affari ». Sembrava facile abbatterlo, e lo era, in realtà: ma i socialisti non avevano né l'abilità né il consenso pubblico necessari per giungere a simile intento. I socialisti pensarono quindi che fosse più abile puntellare il ministero, ricattandolo. Il lo giugno 1922 il gruppo socialista si dichiarò pronto ad appoggiare il ministero a condizione che questo assicurasse « il ripristino della legge e della libertà », cioè, in altri termini - secondo il significato nascosto di quelle parole apparentemente oneste - la repressione del Fascismo. Il gruppo socialista però si trovò dissenziente dall'Avanti!, dalla direzione del partito e dal Consiglio nazionale - che non volevano ricadere nell'errore commesso al momento della mozione Celli.
Verso la metà di luglio il ministero Facta è già in crisi; il gruppo socialista torna a propugnare un ministero di sinistra. Nella tornata del 19 luglio l'on. Facta si presenta al giudizio della Camera - e in questa occasione Mussolini pronuncia quello che dovrà essere l'ultimo suo discorso dal banco di deputato. Si è oramai all'ultima fase della lunga e travagliata crisi che prelude alla Marcia su Roma. Nello stesso giorno, 19 luglio 1922, cadeva il ministero Facta, ma nessuno voleva accettarne l'eredità e - dopo una faticosa serie di vani tentativi - l'on. Facta era costretto a riaccettare l'incarico: il lo agosto 1922 il suo nuovo ministero, malfermo e mal costituito, otteneva alla Camera 126 voti di maggioranza.

Onorevoli colleghi! La direzione del partito nazionale fascista ha invitato il gruppo parlamentare fascista a passare all'opposizione, cioè a votare contro il Ministero Facta. Io sono sicuro che tutti i miei colleghi deputati fascisti ottempereranno a quest'ordine tassativo. (Commenti).
Le ragioni che ci spingono a questa decisione, la quale può avere anche delle ripercussioni in seno a quella che si costuma chiamare la destra nazionale, sono ragioni d'ordine squisitamente politico e che prescindono, in un certo senso, dalla situazione prettamente parlamentare.
In fondo, onorevoli colleghi, mi pare che sia l'ora di diradare tutti gli equivoci, e in questa Camera di equivoci, a mio avviso, ce ne sono quattro: l'equivoco collabo
razionista, l'equivoco popolare, l'equivoco Facta e l'equivoco fascista. (Commenti).
Cominciamo dall'equivoco collaborazionista. Si tratta di vedere se questa famosa collaborazione sia una vescica piena di vento o un apporto concreto al Governo di domani. Dalle statistiche parlamentari, da quel che già si vede, si può arguire che la collaborazione socialista, oramai, può essere definita le nozze con i fichi secchi. (Commenti).
Non sono più di 60 i deputati socialisti disposti a votare per un Ministero che nasca con programmi di antifascismo. Ma questo Ministero, onorevoli colleghi, si tro
verebbe domani di fronte non solo alla opposizione fascista, ma anche alla opposizione di quel terzo partito socialista, che sorgerebbe inevitabilmente dalle assisi di Roma, quando i collaborazionisti si presentassero col fatto compiuto.
Ora vi dico brutalmente che abbiamo tutto l'interesse, giacché oramai il corso delle cose è fatale e inevitabile, che il socialismo si divida sempre più, che ne sorgano tre o trenta di partiti socialisti, perchè dopo essere stato religione, dopo essere divenuto chiesa e setta e bottega, sarà più facile batterlo diviso che non unito. (Commenti).
Bisogna anche chiarire la posizione del partito popolare, il quale è travagliato da una crisi che ha già avuto delle manifestazioni significative, anche se non importanti dal punto di vista numerico.
Io non credo che tutto il partito popolare italiano possa seguire il comunismo, che è stato definito nero; dell'onorevole Miglioli. Io non credo che il mondo catto
lico italiano, da distinguersi dal partito popolare, che è massone (commenti, rumori al centro) possa abbracciarsi con quei socialisti che sino a ieri, e anche oggi, avevano sulla loro bandiera: né Dio, né padrone! E poi il partito popolare non può rimanere continuamente nella posizione di fortuna in cui si è trovato fino ad oggi. Il partito popolare fa delle pressioni continue sul Governo, che si possono chiamare ricatti. (Interruzioni e commenti al centro). Non ama il partito popolare, non ha mai amato, e non ha mai sostenuto efficacemente il Gabinetto Facta. Scusate se l'immagine è un poco ordinaria: voi siete dei topi dai denti aguzzi, che state nel formaggio ministeriale per divorarvelo. (Applausi a destra, ilarità, commenti).
Quanto alla democrazia, altro equivoco, che ho incontrato per la strada, si deve dire che anch'essa non è animata dai più accesi entusiasmi per il Governo dell'onorevole Facia.
Finalmente, onorevole Facta, io vi dico che il vostro Ministero non può vivere, perchè ciò è indecoroso anche dal semplice punto di vista umano; il vostro Ministero
non può vivere, o meglio vegetare, o meglio ancora trascinare la sua vita, in grazia della elemosina di tutti coloro che vi sostengono, come la tradizionale corda so stiene il non meno tradizionale impiccato. Del resto, le vostre origini, sono là ad attestare il carattere del vostro Ministero. Io scommetto che il primo ad essere sorpreso di diventare Presidente del Consiglio, siete stato precisamente voi. (Si ride, commenti).
Tutti ricordano che alla vigilia della Conferenza di Genova occorreva che l'Italia avesse un Governo qualsiasi: così è sorto il Gabinetto Facia, il quale si è messo in una situazione di necessità. Ma noi, ou. Facia, almeno teoricamente, abbiamo cercato di superare la contraddizione che ci tormenta tra il volere l'autorità dello Stato e il compiere spesso delle azioni che certamente non aumentano la forza di questa autorità.
Ed io deploro, onorevole Facta, le misure che avete prese contro i funzionari che rappresentavano il Governo a Cremona; perché quei funzionari hanno seguito le vostre direttive. (Commenti all'estrema sinistra). Se non hanno ordinato di fare fuoco contro i dimostranti fascisti, evidentemente è perché voi, e giustamente, siete contrario ad ogni effusione di sangue. (Approvazioni). Non dovevate soprattutto punire il rappresentante del potere giudiziario a Cremona, quando quei funzionari meritavano il vostro plauso.
Ed anche il vostro discorso non può piacere agli uomini che siedono da questa parte della Camera. Il punto centrale del vostro discorso è stato un aspro richiamo alla magistratura, un aspro richiamo ai funzionari in genere; con ciò avete dato l'impressione che gli organi esecutivi dell'autorità dello Stato siano insufficienti, deficienti o complici di una delle fazioni che lottano attualmente nel Paese. Io devo dire invece che la magistratura italiana è ancora una delle poche gerarchie statali contro le quali sia assai difficile elevare critiche fondate, e che non partano da presupposti di ordine per sonale o di partito. (Approvazioni a destra, commenti). E poi il Governo ha l'obbligo di coprire i suoi funzionari, di assumere esso le sue responsabilità. Il generale non punisce l'ultimo caporale. (Approvazioni, commenti). Ci sono altri elementi di critica contro il Governo Facta, da parte nostra, e per la politica finanziaria e per la politica estera. D'altra parte la Camera deve prendere atto che il fascismo parlamentare, uscendo, come fa in questo momento, dalla maggioranza, compie un gesto di alto pudore politico e morale. Non si può essere parte della maggioranza, e nello stesso tempo agire nel . paese come il fascismo è costretto per ora ad agire. (Commenti).
Il fascismo risolverà questo suo intimo tormento, dirà forse fra poco se vuole essere un partito legalitario, cioè un partito di Governo, o se vorrà invece essere un
partito insurrezionale, nel qual caso non potrà più far parte di una qualsiasi maggioranza di Governo, ma probabilmente non avrà neppure l'obbligo di sedere in questa Camera. (Vivissimi commenti). Questo che io ho chiamato equivoco fascista, sarà risolto dagli organi competenti del nostro partito.
Ora, date queste mie dichiarazioni, voi comprendete subito che il problema della successione ci preoccupa fino ad un certo punto. Io vi dichiaro con molta
schiettezza che nessun Governo si potrà reggere in Italia quando abbia nel suo programma le mitragliatrici contro il fascismo. (Interruzioni, commenti, applausi a destra). Io non so neanche se questo sarà possibile, perché potrebbe darsi, anche per uno di quei paradossi assai frequenti nella politica e nella storia, che il Gabinetto il quale sorgesse sotto auspici e con origini nettamente antifasciste, fosse costretto a fare verso di noi una politica di grande liberalismo (commenti), perché il non farla gli procurerebbe assai maggiori noie. (Commenti).
D'altra parte, noi nel paese abbiamo forze molto numerose, molto disciplinate, molto organizzate. Se da questa crisi uscirà un Governo che risolva il problema assillante, angoscioso nell'ora attuale, cioè il problema della pacificazione, inteso come una normalizzazione dei rapporti fra i diversi partiti, noi lo accetteremo con animo lieto, e cercheremo di adeguare tutti i nostri gregari alla necessità, sentita, del resto, intimamente da parte della nazione, alla necessità di ordine, di lavoro e di disciplina. Ma se, per avventura, da questa crisi che ormai è in atto, dovesse uscire un Governo di violenta reazione antifascista, prendete atto, onorevoli colleghi, che noi reagiremo con la massima energia e con la massima inflessibilità. (Commenti). Noi alla reazione,. risponderemo insorgendo. (Applausi a destra, commenti, rumori).
Io debbo, per debito di lealtà, dirvi che dei due casi che vi ho testè prospettati, preferisco il primo, e per ragioni nazionali e per ragioni umane. Preferisco cioè che il fascismo, che è una forza, o socialisti, che non dovete più ignorare.. e non dovete nemmeno pensare di distruggere, arrivi a partecipare alla vita dello Stato attraverso una saturazione legale, attraverso una preparazione alla conquista legale. Ma è anche l'altra eventualità, che io dovevo, per obbligo di coscienza, prospettare perché ognuno di voi, nella crisi di domani, discutendo nei gruppi, preparando la soluzione della crisi, tenga conto di queste mie dichiarazioni che affido alla vostra meditazione e alla vostra coscienza. Ho finito.
(Vivi applausi all'estrema destra, commenti prolungati).
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 2:43 pm    Oggetto:  
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LA SITUAZIONE POLITICA

A Milano, il pomeriggio del 13 agosto 1922, nella sede del Fascio di Combattimento sita in via San Marco 46, si iniziano i lavori di un convegno al quale partecipano la direzione del Partito Fascista, il Comitato centrale dei fasci, il gruppo parlamentare fascista e la confederazione delle corporazioni sindacali.
Mussolini, che presiede, nel dichiarare aperta la seduta alle ore quindici, propone, fra il consenso generale, che " il Comitato centrale, prima di sciogliersi, si rechi a portare una corona di fiori sulle tombe dei caduti del Fascio di Milano per onorare in tal modo tutti i morti per la causa fascista.
Prende quindi la parola il segretario generale del Partito, Michele Bianchi, per riferire sul primo comma segnato all'ordine del giorno: Situazione politica. "
Quello di oggi - egli dice - è forse il momento più difficile che il fascismo abbia mai attraversato. Gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato che il fascismo ha una forza superiore a quella che si immaginava; hanno dimostrato quale enorme cumulo di energie si siano poco per volta rinserrate e inalveate nel nostro Partito ". Egli ricorda l'origine dell'ultimo sciopero generale, che dette origine alla vittoriosa controffensiva fascista e dopo aver detto che oggi assistiamo ad un palleggiamento di responsabilità fra i vari partiti antinazionali, afferma che è opportuno che al convegno siano fissate le responsabilità. Dimostra quindi con copia di argomenti come lo sciopero sia stato un parto del socialismo collaborazionista; " a Roma si afferma che Turati nella sua udienza reale non abbia esitato a farne intravedere al re la minaccia. La Direzione del Partito Fascista ha la coscienza di non avere mancato al suo dovere di fronte al precipitato succedersi degli avvenimenti di questi ultimi giorni: essa ha dato a tempo opportuno le direttive generali e le istruzioni necessarie. Fin dal 21 luglio, in seguito all'azione di Novara, che lasciava sospettare una controffensiva generale da parte degli avversari, fu inviata a tutte le Federazioni fasciste una circolare riservata; altra circolare venne inviata in data 28 luglio. Alla vigilia dello sciopero generale, parlando a Sarzana, io lanciai il noto ultimatum, e cioè che se nel termine di quarantotto ore lo sciopero non fosse finito o il Governo non fosse efficacemente intervenuto, i fascisti avrebbero scatenato il contrattacco. Il termine delle quarantotto ore venne fissato con precisa valutazione degli avvenimenti e delle conseguenze". L'oratore ricorda di avere nel pomeriggio del 2 agosto, in un colloquio col presidente del Consiglio e con il sen. Taddei, ripetuti i termini dell'ultimatum sette ore prima che esso scadesse, avvertendo nello stesso tempo i due ministri della serietà delle intenzioni dei fascisti. " Il Governo non credette di dare il peso che meritavano queste parole, ma dopo la scadenza dovette convincersi che mal fece a non tenerne conto.
" La vittoria nostra è stata quella che è stata. Strepitosa, assoluta, superiore a tutte le previsioni. Gli stessi avversari sono costretti a riconoscerla. Oggi però ci troviamo di fronte ad una enorme responsabilità: ingenti masse di lavoratori vengono a noi. I nostri settecentomila iscritti nei sindacati ben presto saranno un milione. II problema va esaminato profondamente e seriamente. Il fascismo si impone ormai all'attenzione degli avversari: o esso diventerà la linfa di cui lo Stato sarà nutrito, oppure ci sostituiremo allo Stato. Questa evento maturerà nel giro di pochi mesi. Io voglio augurarmi che i ceti dirigenti italiani comprendano questa fatalità. Il movimento fascista è un fiume troppo gonfio per non dovere incutere dei timori e dei timori salutari. O avremo in breve tempo le elezioni generali e con le elezioni una rappresentanza proporzionata al valore ed al peso politico che rappresentiamo nel nostro paese e pertanto ci comporterà l'onere e l'onore del potere; o, diversamente, nuove azioni si renderanno forse indispensabili. O questo monito verrà accolto o, in caso contrario, il fascismo dovrà fare suo il secondo corno del dilemma che Mussolini ha enunciato alla Camera ". (Vivissimi applausi).
« Mussolini dichiara aperta la discussione sulla relazione Bianchi ». Vi partecipano Balbo, Rocca, Farinacci, De Vecchi, Baroncini, Bottai, Acerbo, Mussolini - il quale « dà assicurazioni che il problema [del Fascio Romano] è stato ampiamente esaminato dagli organi direttivi del Partito e dichiara che i fascisti romani hanno assolto magnificamente il loro compito », - Acerbo, Padovani, Villelli, Bolzon, Mussolini - il quale « dà assicurazione che quanto chiedono Villelli, Padovani e Bolzon [provvedimenti per il Mezzogiorno] sarà preso in pronta considerazione dalla Direzione del Partito prima ancora del convegno di Napoli » - Grandi.
Indi Mussolini pronuncia il discorso qui pubblicato.

