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SICILIA 1943: Crimini e stragi compiute dagli americani.
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Marcus
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MessaggioInviato: Lun Ott 29, 2012 11:28 am    Oggetto:  
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LE STRAGI DI COMISO

Su due eccidi, avvenuti nell’aeroporto di Comiso, è tuttora in corso la ricerca storica. Sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista inglese Alexander Clifford. Nel 2004 il giornalista Gianluca di Feo scrisse sui morti dimenticati di Comiso: “All'epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, furono fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre prigionieri respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale”. In quel periodo, era come parlar male di Garibaldi. Clifford, i cui articoli erano pubblicati da alcuni importanti giornali americani, descrisse ciò che vide all’analista britannico Basil H. Liddel Hart, il quale lasciò uno scritto sulle loro conversazioni, dall’espressivo titolo: I comandanti americani (e l’omicidio di massa americano). Il terzo giorno dopo lo sbarco, Clifford visitò l’aeroporto con un corrispondente di guerra americano, rimasto sconosciuto. I due andarono da Patton e protestarono. Il generale ordinò di fermare questi omicidi. Dopo la fine della guerra e la morte di Patton, Liddell Hart chiese il permesso di pubblicare i particolari degli omicidi di Comiso. Opponendosi al processo di Gert Von Rundstedt e d’altri due feldmarescialli tedeschi per crimini di guerra, scrisse a Clifford. Al giornalista non piacevano i processi per crimini di guerra, ma rifiutò la richiesta.

Nella zona di Comiso combattevano nuclei di paracadutisti americani. Il paese fu occupato dal 157° gruppo tattico reggimentale della 45ª Divisione fanteria americana. L’aeroporto cadde il pomeriggio del 12 luglio.

Dopo 62 anni, non si conoscono i nomi delle vittime della strage, né il luogo della sepoltura.

D: Anche nei confronti delle popolazioni civili vi furono episodi di violenza gratuita. Non va dimenticato poi che al seguito delle truppe Usa e Britanniche vi erano anche i Tabor marocchini inquadrati nelle truppe francesi di De Gaulle, le cui gesta resteranno tristemente famose in Italia. A mano a mano che le divisioni degli invasori risalivano la penisola, le cose non migliorarono di certo per gli italiani del Sud Italia, costretti a subire ogni sorta di crimine e violenza da parte della soldataglia ubriaca e senza controllo. La sorte peggiore toccò alle nostre donne, considerate un vero e proprio bottino di guerra da parte dei “campioni della democrazia occidentale”, che in questo vollero emulare le nefandezze compite dai sovietici nelle regioni della Germania Orientale. Il generale francese Juin consentì al Cef - Corpo di Spedizione Francese, a maggioranza formato da magrebini, di sfogare le proprie pulsioni sulle donne, le bambine, gli uomini per cinquanta ore se avessero vinto la battaglia per sfondare il fronte di Cassino. A Esperia e Ausonia furono violentate centinaia di donne. Prof Bartolone che dati ci può fornire lei al riguardo e perché ancor oggi si tace su quanto accaduto? Un’usanza quella dello stupro che non era certo estraneo anche alla cultura statunitense, gli episodi accaduti in Iraq nelle carceri e sui civili è più che eloquenti, senza dimenticare le innumerevoli violenze commesse in Gran Bretagna, Francia e Germania dai soldati Usa, ben documentate nel libro “Stupri di Guerra” di J. Robert Lilly.

Gli stupri di donne italiane cominciarono al momento dello sbarco in Sicilia e continuarono per tutta la Campagna d’Italia. Alcune donne furono violentate a Licata da alcuni militari americani nei giorni successivi allo sbarco. Poi altri episodi di violenza che videro coinvolti militari alleati accaddero in diverse zone della Sicilia.

Secondo il dottor Giovanni Saito, ex sindaco di Licata, all'epoca undicenne:

"In massima parte l'avanzata degli Alleati americani fu salutata con gioia. Dal canto loro gli Americani riuscirono ad accattivarsi il favore della popolazione regalando ogni ben di Dio... Alcuni giorni dopo, ci fu il passaggio delle truppe di colore, i cosiddetti Marocchini, che fecero della violenza la loro arma primaria, seminando terrore e paura. Non era pensabile che gli uomini assistessero passivamente allo spettacolo di mogli, madri o sorelle violentate senza opporre alcuna resistenza. Perciò in massima parte si armarono. E' questa volta sì, scesero in campo contro quegli stessi Americani che solo pochi giorni prima avevano accolto come liberatori. Ricordo che sul terrazzo di casa fu istallata la mitragliatrice. Per il resto la città non ebbe problemi".

Numerose ruberie e stupri avvennero anche nella zona di Capizzi e Cerami, a causa dei famigerati goumier. Anche qui le prepotenze delle truppe coloniali francesi causarono la reazione dei siciliani: la caccia all’africano. Molti “marocchini” furono giustiziati dagli abitanti, in varie scaramucce nei boschi, nell’indifferenza del comando francese. Dopo gli incidenti i goumier furono allontanati dalla zona, anche per l’avanzata degli Alleati.

La ricerca di donne con cui divertirsi per qualche ora, fatta dai paracadutisti a Xitta, frazione di Trapani, scatenò nella Pasqua del 1944 il cosiddetto “Vespro cittaro”. Anche a Xitta numerosi francesi, di colore o meno, pagarono con la vita l’offesa all’onore delle donne locali. Ci fu una rivolta armata contro i paracadutisti francesi. I quali furono costretti a lasciare il Paese.