La discussione è stata esauriente e conclusiva:
1) c'è una linea sulla quale siamo tutti d'accordo: siamo tutti convinti che il fascismo deve divenire Stato;
2) che deve divenire Stato non per nutrire le sue speciali clientele formate o da formarsi, ma per tutelare gli interessi della nazione, della collettività;
3) che per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extralegale della insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione. E questa decisione non potrà essere presa che tenendo conto di molti fattori di ordine pratico, politico, ed anche degli imponderabili. Il momento è molto delicato, e occorre pensare bene a tutte le evenienze. Il Governo è già al corrente delle nostre intenzioni per le dichiarazioni fatte da me e da Lupi. Bisogna preparare quindi molto energicamente la forza politica, materiale e morale e la preparazione elettorale. Non vorrei che trovandoci domani di fronte alla soluzione più facile fossimo impreparati ed il responso delle urne fosse tale da dare agli altri motivo di dire che non abbiamo fatto alcuna conquista di anime. Bisogna che la preparazione dell'una e dell'altra eventualità sia intrapresa da per tutto con la massima energia. Io non sono un parlamentare e voi tutti lo sapete. Le critiche che si sono fatte ai deputati fascisti sono eccessive.
I deputati frequentano pochissimo la Camera, e fanno male, poiché la crisi ultima non ci sarebbe stata se nel giorno dell'affare Miglioli ci fossero stati almeno una ventina di deputati nostri: ce ne erano soltanto quattro. Ma vi prega di considerare che nelle ultime giornate tutti i deputati fascisti hanno fatto brillantemente il loro dovere. Quando i deputati mancano devono essere deplorati, ma quando essi fanno il loro dovere occorre riconoscerlo con tutta lealtà.
Leggo quindi - conclude Mussolini - gli ordini del giorno presentati. Uno è dell'avv. Villelli e dice:
« Il Comitato centrale del Partito Fascista radunato a Milano dopo la superba vittoria conseguita in difesa della Patria e per l'avvenire del fascismo, contro i partiti antinazionali, stroncando il loro miserabile e criminoso tentativo, di sciopero generale, rivolge il commosso e memore pensiero a tutti i suoi morti; saluta i feriti; approva con vivo voto, di plauso l'opera della Direzione del Partito e della Segreteria generale; si, dichiara orgoglioso della prova di forza, di audacia, di disciplina, offerta da tutti i capi e gregari del fascismo; giura ancora una volta fedeltà alla nazione, i cui ideali e i cui interessi troveranno sempre nel Partito Fascista il custode più scrupoloso e disinteressata, l'incitamento più audace e consapevole». (E’approvato per acclamazione).
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 2:43 pm    Oggetto:  
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DISCORSO DEL 20 SETTEMBRE 1922 - Il discorso di Udine

Con il discorso che intendo pronunciare innanzi a voi, io faccio una eccezione alla regola che mi sono imposta: quella, cioè, di limitare al minimo possibile le manifestazioni della mia eloquenza. Oh, se fosse possibile strangolarla, come consigliava un poeta, l'eloquenza verbosa, prolissa, inconcludente, democratica, che ci ha deviato per così lungo tempo! Io sono quindi sicuro, od almeno mi lusingo di avere questa speranza, che voi non vi attenderete da me un discorso che non sia squisitamente fascista, cioè scheletrico, aspro, schietto e duro.
Non attendetevi la commemorazione del XX Settembre. Certo, l'argomento sarebbe tentante e lusingatore. Ci sarebbe ampio materiale di meditazione riesaminando per quale prodigio di forze imponderabili ed attraverso quali e quanti sacrifici di popoli e di uomini, l'Italia abbia potuto raggiungere la sua non ancora totale unità, perché di unità totale non si potrà parlare fino a quando Fiume e la Dalmazia e le altre terre non siano ritornate a noi, compiendosi con ciò quel sogno orgoglioso che fermenta nei nostri spiriti. (Applausi fragorosi).
Ma vi prego di considerare che anche nel Risorgimento ed attraverso il Risorgimento Italiano, che va dal primo tentativo insurrezionale che si verificò a Nola in un reparto di cavalleggeri, e finisce con la Breccia di Porta Pia nel '70, due forze entrano in giuoco; una è la forza tradizionale, la forza di conservazione, la forza necessariamente un po' statica e tardigrada, la forza della tradizione sabauda e piemontese; l'altra, la forza insurrezionale e rivoluzionaria che veniva su dalla parte migliore del popolo e della borghesia; ed è solo attraverso la conciliazione e l'equilibrio di queste due forze che noi abbiamo potuto realizzare l'unità della Patria. Qualche cosa di simile forse si verifica anche oggi e di ciò mi riprometto di parlare in seguito.
Ma perché (ve lo siete mai domandato?), perché l'unità della Patria si riassume nel simbolo e nella parola di Roma? Bisogna che i fascisti dimentichino assolutamente - perché se non lo facessero sarebbero meschini - le accoglienze più o meno ingrate che avemmo a Roma nell'ottobre dell'anno scorso e bisogna avere il coraggio di dire che una parte di responsabilità di tutto ciò che avvenne la si dovette a taluni elementi nostri che non erano all'altezza della situazione. E non bisogna confondere Roma con i romani, con quelle centinaia di cosiddetti «profughi del fascismo» che sono a Roma, a Milano ed in qualche altro centro d'Italia e che fanno naturalmente dell'antifascismo pratico e criminoso. Ma se Mazzini, se Garibaldi tentarono per tre volte di arrivare a Roma, e se Garibaldi aveva dato alle sue camicie rosse il dilemma tragico, inesorabile di «o Roma o morte», questo significa che negli uomini del Risorgimento italiano, Roma ormai aveva una funzione essenziale di primissimo ordine da compiere nella nuova storia della Nazione italiana. Eleviamo, dunque, con animo puro e sgombro da rancori il nostro pensiero a Roma che è una delle poche città dello spirito che ci siano nel mondo, perché a Roma, tra quei sette colli così carichi di storia, si è operato uno dei più grandi prodigi spirituali che la storia ricordi; cioè si è tramutata una religione orientale, da noi non compresa, in una religione universale che ha ripreso sotto altra forma quell'imperio che le legioni consolari di Roma avevano spinto fino all'estremo confine della terra. E noi pensiamo di fare di Roma la città del nostro spirito, una città, cioè, depurata, disinfettata da tutti gli elementi che la corrompono e la infangano, pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre dell'Italia imperiale che noi sogniamo. (Prolungati applausi).
Qualcuno potrebbe obiettarci: «Siete voi degni di Roma, avete voi i garretti, i muscoli, i polmoni sufficentemente capaci per ereditare e tramandare le glorie e gli ideali di un imperio?». Ed allora i critici arcigni si industriano a vedere nel nostro giovane ed esuberante organismo dei segni di incertezza.
Ci si parla del fenomeno dell'autonomismo fascista: dico ai fascisti ed ai cittadini che questo autonomismo non ha nessuna importanza. Non è un autonomismo di idee o di tendenze. Tendenze non conosce il fascismo. Le tendenze sono il triste privilegio dei vecchi partiti, che sono associazioni comiziali diffuse in tutti i paesi e che non avendo niente da fare e da dire, finiscono per imitare quei sordidi sacerdoti dell'Oriente che discutevano su tutte le questioni del mondo mentre Bisanzio periva. Gli scarsi, sporadici tentativi di autonomia fascista o sono liquidati o sono in via di liquidazione, perché rappresentano soltanto delle rivalse di indole personale.
Veniamo ad un altro argomento: la disciplina. Io sono per la più rigida disciplina. Dobbiamo imporre a noi stessi la più ferrea disciplina, perché altrimenti non avremo il diritto di imporla alla Nazione. Ed è solo attraverso la disciplina della Nazione che l'Italia potrà farsi sentire nel consesso delle altre nazioni. La disciplina deve essere accettata. Quando non è accettata, deve essere imposta. Noi respingiamo il dogma democratico che si debba procedere eternamente per sermoni, per prediche e predicozzi di natura più o meno liberale. Ad un dato momento bisogna che la disciplina si esprima, nella forma, sotto l'aspetto di un atto di forza e di imperio. Esigo, quindi, e non parlo ai militi della regione friulana che sono - lasciatemelo dire - perfetti per sobrietà e compostezza, austerità e serietà di vita, ma parlo per i fascisti di tutta Italia, i quali se un dogma debbono avere, questo deve portare un solo chiaro nome: disciplina! Solo obbedendo, solo avendo l'orgoglio umile ma sacro di obbedire si conquista poi il diritto di comandare. Quando il travaglio sia avvenuto nel vostro spirito, potete imporlo agli altri. Prima, no. Di questo debbono rendersi ben conto i fascisti di tutta Italia. Non debbono interpretare la disciplina come un richiamo di ordine amministrativo o come un timore dei capi che possono paventare l'ammutinamento di un gregge. Questo no, perché noi non siamo capi come tutti gli altri, e le nostre forze non possono portare affatto il nome di gregge. Noi siamo una milizia, ma appunto perché ci siamo data questa speciale costituzione dobbiamo fare della disciplina il cardine supremo della nostra vita e della nostra azione.(Clamorosi applausi).
E vengo alla violenza. La violenza non è immorale. La violenta è qualche volta morale. Noi contestiamo a tutti i nostri nemici il diritto di lamentarsi della nostra violenza, perché paragonata a quelle che si commisero negli anni infausti del '19 e del '20 e paragonata a quella dei bolscevichi di Russia, dove sono state giustiziate due milioni di persone e dove altri due milioni di individui giacciono in carcere, la nostra violenza è un gioco da fanciulli. D'altra parte la nostra violenza è risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto. in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda. (Applausi). Quindi, quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa è moralissima, sacrosanta e necessaria. Ma, o amici fascisti, e parlo ai fascisti d'Italia, bisogna che la nostra violenza abbia dei caratteri specifici, fascisti. La violenza di dieci contro uno è da ripudiare e da condannare.(Applausi). La violenza che non si spiega deve essere ripudiata. C'è una violenza che libera ed una violenza che incatena; c'è una violenza che è morale ed una violenza che è stupida e immorale. Bisogna adeguare la violenza alla necessità del momento, non farne una scuola, una dottrina, uno sport. Bisogna che i fascisti evitino accuratamente di sciupare con gesti di violenza sporadica, individuale, non giustificata, le brillantissime e splendide vittorie dei primi di agosto. (Applausi). Questo attendono i nostri nemici, i quali da certi episodi e, diciamolo francamente, da certi ingrati episodi come quello di Taranto, sono indotti a credere ed a sperare od a lusingarsi che la violenza essendo diventata una specie di secondo abito, quando noi non abbiamo più un bersaglio su cui esercitarla, la esercitiamo su noi o contro di noi o contro i nazionalisti. Ora i nazionalisti divergono da noi su certe questioni, ma la verità va detta ed è questa: che in tutte le battaglie che abbiamo combattuto li abbiamo avuti al nostro fianco. («Bene!». Applausi).
Può darsi che tra di loro vi siano dei dirigenti, dei capi che non vedono il fascismo sotto la specie con la quale lo vediamo noi, ma bisogna riconoscere e proclamare e dire che le camicie azzurre a Genova, a Bologna, a Milano ed in altre cento località furono al fianco delle camicie nere. (Applausi). Quindi sgradevolissimo è l'episodio di Taranto ed io mi auguro che i dirigenti del fascismo agiranno nel senso che rimanga un episodio isolato da dimenticarsi in una riconciliazione locale ed in una affermazione di simpatia e di solidarietà nazionale.
Altro argomento che si può prestare alle speranze dei nostri avversari: le masse. Voi sapete che io non adoro la nuova divinità: la massa. È una creazione della democrazia e del socialismo. Soltanto perché sono molti debbono avere ragione. Niente affatto. Si verifica spesso l'opposto, cioè che il numero è contrario alla ragione. In ogni caso la storia dimostra che sempre delle minoranze, esigue da principio, hanno prodotto profondi sconvolgimenti nelle società umane. Noi non adoriamo la massa nemmeno se è munita di tutti i sacrosanti calli alle mani ed al cervello, ed invece portiamo, nell'esame dei fatti sociali, delle concezioni, degli elementi almeno nuovi nell'ambiente italiano. Noi non potevamo respingere queste masse. Venivano a noi. Dovevamo forse accoglierle con dei calci negli stinchi? Sono sincere? Sono insincere? Vengono a noi per convinzione o per paura? O perché sperano di ottenere da noi quello che non hanno ottenuto dai socialpussisti ? Questa indagine è quasi oziosa, perché non si è ancora trovato il modo di penetrare nell'intimo dello spirito. Abbiamo dovuto fare del sindacalismo. Ne facciamo. Si dice: «Il vostro sindacalismo finirà per essere in tutto e per tutto simile al sindacalismo socialista; dovrete per necessità di cose fare della lotta di classe».
I democratici, una parte dei democratici, quella parte che sembra avere il solo scopo di intorbidare le acque, continua da Roma (dove si stampano troppi giornali, molti dei quali non rappresentano nessuno o niente) a manovrare in questo senso.
Intanto il nostro sindacalismo diversifica da quello degli altri, perché noi non ammettiamo lo sciopero nei pubblici servizi per nessun motivo. Siamo per la collaborazione di classe, specie in un periodo come l'attuale di crisi economica acutissima. Quindi cerchiamo di fare penetrare nel cervello dei nostri sindacati questa verità e questa concezione.
Però bisogna dire, con altrettanta schiettezza, che gli industriali ed i datori di lavoro non debbono ricattarci, perché c'è un limite oltre al quale non si può andare, e gli industriali stessi ed i datori di lavoro, la borghesia, per dirla in una parola, la borghesia deve rendersi conto che nella Nazione c'è anche il popolo, una massa che lavora, e non si può pensare a grandezza di Nazione se questa massa che lavora è inquieta, oziosa, e che il compito del Fascismo è di farne un tutto organico colla Nazione, per averla domani, quando la Nazione ha bisogno della massa, come l'artista ha bisogno della materia greggia per forgiare i suoi capolavori.
Solo con una massa che sia inserita nella vita e nella storia della Nazione noi potremo fare una politica estera.
E sono giunto al tema che è in questo momento di attualità grandissima. Alla fine della guerra è evidente che non si è saputo fare la pace. C'erano due strade: o la pace della spada o la pace della approssimativa giustizia. Invece, sotto l'influenza d'una mentalità democratica deleteria, non si è fatta la pace della spada occupando Berlino, Vienna, Budapest, e non si è fatta nemmeno la pace approssimativa della giustizia.
Gli uomini, molti dei quali erano ignari di storia e di geografia (e pare che questi famosi esperti, che noi potremmo chiamare italianamente periti, ne sapessero quanto i loro principali, ed abbiano scomposto e ricomposto la carta geografica d'Europa) hanno detto: «Dal momento che i turchi danno fastidi all'Inghilterra, sopprimiamo la Turchia. Dal momento che l'Italia, per diventare una potenza mediterranea, deve avere l'Adriatico come un suo golfo interno, neghiamo all'Italia le giuste rivendicazioni di ordine adriatico». Che cosa succede? Succede che il trattato più periferico naturalmente va in pezzi prima degli altri. Ma siccome tutto consiste nella costruzione di questi trattati, per cui tutti sono in relazione tra di loro, così il disgregamento, il frantumamento del trattato di Sèvres riconduce nella eventualità il pericolo che anche tutti gli altri trattati facciano la stessa fine.
L'Inghilterra, a mio avviso, dimostra di non avere più una classe politica all'altezza della situazione. Infatti voi vedete che fin qui, da quindici anni un solo uomo impersona la politica inglese. Non è stato ancora possibile di sostituirlo. Lloyd George, che, a detta di coloro che lo conoscono intimamente, è un mediocre avvocato, rappresenta la politica dell'impero da ben tre lustri! L'Inghilterra anche in questa occasione rivela la mentalità mercantile di un impero che vive sulle sue rendite e che aborre da qualsiasi sforzo che sia suo proprio, che gli costi del sangue. Fa appello ai Dominions ed alla Jugoslavia ed alla Romania. D'altra parte, se le cose si complicano in questo senso, voi vedete spuntare l'eterno ed indistruttibile cosacco russo, che cambia di nome ma che non cambia anima. Chi ha armato la Turchia di Kemal Pascià? La Francia e la Russia. Chi può armare la Germania di domani? La Russia. E grande fortuna al fine della nostra politica estera, è grande fortuna che accanto ad un esercito che ha tradizioni gloriosissime, l'esercito nazionale, vi sia l'esercito fascista.
Bisognerebbe che i nostri ministri degli Esteri sapessero giocare anche questa carta e la buttassero sul tappeto verde e dicessero: «Badate che l'Italia non fa più una politica di rinunce o di viltà, costi quello che costi!» . (Applausi prolungati. Acclamazioni entusiastiche a Fiume italiana, alla Dalmazia italiana. Una bandiera dai colori fiumani viene portata in trionfo, tra indescrivibile entusiasmo, sul palcoscenico. La dirmostrazione si rinnova e dura oltre cinque minuti).
Dicevo, dunque, che mentre negli altri paesi si comincia ad avere una chiara coscienza della forza rappresentata dal fascismo italiano anche in tema di politica estera, i nostri ministri sono sempre in atteggiamento di uomini che soggiacciono. Ci domandano quale è il nostro programma. Io ho già risposto a questa domanda, che vorrebbe essere insidiosa, in una piccola riunione tenuta a Levanto davanti a trenta o quaranta fascisti e non supponevo che avrebbe potuto avere una ripercussione così vasta il mio discorso, il mio famigliare discorso.
Il nostro programma è semplice: vogliamo governare l'Italia.
Ci si dice: «Programmi?». Ma di programmi ce ne sono anche troppi. Non sono i programmi di salvazione che mancano all'Italia. Sono gli uomini e la volontà! (Applausi). Non c'è italiano che non abbia o non creda di possedere il metodo sicuro per risolvere alcuni dei più assillanti problemi della vita nazionale. Ma io credo che voi tutti siate convinti che la nostra classe politica sia deficente. La crisi dello Stato liberale è in questa deficenza documentata. Abbiamo fatto una guerra splendida dal punto di vista dell'eroismo individuale e collettivo. Dopo essere stati soldati, gli italiani nel '18 erano diventati guerrieri.
Vi prego di notare la differenza essenziale.
Ma la nostra classe politica ha condotto la guerra come un affare di ordinaria amministrazione. Questi uomini, che noi tutti conosciamo e dei quali portiamo nel nostro cervello la immagine fisica, ci appaiono ormai come dei superati, degli sciupati, degli stracchi, come dei vinti. Io non nego nella mia obiettività assoluta che questa borghesia, che con un titolo globale si potrebbe chiamare giolittiana, non abbia i suoi meriti. Li ha certamente. Ma oggi che l'Italia è fermentante di Vittorio Veneto, oggi che questa Italia è esuberante di vita, di slancio, di passione, questi uomini che sono abituati soprattutto alla mistificazione di ordine parlamentare, ci appaiono di tale statura non più adeguata all'altezza degli avvenimenti. (Applausi). Ed allora bisogna affrontare il problema: «Come sostituire questa classe politica, che ha sempre, negli ultimi tempi, condotto una politica di abdicazione di fronte a quel fantoccio gonfio di vento che era il socialpussismo italiano?».
Io credo che la sostituzione si renda necessaria e più sarà radicale, meglio sarà. Indubbiamente il fascismo, che domani prenderà sulle braccia la Nazione (quaranta milioni, anzi quarantasette milioni di italiani) si assume una tremenda responsabilità. C'è da prevedere che molti saranno i delusi poiché una delusione c'è sempre: o prima o dopo, ma c'è sempre, e nel caso che si faccia e nel caso che non si faccia.
Amici! Come la vita dell'individuo quella dei popoli comporta una certa parte di rischi. Non si può sempre pretendere di camminare sul binario Decauville della normalità quotidiana. Non ci si può sempre indirizzare alla vita laboriosa e modesta di un impiegato del lotto, e questo sia detto senza ombra di offesa per gli impiegati delle cosiddette «bische dello Stato». Ad un dato momento bisogna che uomini e partiti abbiano il coraggio di assumere la grande responsabilità di fare la grande politica, di provare i loro muscoli. Può darsi che falliscano. Ma ci sono dei tentativi anche falliti che bastano a nobilitare e ad esaltare per tutta la vita la coscienza di un movimento politico, del Fascismo italiano.
Io mi ripromettevo di fare il discorso a Napoli, ma credo che a Napoli avrò altri temi per esso.
Non tardiamo più oltre ad entrare nel terreno delicato e scottante del regime. Molte polemiche che furono suscitate dalla mia tendenzialità sono dimenticate, ed ognuno si è convinto che quella tendenzialità non è uscita fuori così improvvisamente. Rappresentava, invece, un determinato pensiero. È sempre così. Certi atteggiamenti sembrano improvvisi al grosso pubblico, il quale non è indicato e non è obbligato a seguire le trasformazioni lente, sotterranee di uno spirito inquieto e desideroso di approfondire, sempre sotto veste nuova, determinati problemi. Ma il travaglio c'è, intimo, qualche volta tragico. Voi non dovete pensare che i capi del Fascismo non abbiano il senso di questa tragedia individuale, soprattutto tragedia nazionale. Quella famosa tendenzialità repubblicana doveva essere una specie di tentativo di riparazione di molti elementi che erano venuti a noi soltanto perché avevamo vinto. Questi elementi non ci piacciono. Questa gente che segue sempre il carro del trionfatore e che è disposta a mutare bandiera se muta la fortuna, è gente che il fascismo deve tenere in grande sospetto e sotto la più severa sorveglianza.
È possibile - ecco il quesito - una profonda trasformazione del nostro regime politico senza toccare l'Istituto monarchico? È possibile, cioè, rinnovare l'Italia non mettendo in gioco la monarchia? E quale è l'atteggiamento di massima del fascismo di fronte alle istituzioni politiche?
Il nostro atteggiamento di fronte alle istituzioni politiche non è impegnativo in nessun senso. In fondo i regimi perfetti stanno soltanto nei libri dei filosofi. Io penso che un disastro si sarebbe verificato nella città greca se si fossero applicate esattamente, comma per comma, le teorie di Platone. Un popolo che sta benissimo sotto forme repubblicane non pensa mai ad avere un re. Un popolo che non è abituato alla repubblica agognerà il ritorno alla monarchia. Si è ben voluto mettere sul cranio quadrato dei tedeschi il berretto grigio; ma i tedeschi odiano la repubblica; e per il fatto che è stata imposta dall'Intesa e che èstata una specie di Ersatz, trovano in Germania un altro motivo di avversione per questa Repubblica.
Dunque le forme politiche non possono essere approvate o disapprovate sotto la specie della eternità, ma debbono essere esaminate sotto la specie del rapporto diretto fra di loro, della mentalità dello stato di economia, delle forze spirituali di un determinato popolo. (Una voce grida: «Viva Mazzini!»). Questo in tesi di massima. Ora io penso che si possa rinnovare profondamente il regime, lasciando da parte l’istituzione monarchica. In fondo, e mi riferisco al grido dell'amico, lo stesso Mazzini, repubblicano, maestro di dottrine repubblicane, non ha ritenuto incompatibili le sue dottrine col patto monarchico della unità italiana.
L'ha subìto, l'ha accettato. Non era il suo ideale, ma non si può sempre trovare l'ideale.
Noi, dunque, lasceremo in disparte, fuori del nostro gioco, che avrà altri bersagli visibilissimi e formidabili, l'Istituto monarchico, anche perché pensiamo che gran parte dell'Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto. Avremmo forse del separatismo regionale poiché succede sempre così. Oggi molti sono indifferenti di fronte alla monarchia; domani sarebbero, invece, simpatizzanti, favorevoli e si troverebbero dei motivi sentimentali rispettabilissimi per attaccare il fascismo che avesse colpito questo bersaglio.
In fondo io penso che la monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare quella che ormai bisogna chiamare la rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse, perché se lo facesse, diverrebbe subito bersaglio, e, se diventasse bersaglio, è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita o di morte. Chi può simpatizzare per noi non può ritirarsi nell'ombra. Deve rimanere nella luce. Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficentemente monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile.
D'altra parte bisogna evitare che la rivoluzione fascista metta tutto in gioco. Qualche punto fermo bisogna lasciarlo, perché non si dia la impressione al popolo che tutto crolla, che tutto deve ricominciare, perché allora alla ondata di entusiasmo del primo tempo succederebbero le ondate di panico del secondo e forse ondate successive, che potrebbero travolgere la prima. Ormai le cose sono molto chiare. Demolire tutta la superstruttura socialistoide-democratica.
Avremo uno Stato che farà questo semplice discorso: «Lo Stato non rappresenta un partito, lo Stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti, supera tutti, protegge tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità». (Fragorosi, prolungaci applausi).
Questo è lo Stato che deve uscire dall'Italia di Vittorio Veneto. Uno Stato che non dà localmente ragione al più forte; uno Stato non come quello liberale che in cinquant'anni non ha saputo attrezzarsi una tipografia per fare un suo giornale quando vi sia lo sciopero generale dei tipografi; uno Stato che è in balìa della onnipotenza, della fu onnipotenza socialista; uno Stato che crede che i problemi siano risolvibili soltanto dal punto di vista politico, perché le mitragliatrici non bastano se non c'è lo spirito che le faccia cantare. Tutto l'armamentario dello Stato crolla come un vecchio scenario di teatro da operette, quando non ci sia la più intima coscienza di adempire ad un dovere, anzi ad una missione. Ecco perché noi vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano. Resta la polizia, che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l'esercito, che deve garantire la inviolabilità della Patria e resta la politica estera. (Applausi).
Non si dica che così svuotato lo Stato rimane piccolo. No! Rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio degli spiriti, mentre abdica a tutto il dominio della materia.
Ed ora, o amici, io credo di avere parlato abbastanza e questa mia opinione ritengo sia condivisa anche da voi. Cittadini, io vi ho sinteticamente esposto le mie idee. Bastano, a mio avviso, a individuarle. Del movimento si chiedono sempre i connotati, ma più connotati di così... Se non bastasse questa nostra mentalità, c'è il nostro metodo, c'è la nostra attività quotidiana che non intendiamo di rinnegare, pur vigilando che non esageri, non trascenda e non danneggi il Fascismo. E quando dico queste parole le dico con intenzione, perché se il Fascismo fosse un movimento come tutti gli altri, allora il gesto dell'individuo o del gruppo avrebbe una importanza relativa. Ma il nostro movimento è un movimento che ha dato alla sua ruota fior di sangue vermiglio. Di questo bisogna ricordarsi quando si fa dell'autonomismo e quando si fa della indisciplina. Bisogna pensare ai
morti d'ieri soprattutto. Bisogna pensare che tale autonomismo e tale indisciplina possono solleticare anche i bassi miserabili istinti della belva social-pussista che è vinta, fiaccata, ma che cova ancora segretamente i propositi della riscossa; che noi impediremo con azione collettiva e col tener sempre la nostra spada asciutta. In fondo i Romani avevano ragione: « Se vuoi la pace, dimostra di essere preparato alla guerra ». Quelli che non dimostrano di essere preparati alla guerra, non hanno pace e hanno la disfatta e la sconfitta.
Così noi diciamo a tutti i nostri avversari: « Non basta che voi piantiate troppe bandiere tricolori sui vostri stambugi e circoli vinicoli. Vi vogliamo vedere alla
prova. Sarà necessario tenervi un po' in una specie di quarantena, politica e spirituale. I vostri capi, che potrebbero reinfettarvi, saranno messi nella condizione di non nuocere v. Solo così, evitando di cadere nel pregiudizio della quantità, noi riusciremo a salvare la qualità e l'anima del nostro movimento che non è effimero e transitorio perché dura da quattro anni, e quattro anni, in questo secolo tempestoso, equivalgono a quaranta anni. Il nostro movimento è ancora nella preistoria ed ancora in via di sviluppo e la storia comincia domani. Quello che il Fascismo finora ha fatto è opera negativa. Ora bisogna che ricostruisca. Così si parrà la sua nobilitade, così si parrà la sua forza, il suo.animo.
Amici, io sono certo che i capi del Fascismo faranno il loro dovere. Sono anche certo che i gregari lo faranno. Prima di procedere ai grandi compiti, procediamo ad
una selezione inesorabile delle nostre file. Non possiamo portarci le impedimenta; siamo un esercito di veliti, con qualche retroguardia di bravi solidi territoriali. Ma non vogliamo che vi siano in mezzo a noi elementi infidi.
Io saluto Udine, questa cara vecchia Udine alla quale mi legano tanti ricordi. Per le sue ampie strade sono passate generazioni e generazioni di italiani che erano il fiore purpureo della nostra razza.. Molti di questi giovani e giovanetti dormono ora il sonno che non ha più risveglio, nei piccoli, isolati cimiteri delle Alpi o nei cimiteri lungo 1'Isonzo tornato fiume sacro d'Italia. Udinesi, fascisti, italiani, raccogliete lo spirito di questi nostri indimenticabili morti e fatene lo spirito ardente della Patria immortale!
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Giovanni




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IL DISCORSO DI CREMONA

Questo discorso fu pronunziato dal Duce a Cremona, il 26 settembre 1922, davanti a un'adunata di trentamila camicie nere. Le denominazioni di principi e triari, in uso nel primo periodo della Marcia su Roma, servivano a distinguere gli squadristi destinati all'azione (principi) dai fascisti più anziani, non appartenenti alle Squadre, considerati come una milizia ausiliaria (triari). Dopo la Marcia su Roma, con la costituzione della M.V.S.N., tale denominazione fu abbandonata.

Principi! Triari! Avanguardisti! Balilla! Donne fasciste! Popolo lavoratore di Cremona e provincia!

La realtà ha superato, come spesso accade, le lusinghiere aspettative. La vostra adunata, o fascisti cremonesi, è la più solenne fra tutte quelle alle quali ho assistito. Sono venuto fra voi non per pronunziare un discorso, poiché la eloquenza mi dà un senso irresistibile di fastidio; sono venuto ad esprimervi di persona la mia solidarietà, che va dal vostro magnifico capo Roberto Farinacci all'ultimo squadrista. Qui, in tempi che ormai possono dirsi remoti, furono agitate delle grandi idee: qui sorse una democrazia che ebbe il suo periodo di splendore, prima di diventare slombata e rammollita ai piedi del socia/-pussismo. E malgrado il fierissimo dissidio che ci separò dopo la guerra, io non posso non ricordare un'altra nobile figura espressa dalla vostra terra, feconda di messi e di spiriti: parlo di Leonida Bissolati.
Coloro che sulla falsariga di informazioni tendenziose e bugiarde parlano di uno schiavismo agrario, dovrebbero venire a vedere coi propri occhi questa folla di autentici lavoratori, di gente del popolo, con le spalle, i garretti, le braccia abbastanza solidi per portare le fortune sempre maggiori della Patria.
Solo da canaglie e da criminali noi possiamo essere tacciati di nemici delle classi lavoratrici; noi che siamo figli di popolo; noi che abbiamo conosciuto la rude fatica delle braccia; noi che abbiamo sempre vissuto fra la gente del lavoro che è infinitamente superiore a tutti i falsi profeti che pretendono di rappresentarla! Ma appunto perché siamo figli di popolo non vogliamo ingannare il popolo, non vogliamo mistificarlo, promettendogli cose irraggiungibili, pure prendendo solenne formale impegno di tutelarlo nella rivendicazione dei suoi giusti diritti e dei suoi legittimi interessi.
Vedendo passare le vostre squadre, disciplinate, fervide di energia, di passione; vedendo passare i piccoli Balilla che rappresentano la primavera ancora acerba della vita; poi gli squadristi che sono nel pieno della giovinezza; finalmente gli uomini dalla solida virilità, non esclusi i vecchi, io mi dicevo che la gamma della razza è perfetta, in quanto abbraccia la fase prima e la fase ultima della vita.
Ebbene, o fascisti, principi e triari! Grandi compiti ci aspettano. Quello che abbiamo fatto è poco a paragone di quello che dobbiamo fare. C'è già un contrasto vivo, drammatico, sempre più palpitante di attualità fra una Italia di politicanti imbelli e l'Italia sana, forte, vigorosa, che si prepara a dare il colpo di scopa definitivo a tutti gli insufficienti, a tutti i ribaldi, a tutti i mestieranti, a tutta la schiuma infetta della società italiana.
Né si illudano gli avversari. Supponevano nell'infausto '19, quando noi, qui in Cremona ed in tutta Italia, eravamo un manipolo di uomini, supponevano, per lusingare la loro immensa viltà, che il Fascismo sarebbe stato un fenomeno passeggero. Orbene il Fascismo vive da quattro anni ed ha dinanzi a sé il compito necessario per riempire un secolo. Né si illudano - gli avversari - di poter fiaccare la nostra compagine, perché noi vogliamo sempre più renderla compatta, disciplinata, militare, affiatata, attrezzata per tutte le eventualità, perché, o amici, se sarà necessario un colpo risolutivo, tutti, dal primo all'ultimo - e guai al disertore od al traditore, ché sarà colpito! - tutti, dal primo all'ultimo, faranno il loro preciso dovere. Insomma, noi vogliamo che l'Italia diventi fascisial
Ciò è semplice. Ciò è chiaro. Noi vogliamo che l'Italia diventi fascista, poiché siamo stanchi di vederla all'interno governata con principi e con uomini che oscillano continuamente fra la negligenza e la viltà; e siamo, soprattutto,. stanchi di vederla considerata all'estero come una quantità trascurabile.
Che cosa è quel brivido sottile che vi percorre le membra quando sentite le note della Canzone del Piane? Gli è che il Piave non segna una fine: segna un principio! È dal Piave; è da Vittorio Veneto; è dalla Vittoria - sia pure mutilata dalla diplomazia imbelle, ma gloriosissima -; è da Vittorio Veneto che si dipartono i nostri gagliardetti. È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziata la marcia che non può fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la meta suprema: Romal E non ci saranno ostacoli, né di uomini, né di cose che potranno fermarci!
Ed ora, popolo fascista di Cremona, io voglio rin graziarti per le accoglienze che mi hai tributato. Io so e mi piace di pensare che non a me andavano gli onori, ma all'idea, alla nostra causa che è stata consacrata da tanto sangue purpureo della migliore gioventù italiana, Abbiti, o popolo di Cremona, il mio ringraziamento cordiale e fraterno ed abbracciando il mio vecchio e fedele amico Farinacci, io abbraccio tutto il Fascismo cremonese al grido di « Viva il Fascismo! Viva l'Italia!
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DISCORSO DEL 4 OTTOBRE 1922 - alla Sciesa di Milano

Il 4 ottobre 1922, commemorando al Gruppo Fascista « Sciesa » di Milano i camerati Melloni e Tonoli, caduti all'assalto dell'Avanti ! il 4 agosto 1922, pronunciò il seguente discorso:

Ho accettato di venire a parlare questa sera al Gruppo Sciesa per un triplice ordine di motivi: un motivo sentimentale, un motivo personale ed un motivo politico. Un motivo sentimentale, perché volevo tributare il mio attestato di ammirazione e di devozione profonda ai nostri indimenticabili magnifici Caduti, Melloni, Tonoli e Crespi: i primi due della vostra squadra; il terzo della Sauro, io li ricordo perfettamente. Poi ho accettato di parlare per il carattere che il Gruppo ha voluto dare a questa celebrazione. Finalmente, data l'attesa generale che tiene sospesi gli animi di tutti gli italiani nel presagio di qualche avvenimento che dovrà arrivare, non volevo mancare l'occasione di precisare alcuni punti di vista; precisazione necessaria nel tormentoso periodo che attraversiamo.
Voi sentite, a giudicare dal vostro atteggiamento austero e silenzioso, che se la materia è corrompibile, lo spirito è immortale.
Voi sentite, stasera, che in questo piccolo ambiente aleggia ancora lo spirito dei nostri Caduti. Sono presenti. Noi sentiamo la loro presenza. Poiché l'anima non può morire. E sono caduti nell'azione più eroica compiuta dal Fascismo italiano nei quattro anni della sua storia.
Poiché molte volte, quando i fascisti si sono precipitati a distruggere col ferro e col fuoco i covi della ribalda e vile delinquenza social-comunista, non hanno visto che le schiene in fuga; ma gli squadristi della Sciesa ed i due Caduti che qui ricordiamo e tutti gli squadristi dei Fascio milanese, sono andati all'assalto dell'Avanti! come sarebbero andati all'assalto di una trincea austriaca. Hanno dovuto varcare dei muri, spezzare dei reticolati, sfondare delle porte, affrontare del piombo rovente che gli assaliti gettavano con le loro armi. Questo è eroismo. Questa è violenza. Questa è la violenza che io approvo, che io esalto. Questa è la violenza del Fascismo milanese. Ed il Fascismo italiano – io parlo ai fascisti di tutta Italia - dovrebbe farla sua.
Non la piccola violenza individuale sporadica, spesso inutile, ma la grande, la bella, la inesorabile violenza delle ore decisive.
È necessario, quando il momento arriva, di colpir con la massima decisione e con la massima inesorabilità. Non dovete credere che qui mi facciano velo i sentimenti di simpatia fortissima che io ho per il fascismo milanese: ma è soprattutto l'amore che io porto alla nostra causa.
Quando una causa è santificata da tanto sangue purissimo di giovani, questa causa non deve venire in nessun modo ed a nessun costo infangata.
Eroi sono stati i nostri amici! La loro gesta è stata guerriera. La loro violenza santa e morale. Noi li esaltiamo. Noi li ricordiamo. Noi li vendicheremo. Non possiamo accettare la morale umanitaria, la morale tolstoiana, la morale degli schiavi. Noi in tempo di guerra , adottiamo la formula socratica: Superare nel bene gli amici, superare nel male i nemici!
La nostra linea di condotta è correttissima. Chi ci fa del bene, avrà del bene; chi ci fa del male, avrà del male. I nostri nemici non potranno lagnarsi se, essendo nemici, saranno trattati duramente, come duramente devono essere trattati i nemici. Siamo in un periodo storico di crisi che accelera ogni giorno i suoi tempi. Lo sciopero generale, che fu stroncato dal sacrificio di sangue dei fascisti, è un episodio che si inquadra nella crisi generale.
Il dissidio è fra Nazione e Stato. L'Italia è una Nazione. L'Italia non è uno Stato. L'Italia è una Nazione, poiché dalle Alpi alla Sicilia c'è una unità fondamentale dei nostri costumi; c'è una unità fondamentale del nostro linguaggio, della nostra religione. La guerra combattuta dal '15 al '18 consacra tutte queste unità e se queste unità formidabili bastano a caratterizzare la Nazione, la Nazione italiana esiste: piena di risorse, potentissima, lanciata verso un glorioso destino.
Ma la Nazione deve darsi lo Stato. E lo Stato non c'è. Oggi il giornale che rappresenta il liberalismo in Italia - il giornale più diffuso in Italia, e che perciò qualche volta ha fatto molto male agli italiani sostenendo tesi assurde - constatava che in Italia ci sono due Governi e quando ce ne sono due, ce n'è uno di più. Lo Stato di ieri e lo Stato di domani. «Occorre un Governo», diceva oggi il Corriere della Sera. Siamo d'accordo. Occorre un Governo.
I cittadini si domandano: «Quale Stato finirà per dettare la sua legge agli italiani?». Noi non abbiamo nessun dubbio a rispondere: «Lo Stato fascista!».
Il Corriere della Sera dice: «Bisogna far presto!». Siamo d'accordo! Una Nazione non può vivere tenendo nel suo seno due Stati, due Governi, uno in atto, uno in potenza. Ma quali sono le vie per arrivare a dare un Governo alla Nazione ? Diciamo Governo; ma quando noi diciamo Stato, intendiamo qualche cosa di più. Intendiamo lo spirito, non soltanto la materia inerte ed effimera! Ci sono due mezzi, o signori: se a Roma non sono diventati tutti rammolliti, dovrebbero convocare la Camera al primi di novembre, fare votare la legge elettorale riformata, convocare il popolo a comizio entro dicembre. Poiché la crisi Facta, come invoca il Corriere, non potrebbe spostare la situazione.
Fate trenta crisi al Parlamento italiano, così come è oggi, ed avrete trenta reincarnazioni dei signor Facta. Se il Governo, o signori, non accetta questa strada, allora noi siamo costretti ad imboccare l'altra. Vedete che il nostro giuoco ormai è chiaro. D'altra parte non è pensabile più, quando si tratta di dare l'assalto ad uno Stato, la piccola congiura che rimane segreta sì e no fino al momento dell'attacco. Noi dobbiamo dare degli ordini a centinaia di migliaia di persone, e pretendere di conservare Il segreto sarebbe la più assurda delle pretese e delle speranze. Noi giuochiamo a carte scoperte fino al punto in cui è necessario di tenerle scoperte. E diciamo: «C'è un'Italia che voi, governanti liberali, non comprendete più. Non la comprendete per la vostra mentalità arretrata, non la comprendete per il vostro temperamento statico, non la comprendete perché la politica parlamentare vi ha inaridito lo spirito. L'Italia che è venuta dalle trincee è un'Italia forte, un’Italia piena di impulsi, di vita ».
È un'Italia che vuole iniziare un nuovo periodo di storia. Il contrasto è quindi plastico, drammatico, fra l'Italia di ieri e la nostra Italia.
L'urto appare inevitabile. Si tratta ora di elaborare le nostre forze, i nostri valori, di preparare le nostre energie, di coordinare i nostri sforzi perché l'urto sia vittorioso per noi. E del resto su di ciò non può esservi dubbio.
Ormai lo Stato liberale è una maschera dietro la quale non c'è nessuna faccia. È una impalcatura; ma dietro non c'è nessun edificio. Ci sono delle forze; ma dietro di esse non c'è più lo spirito. Tutti quelli che dovrebbero essere a sostegno di questo Stato, sentono che esso sta toccando gli estremi limiti della vergogna, della impotenza e del ridicolo. D'altra parte, come dissi ad Udine, noi non vogliamo mettere tutto in giuoco, perché non ci presentiamo come i redentori del genere umano, né promettiamo niente di speciale agli Italiani. Anzi, può essere che noi imporremo una più dura disciplina agli Italiani e dei sacrifici.
Ma faremo una politica di severità e reazione. Questi termini non ci fanno paura. Se si dirà dagli organi rappresentativi della democrazia che noi siamo reazionari, non ci adonteremo affatto. Perché quel che ci divide dalla democrazia è la mentalità, è lo spirito. La storia non è un itinerario obbligato: la storia è tutta contrasti, è tutta vicende; non ci sono secoli di tutta luce e secoli di tutte tenebre. Non si può trasportare il fascismo fuori d'Italia, come non si è potuto trasportare il bolscevismo fuori dalla Russia.
Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani «indifferenti», che rimarranno nelle loro case ad attendere; i «simpatizzanti», che potranno circolare; e finalmente gli italiani «nemici», e questi non circoleranno.
Non prometteremo nulla di speciale. Non assumeremo atteggiamenti di missionari che portano la verità rivelata. Non credo che i nemici ci opporranno ostacoli serii. Il sovversivismo è a terra. Voi vedete il congresso di Roma. Quale cosa pietosa è stata! Quando il leader di un congresso diventa un Buffoni qualunque, come quell'avvocato di Busto o di altro paese che sia, voi capite che siamo già all'ultimo scalino della scala.
C'era un socialismo. Oggi ce ne sono quattro, con tendenza ad aumentare. E quel che conta, ognuno di costoro intende di essere il rappresentante dell'autentico socialismo. Il proletariato non può sbandarsi. È sfiduciato, schifato dei contegno dei socialisti. Ho già detto, del resto, che il socialismo non è soltanto tramontato nella filosofia e nella dottrina. Ci vogliono gli Italiani ed in genere gli occidentali a bucare con gli spilli della loro logica le grottesche vesciche dei socialismo internazionale.
Forse, vista la cosa sotto l'aspetto storico, è una lotta fra l'Oriente e l'Occidente: fra l'Oriente fumoso, caotico, rassegnato, e noi, popolo occidentale, che non ci lasciamo trasportare eccessivamente dai voli della metafisica e che siamo assetati di concrete, dure realtà.
Gli Italiani non possono essere a lungo mistificati da dottrine asiatiche, assurde e criminose nella loro applicazione pratica e concreta. Questo è il senso del Fascismo italiano, il quale rappresenta una reazione all'andazzo democratico per cui tutto doveva essere grigio, mediocre, uniforme, livellatore; in cui si faceva di tutto per attenuare, nascondere, rendere fugace e transitoria l'autorità dello Stato.
La democrazia credeva di rendersi preziosa presso le masse popolari e non comprendeva che le masse popolari disprezzano coloro che non hanno il coraggio di essere quello che devono essere. Tutto questo la democrazia non ha capito. La democrazia ha tolto lo «stile» alla vita del popolo: cioè una linea di condotta, cioè il colore, la forza, il pittoresco, l'inaspettato, il mistico; insomma, tutto quello che conta nell'animo delle moltitudini. Noi suoniamo la lira su tutte le corde: da quella della violenza a quella della religione, da quella dell'arte a quella della politica. Siamo politici e siamo guerrieri. Facciamo del sindacalismo e facciamo anche delle battaglie nelle piazze e nelle strade. Questo è il Fascismo, così come fu concepito e come fu attuato e come è attuato, soprattutto, a Milano.
Bisogna, o amici, mantenere questo privilegio. Tenere sempre il Fascismo magnifico in questa linea meravigliosa di forza e di saggezza. Non abbandonarsi alla imitazione; poiché quello che è possibile in una data plaga agricola, in un dato momento, in un dato ambiente, non è possibile a Milano. Qui la situazione è stata capovolta più per la maturazione spontanea di eventi che per violenza di uomini o di cose. Qui il nostro dominio si afferma sempre più solido, sicuro, effettivo. Ed allora, o amici, noi dobbiamo prepararci con animo puro, forte, sgombro di preoccupazioni ai compiti che ci aspettano. Domani è assai probabile, è quasi certo, tutta la impalcatura formidabile di uno Stato moderno sarà sulle nostre spalle. Non sarà soltanto sulle spalle di pochi uomini: sarà sulle spalle di tutto il Fascismo italiano.
E milioni di occhi, spesso malevoli, e milioni di uomini anche oltre le frontiere, ci guarderanno. E vorranno vedere come funzionano le nostre gerarchie; vorranno vedere come si amministrerà la giustizia dello Stato fascista, come si tutelano i galantuomini, come si fa la politica estera, come si risolvono i problemi della scuola, della espansione, dell'esercito. Ed ognuno che sia colto in fallo riverberà il suo fallo e la vergogna su tutta la gerarchia dello Stato e, necessariamente, del Fascismo.
Avete voi, o amici, la sensazione esatta di questo compito formidabile che ci attende? Siete voi preparati spiritualmente a questo trapasso? Credete voi che basti soltanto l'entusiasmo? Non basta! È necessario, però, perché l'entusiasmo è una forza primitiva e fondamentale dello spirito umano. Non si può compiere nulla di grande se non si è in istato di amorosa passione, in istato di misticismo religioso. Ma non basta. Accanto al sentimento ci sono le forze raziocinanti del cervello. Io credo che il Fascismo, nella crisi generale di tutte le forze della Nazione, abbia i requisiti necessari per imporsi e per governare. Non secondo la demagogia, ma secondo la giustizia.
Ed allora, governando bene la Nazione, indirizzandola verso i suoi destini gloriosi, conciliando gli interessi delle classi senza esasperare gli odii degli uni e gli egoismi degli altri, proiettando gli Italiani come una forza unica verso i compiti mondiali, facendo del Mediterraneo il lago nostro, alleandoci, cioè, con quelli che nel Mediterraneo vivono, ed espellendo coloro che del Mediterraneo sono parassiti; compiendo questa opera dura. paziente, di linee ciclopiche, noi inaugureremo veramente un periodo grandioso della storia italiana.
Così ricorderemo i nostri Morti; così onoreremo i nostri Morti; così li iscriveremo nel libro d'oro dell'Aristocrazia fascista.
Indicheremo i Loro nomi alle nuove generazioni, ai bambini che vengono su e rappresentano la primavera eterna della vita che si rinnova. Diremo: «Grande fu lo sforzo, duro il sacrificio e purissimo il sangue che fu versato: e non fu versato per salvaguardare interessi di individui o di caste o di classe: non fu versato in nome della materia; ma fu versato in nome di una idea: in nome dello spirito, in nome di quanto di più nobile, di più bello, di più generoso, di più folgorante può contenere un'anima umana. Vi domandiamo di ricordare ogni giorno con l'esempio i nostri Morti: di essere degni dei Loro sacrificio: di compiere quotidianamente il vostro esame di coscienza».
Amici, io ho fiducia in voi! Voi avete fiducia in me! In questo mutuo leale patto è la garanzia, è la certezza della nostra vittoria! Viva l'Italia! Viva il Fascismo! Onore e gloria ai nostri Martiri!
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DISCORSO DEL 24 OTTOBRE 1922 - Il discorso di Napoli

Mancano quattro giorni alla marcia su Roma: la rivoluzione è già in cammino verso la vittoria finale.
A Napoli, il 24 ottobre 1922, si raccolgono quarantamila fascisti e ventimila operai fra l'entusiasmo della popolazione. In quella giornata, preannunziatrice di vittoria, il Duce pronuncia il seguente discorso rivolto al popolo napoletano e alla Nazione:

Fascisti! Cittadini!

Può darsi, anzi è quasi certo, che il mio genere di eloquenza determini in voi un senso di delusione, in voi che siete abituati alla foga immaginosa e ricca della vostra oratoria. Ma io, da quando mi sono accorto che era impossibile torcere il collo alla eloquenza, mi sono detto che era necessario ridurla alle sue linee schematiche ed essenziali.
Siamo venuti a Napoli da ogni parte d'Italia a compiere un rito di fraternità e di amore. Sono qui con noi i fratelli della sponda dalmatica tradita, ma che non intende arrendersi (applausi; grida di: «Viva la Dalmazia italiana!»); sono qui i fascisti di Trieste, dell'Istria, della Venezia Tridentina, di tutta l'Italia settentrionale; sono qui anche i fascisti delle isole, della Sicilia e della Sardegna, tutti qui ad affermare serenamente, categoricamente, la nostra indistruttibile fede unitaria che intende respingere ogni più o meno larvato tentativo di autonomismo e di separatismo.
Quattro anni fa le fanterie d'Italia, maturata a grandezza in un ventennio di travaglio faticoso, le fanterie d'Italia, fra le quali erano vastamente rappresentati i figli delle vostre terre, scattavano dal Piave e dopo avere battuto gli austriaci, con l'ausilio assolutamente irrisorio di altre forze (Applausi), si slanciavano verso l'Isonzo; e solo la concezione assurdamente e falsamente democratica della guerra poté impedire che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero sul ring di Vienna e per le arterie di Budapest! (Applausi).
Un anno fa, a Roma, ci siamo trovati in un momento avviluppati da un'ostilità sorda e sotterranea, che traeva le sue origini dagli equivoci e dalle infamie che caratterizzano l'indeterminato mondo politico della capitale. Noi non abbiamo dimenticato tutto ciò. Oggi siamo lieti che tutta Napoli, questa città che io chiamo la grande riserva di salvezza della nazione (Applausi), ci accolga con un entusiasmo fresco, schietto, sincero, che fa bene al nostro cuore di uomini e di italiani; ragione per cui esigo che nessun incidente, neppure minimo, turbi la nostra adunata, poiché, oltre che delittuoso, sarebbe anche enormemente stupido: esigo che, ad adunata finita, tutti i fascisti che non sono di Napoli abbandonino in ordine perfetto la città. L'Italia intera guarda a questo nostro convegno perché - lasciatemelo dire senza quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli - non c'è nel dopoguerra europeo e mondiale un fenomeno più interessante, più originale, più potente del fascismo italiano.
Voi certamente non potete pretendere da me quello che si costuma chiamare il grande discorso politico. Ne ho fatto uno a Udine, un altro a Cremona, un terzo a Milano. Ho quasi vergogna di parlare ancora.
Ma data la situazione straordinariamente grave in cui ci troviamo, ritengo opportuno fissare con la massima precisione i termini del problema perché siano altrettanto nettamente chiarite le singole responsabilità.
Insomma noi siamo al punto in cui la freccia si parte dall'arco, o la corda troppo tesa dell'arco si spezza! (Applausi).
Voi ricordate che alla Camera italiana il mio amico Lupi ed io ponemmo i termini del dilemma, che non è soltanto fascista, ma italiano: legalità o illegalità? Conquiste parlamentari o insurrezione? Attraverso quali strade il Fascismo diventerà Stato? Perché noi vogliamo diventare Stato! Ebbene, il giorno 3 ottobre io avevo già risolto il dilemma.
Quando io chiedo le elezioni, quando le chiedo a breve scadenza, quando le chiedo con una legge elettorale riformata, è evidente a chiunque che io ho già scelta una strada. La stessa urgenza della mia richiesta denota che il travaglio del mio spirito è giunto al suo estremo possibile. Avere capito questo, significava avere o non avere la chiave in mano per risolvere tutta la crisi politica italiana.
La richiesta partiva da me, ma partiva anche da un Partito che ha masse organizzate in modo formidabile e che raccoglie tutte le generazioni nuove dell'Italia, tutti i giovani più belli fisicamente e spiritualmente, che ha un vasto seguito nella vaga ed indeterminata opinione pubblica.
Ma c'è di più, o signori. Questa richiesta avveniva all'indomani dei fatti di Bolzano e di Trento, che avevano svelato ad oculos la paralisi completa dello Stato italiano, e che avevano rivelato, d'altra parte, la efficenza non meno completa dello Stato fascista. Occorreva, o signori, affrettarsi verso di me, perché io non fossi più ancora agitato dal dilemma interno.
Ebbene: con tutto ciò il deficente Governo che siede a Roma, ove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell'on. Facta stanno tre anime nere della reazione antifascista (applausi prolungati) - alludo ai signori Taddei, Amendola ed Alessio (urla prolungate di tutto il pubblico; da numerose parti si grida: «Pfui! Pfui! Vergogna! Vergogna») - questo Governo mette il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell'ordine, pubblico!
L'impostazione del problema è fatalmente errata. Degli uomini politici domandano che cosa desideriamo. Noi non siamo degli spiriti tortuosi e concitati. Noi parliamo schiettamente: facciamo del bene a chi ci fa del bene, del male a chi ci fa del male. Che cosa volete, o fascisti? Noi abbiamo risposto molto.
Abbiamo chiesto al Governo semplicemente lo scioglimento di questa Camera, la riforma elettorale, le elezioni a breve scadenza. Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca, conservata tra le forze della nazione e le forze dell'antinazione. Abbiamo chiesto dei severi provvedimenti di indole finanziaria, abbiamo chiesto un rinvio dello sgombero della zona dalmata ed abbiamo chiesto cinque portafogli più il Commissariato dell'aviazione.
Abbiamo chiesto precisamente il ministero degli Esteri, quello della Guerra, quello della Marina, quello del Lavoro e quello dei Lavori Pubblici. Io sono sicuro che nessuno di voi troverà eccessive queste nostre richieste. Ed a completarvi il quadro aggiungerò che in questa soluzione legalitaria era esclusa la mia diretta partecipazione al Governo; e dirò anche le ragioni che sono chiare alla mente quando pensiate che per mantenere ancora nel pugno il Fascismo io debbo avere una vasta elasticità di movimenti anche ai fini, dirò così, giornalistici e polemici.
Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora, si è risposto in un modo ridicolo. Malgrado tutto, nessuno degli uomini politici d'Italia ha saputo varcare le soglie di Montecitorio per vedere il problema del Paese. Si è fatto un computo meschino delle nostre forze, si è parlato di ministri senza portafogli, come se ciò, dopo le prove più o meno miserevoli della guerra, non fosse il colmo di ogni umano e politico assurdo. Si è parlato di sottoportafogli: ma tutto ciò è irrisorio.
Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi fascisti non intendiamo di rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali! (Applausi vivissimi e prolungata). Perché noi abbiamo la visione, che si può chiamare storica, del problema, di fronte all'altra visione, che si può chiamare politica e parlamentare.
Non si tratta di combinare ancora un Governo purchessia, più o meno vitale: si tratta di immettere nello Stato liberale – che ha assolti i suoi compiti che sono stati grandiosi e che noi non dimentichiamo - di immettere nello Stato liberale tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria.
Questo è essenziale ai fini dello Stato, non solo, ma ai fini della storia della nazione. Ed allora?
Allora, o signori, il problema, non compreso nei suoi termini storici, si imposta e diventa un problema di forza. Del resto, tutte le volte che nella storia si determinano dei forti contrasti di interessi e d'idee, è la forza che all'ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perché se l'urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi. Noi ne siamo degni (applausi); tocca al popolo italiano,che ne ha il diritto, che ne ha il dovere, di liberare la sua vita politica e spirituale da tutte quelle incrostazioni parassitarie del passato, che non può prolungarsi perennemente nel presente perché ucciderebbe l'avvenire. (Applausi).
E allora si comprende perfettamente che i governanti di Roma cerchino di creare degli equivoci e dei diversivi; che cerchino di turbare la compagine del fascismo e cerchino di formare una soluzione di continuità tra l'anima del fascismo e l'anima nazionale; che ci pongano di fronte a dei problemi. Questi problemi hanno il nome di monarchia, di esercito, di pacificazione.
Credetemi, non è per rendere un omaggio al lealismo assai quadrato del popolo meridionale, se io torno a precisare ancora una volta la posizione storica e politica del fascismo nei confronti della monarchia.
Ho già detto che discutere sulla bontà o sulla malvagità in assoluto ed in astratto, è perfettamente assurdo. Ogni popolo, in ogni epoca della sua storia, in determinate condizioni di tempo, di luogo e di ambiente, ha il suo regime.
Nessun dubbio che il regime unitario della vita italiana si appoggia saldamente alla monarchia di Savoia.(Applausi prolungati). Nessun dubbio, anche, che la monarchia Italiana, per le sue origini, per gli sviluppi della sua storia, non può opporsi a quelle che sono le tendenze della nuova forza nazionale. Non si oppose quando concesse lo Statuto, non si oppose quando il popolo italiano - sia pure in minoranza, una minoranza intelligente e volitiva – chiese e volle la guerra. Avrebbe ragione di opporsi oggi che il Fascismo non intende di attaccare il regime nelle sue manifestazioni immanenti, ma piuttosto intende liberarlo da tutte le superstrutture che aduggiano la posizione storica di questo istituto e nello stesso tempo comprimono tutte le tendenze del nostro animo?
Inutilmente i nostri avversari cercano di perpetuare l'equivoco.
Il Parlamento, o signori, e tutto l'armamentario della democrazia, non hanno niente a che vedere con l'istituto monarchico. Non solo, ma si aggiunga che noi non vogliamo togliere al popolo il suo giocattolo (il Parlamento). Diciamo «giocattolo» perché gran parte del popolo Italiano lo stima per tale. Mi sapete voi dire, per esempio, perché su undici milioni di elettori ce ne sono sei che se ne infischiano di votare? Potrebbe darsi, però, che se domani si strappasse loro il giocattolo, se ne mostrassero dispiacenti. Ma noi non lo strapperemo. In fondo ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità, è il nostro metodo. La democrazia crede che i principii siano immutabili in quanto siano applicabili in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni evenienza.
Noi non crediamo che la storia si ripeta, noi non crediamo che la storia sia un itinerario obbligato, noi non crediamo che dopo la democrazia debba venire la superdemocrazia!
Se la democrazia è stata utile ed efficace per la Nazione nel secolo XIX, può darsi che nel secolo XX sia qualche altra forma politica che potenzii di più la comunione della società nazionale. Nemmeno, adunque, lo spauracchio della nostra antidemocrazia può giovare a determinare quella soluzione di continuità, di cui vi parlavo dianzi.
Quanto poi alle altre istituzioni in cui si impersona il regime, in cui si esalta la nazione - parlo dell'esercito - l'esercito sappia che noi, manipolo di pochi e di audaci, lo abbiamo difeso quando i ministri consigliavano gli ufficiali di andare in borghese per evitare conflitti! (Applausi prolungati).
Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede, che è coraggio. Il nostro mito è la Nazione, il nostro mito è la grandezza della Nazione! E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto.
Per noi la Nazione è soprattutto spirito e non è soltanto territorio. Ci sono Stati che hanno avuto immensi territorii e che non lasciarono traccia alcuna nella storia umana. Non è soltanto numero, perché si ebbero nella storia degli Stati piccolissimi, microscopici, che hanno lasciato documenti memorabili, imperituri nell'arte e nella filosofia.
La grandezza della Nazione è il complesso di tutte queste virtù, di tutte queste condizioni. Una Nazione è grande quando traduce nella realtà la forza del suo spirito. Roma è grande quando da piccola democrazia rurale a poco a poco imbeve del ritmo del suo spirito tutta l'Italia, poi s'incontra con i guerrieri di Cartagine e deve battersi contro di loro. È la prima guerra della storia, una delle prime. Poi, a poco a poco, porta le aquile agli estremi confini della terra, ma ancora e sempre l'Impero Romano è una creazione dello spirito, poiché le armi, prima che dalle braccia, erano puntate dallo spirito dei legionari romani.
Ora, dunque, noi vogliamo la grandezza della Nazione nel senso materiale e spirituale. Ecco perché noi facciamo del sindacalismo.
Noi non lo facciamo perché crediamo che la massa, in quanto numero, in quanto quantità, possa creare qualche cosa di duraturo nella storia. Questa mitologia della bassa letteratura socialista noi la respingiamo. Ma le masse laboriose esistono nella nazione. Sono gran parte della nazione, sono necessarie alla vita della nazione ed in pace ed in guerra. Respingerle non si può e non si deve. Educarle si può e si deve; proteggere i loro giusti interessi si può e si deve! (Applausi).
Si dice: «Volete dunque perpetuare questo stato di guerriglia civile che travaglia la nazione?». No. In fondo, i primi a soffrire di questo stillicidio rissoso, domenicale, con morti e feriti, siamo noi. Io sono stato il primo a tentare di buttare delle passerelle pacificatrici tra noi ed il cosiddetto mondo sovversivo italiano.
Anzi, ultimamente ho firmato un concordato con lieto animo: prima di tutto, perché mi veniva richiesto da Gabriele d'Annunzio; in secondo luogo, perché era un'altra tappa, o ritengo che sia un'altra tappa, verso la pacificazione nazionale.
Ma noi non siamo, d'altra parte, delle piccole femmine isteriche che sogliono ad ogni minuto allarmarsi di quello che succede.
Noi non abbiamo una visione apocalittica, catastrofica della storia. Il problema finanziario dello Stato, di cui molto si parla, è un problema di volontà politica. I milioni e i miliardi li risparmierete se avrete al Governo degli uomini che abbiano il coraggio di dire no ad ogni richiesta. Ma finché non porterete sul terreno politico anche il problema finanziario, il problema non potrà essere risolto.
Così per la pacificazione. Noi siamo per la pacificazione, noi vorremmo vedere tutti gli italiani adottare il minimo comune denominatore che rende possibile la convivenza civile; ma d'altra parte non possiamo sacrificare i nostri diritti, gli interessi della Nazione, l'avvenire della Nazione a dei criterii soltanto di pacificazione che noi proponiamo con lealtà, ma che non sono accettati con altrettanta lealtà dalla parte avversa. Pace con coloro che vogliono veramente pace; ma con coloro che insidiano noi, e, soprattutto, insidiano la Nazione, non ci può essere pace se non dopo la vittoria!
Ed ora, fascisti e cittadini di Napoli, io vi ringrazio dell'attenzione con la quale avete seguito questo mio discorso. Napoli dà un bello e forte spettacolo di forza, di disciplina, di austerità. E bene che siamo venuti da tutte le parti a conoscervi, a vedervi come siete, a vedere il vostro popolo, il popolo coraggioso che affronta romanamente la lotta per la vita, che non crea un argine per il fiume, ed il fiume per un argine, ma vuole rifarsi la vita per conquistare la ricchezza lavorando e sudando, e portando sempre nell'animo accorato la potente nostalgia di questa vostra meravigliosa terra, che è destinata ad un grande avvenire, specialmente se il fascismo non tralignerà.
Né dicano i democratici che il fascismo non ha ragione di essere qui, perché non c'è stato il bolscevismo. Qui vi sono altri fenomeni di tristizia politica che non sono meno pericolosi del bolscevismo, meno nocivi allo sviluppo della coscienza politica della nazione.
Io vedo la grandissima Napoli futura, la vera metropoli del Mediterraneo nostro - il Mediterraneo ai mediterranei - e la vedo insieme con Bari (che aveva sedicimila abitanti nel 1805 e ne ha centocinquantamila attualmente) e con Palermo costituire un triangolo potente di forza, di energia, di capacità; e vedo il fascismo che raccoglie e coordina tutte queste energie, che disinfetta certi ambienti, che toglie dalla circolazione certi uomini, che ne raccoglie altri sotto i suoi gagliardetti.
Ebbene, o alfieri di tutti i Fasci d'Italia, alzate i vostri gagliardetti e salutate Napoli, metropoli del Mezzogiorno, regina del Mediterraneo!
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DISCORSO DEL 27 OTTOBRE 1922 - Primo proclama del Quadrunvirato

Fascisti di tutta Italia!

L'ora della battaglia decisiva è suonata. Quattro anni fa, l'esercito nazionale scatenò di questi giorni la suprema offensiva che lo condusse alla vittoria: oggi, l'esercito delle camicie nere riafferma la vittoria mutilata e puntando disperatamente su Roma la riconduce alla gloria del Campidoglio. Da oggi principe e triari sono mobilitati. La legge marziale del fascismo entra in pieno vigore. Dietro ordine del Duce i poteri militari, politici e amministrativi della direzione del partito vengono riassunti da un quadrumvirato segreto d'azione, con mandato dittatoriale. L'esercito, riserva e salvaguardia suprema della nazione, non deve partecipare alla lotta, il fascismo rinnova la sua altissima ammirazione all'esercito di Vittorio Veneto. Nè contro gli agenti della forza pubblica marcia il fascismo, ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti che da quattro anni non ha saputo dare un governo alla nazione. Le classi che compongono la borghesia produttrice sappiano che il fascismo vuole imporre una disciplina sola alla nazione e aiutare tutte le forze che ne aumentino l'espansione economica ed il benessere. Le genti del lavoro, quelle dei campi e delle officine, quelle dei trasporti e dell'impiego, nulla hanno da temere dal potere fascista. Saremo generosi con gli avversari inermi; saremo inesorabili con gli altri. Il fascismo snuda la sua spada lucente per tagliare i troppi nodi di Gordio che irretiscono e intristiscono la vita italiana. Chiamiamo Iddio sommo e lo spirito dei nostri cinquecentomila morti a testimoni che un solo impulso ci spinge, una sola volontà ci accoglie, una passione sola c'infiamma: contribuire alla salvezza ed alla grandezza della patria.
Fascisti di tutta Italia!
Tendete romanamente gli spiriti e le forze. Bisogna vincere. Vinceremo!
Viva l'Italia! Viva il fascismo!



SECONDO PROCLAMA DEL QUADRUMVIRATO

Il 31 ottobre 1922 la Marcia su Roma aveva il suo coronamento con la chiamata di Benito Mussolini alla Presidenza del Consiglio e la formazione del primo Governo fascista, formato dai seguenti Ministri: Benito Mussolini (Presidenza, Interni ed interim degli Esteri); Generale Armando Diaz (Guerra); Ammiraglio Paolo Thaon di Revel (Marina); Luigi Federzoni (Colonie); Vincenzo Tangorra (Tesoro); Alberto De Stefani (Finanze); Aldo Oviglio (Giustizia); Giovanni Gentile (Istruzione Pubblica); Stefano Cavazzoni (Lavoro e Previdenza Sociale); Giuseppe De Capitani (Agricoltura); Teofilo Rossi (Industria e Commercio); Gabriele Carnazza (Lavori Pubblici); Giovanni Colonna di Cesarò (Poste e Telegrafi); Giovanni Giuriati (Terre liberate).
Nel tempo stesso il Quadrumvirato, dando l'ordine di smobilitazione alle Camicie Nere, pubblicava il seguente proclama redatto dal Duce:

Fascisti di tutta Italia!
I1 nostro movimento è stato coronato dalla Vittoria. Il Duce del nostro esercito ha assunto i poteri politici dello Stato per l'Interno e per gli Esteri. Il nuovo Governo, mentre consacra il nostro trionfo nel nome di coloro che ne furono gli artefici per terra e per mare, raccoglie, a scopo di pacificazione nazionale, uomini anche di altre parti, perché devoti alla causa della Nazione.
Il Fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere.
Fascisti!
Il quadrunvirato supremo d'azione, rimettendo i suoi poteri alla Direzione del Partito, vi ringrazia per la magnifica prova di disciplina e vi saluta. Voi avete bene meritato dell'avvenire della Patria.
Smobilitate con lo stesso ordine perfetto con il quale vi siete raccolti per il grande cimento, destinato - lo crediamo certamente - ad aprire una nuova epoca nella storia italiana. Tornate alle consuete opere poiché l'Italia ha bisogno ora di lavorare tranquillamente per attingere le sue maggiori fortune. Nulla venga a turbare l'ordine potente della Vittoria che abbiamo riportato in queste giornate di superba passione e di sovrana grandezza!
Viva l'Italia! Viva il Fascismo!



COMMIATO DA MILANO

Parole pronunciate a Milano, alla stazione centrale, la sera del 29 ottobre 1922, verso le venti e trenta, pochi minuti prima di partire per Roma

Camicie nere! Camicie azzurre! Cittadini!
Vi ringrazio del vostro caloroso omaggio, che accolgo come un viatico per la dura fatica che mi aspetta.
Se mi sarà concesso di assumere il potere vi garantisco che in Italia esisterà un governo nella pienezza assoluta della sua forza e con tutti i mezzi per farla valere.
La vittoria bacia oggi i gagliardetti fascisti e io vi invito ancora una volta a gridare: Viva l'Italia! Viva l'Esercito! (Gli risponde un formidabile urlo nel quale sono fusi i nomi di Mussolini, dell'Italia, del fascismo. E poi si leva solenne e vittorioso il canto di « Giovinezza ». Mussolini risponde alle acclamazioni irrigidendosi nella persona e inchinando più volte la testa in un particolare, austero ed energico gesto di saluto; stende la mano destra in alto rendendo il saluto romano alla scorta armata d'onore e si ritira. Sono le otto e trenta precise ed il treno si pone in moto: la folla segue facendo paurosamente ressa ai fianchi del convoglio in marcia e Mussolini ancora riappare mandando con la mano baci alle « camicie nere » .

«In tutte le stazioni del primo tratto del percorso, specialmente a Piacenza, sono schierate forze fasciste che rendono gli onori all'on. Mussolini, nonostante l'acqua che scroscia torrenzialmente. A Fiorenzuola d'Arda i fascisti, mettendosi sul binario, costringono il treno a fermarsi e Benito Mussolini deve pronunciare brevi parole di saluto. Altre dimostrazioni gli sono tributate alle stazioni di Borgo San Donnino e di Sarzana. Dopo queste stazioni, verso le 0,30, Mussolini si ritira nel suo scompartimento col suo segretario Alessandro Chiavolini. Anche durante il resto del percorso sono allineati alla stazione reparti fascisti, che alle esortazioni degli uomini di scorta rinunziano alle loro manifestazioni per non disturbare l'on. Mussolini ».



AL POPOLO DI ROMA

Alle dieci e mezzo, il treno che reca Mussolini arriva alla stazione di Roma. « Entusiastiche grida echeggiano sotto la nera volta della tettoia. L' " alalà! " fascista, fra applausi fragorosi, è ripetuto da mille petti.
Michele Bianchi, l'on. Acerbo, il prefetto, il questore di Roma muovono subito incontro all'atteso. Il prefetto Zoccoletti si fa innanzi ad ossequiare il duce. L'on. Mussolini, veduto il colonnello dell'Esercito che teneva il comando della stazione, dice testualmente

"Entro a Roma come capo del Governo ed il mio primo saluto è per l'Esercito glorioso.Viva l'Italia! Viva il re! ".

Il colonnello, commosso, risponde: " L'Esercito italiano sarà sempre pronto a compiere il suo dovere”.
Il futuro presidente, nonostante i preparativi delle autorità, esce dalla stazione per la via comune, e il suo volto rude, in cui l'emozione si contiene a stento sotto i lineamenti rattratti dalla volontà, a stento si stacca e si distingue da quelli degli acclamanti.

Fascisti! Cittadini!
Il movimento fascista è vittorioso su tutta la linea. Sono venuta a Roma per dare un governo alla nazione. Tra poche ore la nazione non avrà soltanto un ministero: avrà un governo. (Scoppio di vibranti applausi e di grida: « " Finalmente! Bravo! " »).

Mussolini riprende alzando il tono di voce:

Viva il re! (La folla ripete il grido di esaltazione al sovrano). Mussolini continua: Viva l'Italia! (L'evviva dalla strada torna a prorompere altissimo). Mussolini, con la voce ormai vinta dalla commozione, grida ancora: Viva il fascismo!
(Da giù si risponde con un vibrante « alalà! » tra scrosci di applausi e l'agitarsi dei gagliardetti. Mussolini guarda ancora lo spettacolo che si distende sotto i suoi occhi. Poi un sorriso di soddisfazione, rapidissimo, aleggia sul suo volto impenetrabile. Torna ad inchinarsi e lascia il balcone. Ancora la folla applaude, poi si disperde per le vie adiacenti fra i più vivi commenti, che si riassumono in poche parole: « Finalmente avremo un governo. Se lo ha promesso Lui l'Avremo senza dubbio! »).
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 2:46 pm    Oggetto:  
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Discorso del 16 novembre 1922 IL PRIMO DISCORSO PRESIDENZIALE

Il 16 novembre 1922 il primo governo fascista si presentava alla camera dei deputati. Il Duce pronunziò in tale occasione il suo primo discorso dal banco del governo, in qualità di presidente del Consiglio, parlando ai deputati e all’intera nazione, come già aveva fatto dal banco di deputato.

Mi onoro di annunziare alla Camera che Sua Maestà il Re, con decreto 31 scorso ottobre, ha accettato le dimissioni dell’onorevole avvocato Luigi Facta, deputato al Parlamento, dalla carica di presidente del consiglio dei ministri e quelle dei suoi colleghi ministri segretari di Stato, nonché quelle dei sottosegretari di Stato, e mi ha dato incarico di comporre il nuovo Ministero.


Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza. Da molti, anzi da troppi anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata come un assalto, ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è accaduto per la seconda volta, nel volgere di un decennio, che il popolo italiano - nella sua parte migliore - ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al disopra e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922. Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione. Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.
Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto la libera circolazione: del che approfittano già per risputare veleno e tendere agguati come a Carate, a Bergamo, a Udine, a Muggia. Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare. Ringrazio dal profondo del cuore i miei collaboratori, ministri e sottosegretari: ringrazio i miei colleghi di Governo, che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di questa ora: e non posso non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista colla loro attiva o passiva solidarietà. Credo anche di interpretare il pensiero di tutta questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria.
Prima di giungere a questo posto, da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono ahimè i programmi che difettano in Italia: sibbene gli nomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana, tutti dico, sono già stati risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà.
La politica estera è quella che, specie in questo momento, più particolarmente ci occupa e preoccupa. Ne parlo subito, perché credo, con quello che dirò, di dissipare molte apprensioni. Non tratterò tutti gli argomenti, perché, anche in questo campo, preferisco l'azione alle parole. Gli orientamenti fondamentali della nostra politica estera sono i seguenti: i trattati di pace, buoni o cattivi che siano, una volta che sono stati firmati e ratificati, vanno eseguiti.
Per ciò che riguarda precisamente l'Italia noi intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità nazionale.
Non possiamo permetterci il lusso di una politica di altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui. Do ut des. L'Italia di oggi conta, e deve adeguatamente contare. Lo si incomincia a riconoscere anche oltre i confini. Non abbiamo il cattivo gusto di esagerare la nostra potenza, ma non vogliamo nemmeno, per eccessiva ed inutile modestia, diminuirla. La mia formula è semplice: niente per niente. Chi vuole avere da noi prove concrete di amicizia, tali prove di concreta amicizia ci dia. L'Italia fascista, come non intende stracciare i trattati, così per molte ragioni di ordine politico, economico e morale non intende abbandonare gli Alleati di guerra. Roma sta in linea con Parigi e Londra, ma l'Italia deve imporsi e deve porre agli Alleati quel coraggioso e severo esame di coscienza che essi non hanno affrontato dall'armistizio ad oggi.
Si tratta insomma di uscire dal semplice terreno dell'espediente diplomatico, che si rinnova e si ripete ad ogni conferenza, per entrare in quello dei fatti storici, sul terreno cioè in cui è possibile determinare in un senso o nell'altro un corso degli avvenimenti. Una politica estera come la nostra, una politica di utilità nazionale, una politica di rispetto ai trattati, una politica di equa chiarificazione della posizione dell'Italia nell'Intesa, non può essere gabellata come una politica avventurosa o imperialista nel senso volgare della parola. Noi vogliamo seguire una politica di pace: non però una politica di suicidio.
Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole economia, lavoro, disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale. Regime della lesina: utilizzazione intelligente delle spese: aiuto a tutte le forze produttive della Nazione.
Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzino con quelli della produzione e della Nazione. Il proletariato che lavora, e della cui sorte ci preoccupiamo, ma senza colpevoli demagogiche indulgenze non ha nulla da temere e nulla da perdere, ma certamente tutto da guadagnare da una politica finanziaria che salvi il bilancio dello Stato ed eviti quella bancarotta che si farebbe sentire in disastroso modo specialmente sulle classi più umili della popolazione. La nostra politica emigratoria deve svincolarsi da un eccessivo paternalismo, ma il cittadino italiano che emigra sappia che sarà saldamente tutelato dai rappresentanti della Nazione all'estero. L'aumento del prestigio di una Nazione nel mondo è proporzionato alla disciplina di cui dà prova all'interno. Non vi è dubbio che la situazione all'interno è migliorata, ma non ancora come vorrei. Non intendo cullarmi nei facili ottimismi. Non amo Pangloss. Le grandi città ed in genere tutte le città sono tranquille: gli episodi di violenza sono sporadici e periferici, ma dovranno finire. I cittadini, a qualunque partito siano iscritti, potranno circolare: tutte le fedi religiose saranno rispettate, con particolare riguardo a quella dominante che è il Cattolicismo: le libertà statutarie non saranno vulnerate: la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo.
Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti, anche contro l'eventuale illegalismo fascista, poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe più alcuna giustificazione. Debbo però aggiungere che la quasi totalità dei fascisti ha aderito perfettamente al nuovo ordine di cose. Lo Stato non intende abdicare davanti a chicchessia. Chiunque si erga contro lo Stato sarà punito. Questo esplicito richiamo va a tutti i cittadini, ed io so che deve suonare particolarmente gradito alle orecchie dei fascisti, i quali hanno lottato e vinto per avere uno Stato che si imponga a tutti, colla necessaria inesorabile energia. Non bisogna dimenticare che, al di fuori delle minoranze che fanno della politica militante, ci sono quaranta milioni di ottimi italiani i quali lavorano, si riproducono, perpetuano gli strati profondi della razza, chiedono ed hanno il diritto di non essere gettati nel disordine cronico, preludio sicuro della generale rovina. Poichè i sermoni - evidentemente - non bastano, lo Stato provvederà a selezionare e a perfezionate le forze armate che lo presidiano: lo Stato fascista costituirà una polizia unica, perfettamente attrezzata, di grande mobilità e di elevato spirito morale; mentre Esercito e Marina gloriosissimi e cari ad ogni italiano - sottratti alle mutazioni della politica parlamentare, riorganizzati e potenziati, rappresentano la riserva suprema della Nazione all'interno ed all'estero.
Signori, da ulteriori comunicazioni apprenderete il programma fascista, nei suoi dettagli e per ogni singolo dicastero. Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira - dico una lira - di economia. Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo cordialmente, partano esse da deputati, da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito. Il paese ci conforta ed attende. Vogliamo fare una politica estera di pace, ma nel contempo di dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di dare una disciplina alla Nazione, e la daremo. Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere. Illusione puerile e stolta come quella di ieri. Il nostro Governo ha basi formidabili nella coscienza della Nazione ed è sostenuto dalle migliori, dalle più fresche generazioni italiane. Non v'è dubbio che in questi ultimi giorni un passo gigantesco verso la unificazione degli spiriti è stato compiuto. La patria italiana si è ritrovata ancora una volta, dal nord al sud, dal continente alle isole generose, che non saranno più dimenticate, dalle metropoli alle colonie operose del Mediterraneo e dell'Adriatico. Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi. Lavoriamo piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la prosperità e la grandezza della Patria.
Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 2:47 pm    Oggetto:  
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PRIME DICHIARAZIONI PRESIDENZIALI AL SENATO

Nello stesso giorno, S. E. il Capo del Governo, ripeteva al Senato il medesimo discorso tenuto alla Camera, premettendo le seguenti dichiarazioni:

Signori Senatori!
Quel che ho letto alla Camera dei Deputati non riguarda minimamente il Senato. Non devo usare, nei confronti del Senato, il linguaggio necessariamente duro che ho dovuto tenere nel confronto dei signori deputati. Non solo da oggi, ma da parecchi anni, ho la sicura coscienza di potere affermare che considero il Senato come uno dei punti fermi della
Nazione. Considero il Senato non come un'istituzione superflua, secondo certe vedute fantastiche di una piccola democrazia; considero invece il Senato come un organo
necessario per la giusta e oculata amministrazione dello Stato.
Gli ultimi anni di storia parlamentare hanno dato al contrasto delle due Camere un carattere che si potrebbe dire plastico e drammatico. La gioventù italiana, che io
interpreto e rappresento, e che intendo di rappresentare, guarda al Senato con molta, viva, patriottica simpatia.
Ripeto, che la prima parte del discorso è diretta solo alla Camera dei deputati.
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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 4:51 pm    Oggetto:  
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Cavolo Giovanni, bel lavoro!
Ma ce li hai tutti?
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mar Feb 17, 2009 7:46 pm    Oggetto:  
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pressochè tutti, ne mancheranno alcuni che provvederò a inserire in un secondo tempo, dopo aver postato quelli di cui all'indice
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MessaggioInviato: Mer Feb 18, 2009 8:07 am    Oggetto:  
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REPLICA AI DEPUTATI

Nella tornata del giorno seguente, 17 novembre, alla Camera dei Deputati, il Duce replica con il seguente discorso agli oratori che avevano parlato su le dichiarazioni del Governo:

Esaminerò con la massima attenzione gli ordini del giorno riguardanti problemi concreti. Data l'ora non posso prendere impegni precisi. Respingo gli ordini del giorno d'ordine politico.Non faccio alcun discorso. Mi limito a dichiarare all'on. D'Aragona che il mio atteggiamento verso la Confederazione del lavoro è chiaramente definito nella mia linea di condotta nei confronti dei diversi partiti.L'onorevole D'Aragona sa e ricorda che io ho sempre sostenuto la necessità per la Confederazione del lavoro di affrancarsi dalla tutela politica dei diversi partiti che hanno sempre cercato di trarla per vie traverse.L'on. D'Aragona stia tranquillo. Lui viene dal proletariato; io vengo dal proletariato. L'on. D'Aragona ha conosciuto la dura vita degli emigranti italiani all'estero, il sottoscritto l'ha vissuta. Noi riteniamo che non ci possa essere grandezza materiale e morale di nazionedove le masse operaie sono incivili, riottose, in continua lite tra loro.Del resto il fatto che uno dei leaders della Confederazione del lavoro non era assolutamente alieno dal partecipare al mio Governo, mostra che non ci sono pregiudizialiassolute da nessuna parte. E io vorrei ricordare a quei settori che se gli avvenimenti si sono svolti come si sono svolti, la colpa è in grande parte loro. Sedici mesi fa lanciai in quest'aula un'idea che poteva parere paradossale ma alla quale però, se voi foste statiprevidenti, dovevate afferrarvi come il naufrago alla tavola della salvezza. Non l'avete fatto. Gli avvenimenti vi hanno dato torto.Noi faremo una politica di necessaria severità. Cominceremo da noi stessi. Solo così potremo esercitarla verso gli altri. Del resto il proletariato ha assistito al nostro movimento senza neppure tentare uno sciopero generale, che innegabilmente ci avrebbe dato fastidio. Ha capito che bisognava spalancare le finestre perché l'aria di un certo ambiente era appestata. L'intuito profondo che guida le masse e spesso manca ai capi, ha consigliato al proletariato un atteggiamento di benevola aspettativa.Non dite che noi f aremo del servilismo verso la classe capitalistica. Siamo stati noi i primi a distinguere tra borghesia e borghesia: C'è una borghesia che voi stessi rimettete nel piano della sua storica necessità tecnica; c'è una borghesia intelligente e produttiva, che crea e dirige le industrie, di cui non si può fare a meno. Se le classi capitalistiche sperano di avere da noi privilegi speciali, tali privilegi non avranno mai. D'altra parte se alcuni ceti dioperai già sufficientemente imborghesiti volessero ricattare il Governo per averne favori elettorali, si disingannino. Questo non otterranno mai. Sono in certo senso lieto che la Camera abbia compreso che il mio duro linguaggio di ieri non si riferiva alla generalità e che ho distinto il giudizio da quello dato sul Senato. Il mio linguaggio aveva riferimenti precisi e concreti nettamente individuali. Si trattava di questa Camera, di tutto quello che ognuno di noi ha tante volte rilevato con disgusto. Era logico che io dicessi a questaCamera: o ti adatti alla coscienza della nazione, o devi scomparire!On. Cao, le sue dichiarazioni non mi toccano. Adesso il Partito Sardo d'Azione va correggendo la sua linea di condotta; adesso sente che veramente ha esagerato. Ma io,coi miei propri occhi, ho letto su certi giornali...Cao. I giornali non sono i partiti!Mussolini. Li rappresentano, però. Si parlava in essi di una vaga federazione mediterranea, di cui dovevano far parte la Sardegna, la Corsica, eccetera.Sono lieto delle sue dichiarazioni, on. Cao. Sono lieto che la Sardegna abbia riconfermato la sua volontà di vivere con noi, perché qualche cosa nella storia di oggi ha dimostrato che i piccoli Stati non possono vivere soli. Dico all'on. Cao che ci occuperemo amorosamente della situazione sarda.Debbo anche rispondere all'on. Rosadi, che mi rimproverava per non aver io, volutamente, individuato quella città dell'Adriatico, la cui passione è viva nei nostri cuori.Ma poi che il mondo balcanico è in fermento, intendo mantenere su quest'argomento il massimo riserbo. Tuttavia l'on. Rosadi deve sapere che per Fiume sono stati adottati molti provvedimenti benefici a quella città.Non posso ammettere che l'on. Wilfan venga alla Camera italiana a tenere un discorso che potrei chiamare sconveniente, e mi limiterò a chiamare eccessivo. Noi possiamo fare nei confronti delle piccole minoranzeallogene una politica di equità e di giustizia, ma non dobbiamo con questo dimenticare i diritti della grande massa degli italiani. Non dovete dimenticare che se siamo al Nevoso, vi siamo per una dura necessità. E se siamo al Brennero, vi siamo per un'altra dura necessità.Vorrei concludere pregando il nostro Presidente di ritirare le sue dimissioni e suggellare con questo gesto il passato, per iniziare l’era che noi vogliamo inaugurare.Non siamo dei miracolisti e nessuno può pretendere da noi che la situazione si capovolga immediatamente.Sarebbe quello che Lenin chiama « infantilismo ».L'azione è complessa ed ha infinite interferenze d'indole economica, politica, morale.Noi non respingiamo nessuna collaborazione, e se domani, per esempio, fosse tratto in ballo un competente adatto a trattare una determinata questione commerciale daquella parte (indica la sinistra), non avrei nessuna difficoltà ad accettarlo.Noi pensiamo che se la tempesta non avesse avuto lo svolgimento che ha avuto, molti che oggi ci fanno il viso dell'armi non avrebbero esitato a prendere posto nella nostra barca.La quale barca terrà fieramente il mare e vuole giungere al suo porto: la pace, la grandezza, la prosperità della Nazione!
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Giovanni




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MessaggioInviato: Mer Feb 18, 2009 8:08 am    Oggetto:  
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S0NNIN0

Poco più di un mese dopo la Marcia su Roma, la nottedel 24 novembre, si spegneva Sidney Sonnino, l'insigne statista che aveva «legato indissolubilmente il suo nome n all'intervento dell'Italia in guerra. Il Duce lo commemorò alla Camera, nella tornata del 24 novembre, con il seguente discorso:

La Camera, con voci che si sono levate da tutti i settori, ha tributato al di sopra delle divisioni politiche il suo alto omaggio alla memoria e alle opere di Sidney Sonnino ed ha manifestato il suo profondo cordoglio per la morte improvvisa dell'eminente uomo di Stato. Poco quindi mi resta da dire, come capo del Governo. Del resto, più che i discorsi, sono i fatti e le vicende di una vita interamente dedicata al bene della Patria, la migliore apologia di Sidney Sonnino.
Io non lo conobbi personalmente, né mai ebbi dimestichezza di rapporti con lui. Egli apparteneva più che a questo all'altro secolo. Cinquanta anni dividono la sua dalla mia generazione. Ciò malgrado, pur vedendolo da lontano, io fui portato ad ammirarlo, specie in questi ultimi tempi.
Mi piaceva il suo stile di vita aspro e disdegnoso, quindi poco parlamentare nel senso che si può dire basso della parola; trovavo fra la concezione fascista dello ,Stato e quella che rappresentò la concezione fondamentale della politica di Sidney Sonnino una evidente identità. Anche egli, come il Fascismo, non ebbe paura di
proclamarsi conservatore quando erano in giuoco e in pericolo i valori essenziali e basilari della nostra società nazionale.
Il fatto dominante della sua quarantennale attività di statista, è stato l'intervento dell'Italia in guerra, intervento al quale è legato indissolubilmente il suo nome. Il Libro Verde rimane l'alta giustificazione politica, diplomatica e morale della nostra guerra contro gli Imperi centrali.
Sidney Sonnino volle la guerra e la volle, poi, sino alla vittoria.
Forse, con un'Italia più conosciuta ed apprezzata, si sarebbe potuto negoziare cogli Alleati un patto d'intervento più razionale e più completo: ma io credo che il barone Sonnino abbia trovato difficoltà superiori alle sue stesse forze, che pure erano grandissime.
Difficoltà che si ripeterono durante la guerra attraverso subdoli tentativi di pace separata che avrebbero annullato completamente i nostri sacrifici. Difficoltà che si aggravarono durante le trattative di pace, quando gli Alleati sembrarono dimenticare l'importanza dell'intervento italiano, e il nostro paese, all'interno, davi l'impressione di un paese in convulsione perenne e destinato allo sfacelo.
Non si può fare una politica estera con un paese in disordine. Dopo quattro anni è forse la prima volta che un ministro degli esteri italiano può recarsi all'estero per discutere - da eguale a eguale - cogli Alleati senza essere turbato dal pensiero della situazione interna. Do lode di ciò a tutto il popolo italiano.
Non si può certo imputare all'onorevole Sonnino il mancato riconoscimento di quel Patto di Londra, che pure recava le firme degli Alleati. Non vi è dubbio che l'onorevole Sonnino deve aver indicibilmente sofferto per quanto si fece o non si fece a Versailles. Qui, forse; sta la ragione del suo ritiro dalla vita politica militante. Dopo l'avvento del Fascismo la nostra politica raccoglie quanto rimane di vitale nella politica estera sonniniana e
precisamente il senso e l'orgoglio della dignità nazionale,
il rispetto dei trattati, la valutazione pregiudiziale degli interessi della nostra Nazione.
A nostro avviso, il mezzo migliore per onorare la memoria di Sidney Sonnino è quello di raccogliere e praticare l'insegnamento della sua lunga vita di statista: gli interessi della Patria innanzi tutto. Possa giungere, in un giorno che speriamo non lontano, allo spirito insonne, aleggiante sull'aspro solitario Romito, la buona novella: la
Nazione tutta, disciplinata, laboriosa e concorde, è in marcia verso i suoi alti destini!
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