I furti compiuti dagli appartenenti agli eserciti alleati, sia durante sia dopo la Campagna di Sicilia, accompagnarono la vita dei siciliani per molto, troppo, tempo.

I fascicoli dell’AMGOT sono pieni di denuncie di malversazioni compiute ai danni della popolazione. Idem i libri degli storici locali che si sono occupati di questo periodo. Ma questa è, direbbe Kipling, un’altra storia. Di un corposo capitolo di un altro libro. Di prossima pubblicazione, se Dio vorrà. Le caramelle e le scatolette distribuite dagli occupanti nei primi giorni furono ripagate con gli interessi, a caro prezzo. I siciliani direbbero a "sangue di Papa". Fu una ben riuscita operazione di pubbliche relazioni, funzionale alla miglior riuscita delle operazioni belliche. In una guerra totale, come lo fu la II guerra mondiale, ogni mezzo era buono pur di vincere: la vittoria avrebbe segnato i destini dei popoli e del mondo per almeno 50 anni.

Le successive elargizioni originarono da scambi con la popolazione - vino, cimeli o sesso -, bontà individuale, rapporti familiari o d'amicizia, specialmente con i soldati americani d'origine siciliana.

Nella realtà i vincitori consideravano i beni dei siciliani, sconfitti e occupati, res nullius, esposti al loro libero desiderio. Potevano prendersi qualsiasi cosa, sia per uso individuale sia bellico.

Dopo la "ricchezza" dei primi giorni, si passò alla fame più nera. E nell'isola si ebbero moltissimi morti per fame.

Queste cose sono successe, succedono e succederanno in tutte le guerre. I “marocchini” sarebbero stati probabilmente lasciati liberi di scatenarsi in tutta l’isola con furti e stupri se in Sicilia si fossero verificati episodi di resistenza agli invasori. Gli anglo-americani, nonostante gli accordi fatti con la mafia, in “formidabile ripresa”, non si sentivano del tutto sicuri di poter controllare l’isola. Erano tenuti di riserva nel Parco della Favorita di Palermo, pronti per la rappresaglia, se la popolazione avesse improvvisato una reazione contro gli occupanti. Poi furono trasferiti. E fecero danni.
Il cammino delle truppe francesi in Italia fu segnato da stupri di massa. Colpirono a Esperia, Ausonia, Pico, Pontecorvo, S. Oliva, Castro de Volsci, Frosinone di, Grottaferrata, Giuliano di Roma, Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strofe, Poggibonsi, Elba, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa, Isola d’Elba… lasciando ovunque un’indicibile scia di violenze, lutti e malattie.

Nel maggio del 1944 nella zona del Liri i francesi, impegnati nella conquista di Montecassino, si abbandonarono a ogni sorta di violenza contro la popolazione, senza riguardo per il sesso o per l’età. Nel dopo guerra furono presentate al Ministero della Difesa circa 25 mila richieste di risarcimento per i danni subiti: un fenomeno di proporzioni gigantesche, ma sicuramente sottostimato, se si pensa che molti per pudore avranno sicuramente rinunciato alla denuncia, celando a tutti quanto accaduto.

I francesi organizzarono una sorta di stupro di massa, tollerato dai Comandi Alleati e (ciò che è più grave) dimenticato dal governo Badoglio. Lo stesso fecero i russi in Pomerania e Prussia Orientale nel 1945. Per dare un’idea del fenomeno basti fare alcuni esempi: a Pio, un ufficiale americano del 351° reggimento dovette assistere senza poter fare nulla a scene d’inaudita violenza a danno d’anziani, donne e bambini, sulla piazza del paese.

Oltre 800 uomini furono selvaggiamente violentati. Molti erano sacerdoti. Bambini anche di tenerissima età furono uccisi nei modi più efferati di fronte alle madri. Mentre le donne erano violentate dal branco, gli uomini che avevano cercato di difendere le proprie famiglie furono impalati. Per finire, fu trasmessa a molti sopravvissuti la sifilide e la blenorragia, con tutte le conseguenze sociali che si possono facilmente immaginare. I militari alleati erano d'altronde alla ricerca spasmodica di compagnia e spesso non distinguevano tra segnorine e no.

Numerosi furono gli stupri avvenuti in Campania. Interi quartieri di Napoli erano pericolosi, specie la sera, per donne e minori. Moltissimi militari alleati, brilli e no, lasciarono un vergognoso segno del loro passaggio. A Napoli si diceva: “Attenzione ai liberatori”.

Altri numerosi stupri accaddero all’Isola dell’Elba, dopo l’arrivo delle truppe francesi. I soldati furono poi per fortuna impiegati nelle operazioni di sbarco nella Francia meridionale.

Nella seduta del 7 aprile 1952 il sottosegretario alle Pensioni dichiarò alla Camera che dalla zona di Cassino erano state presentate ai competenti uffici 17.368 domande d'indennizzo e 7.639 di pensione. Per l'opposizione nel Cassinate furono stuprate sessantamila donne, per il Governo esse furono ventimila.

Forse i numeri delle donne violentate non li conosceremo mai. Per una semplice ragione: nell’Italia del secondo dopoguerra molte donne hanno preferito non denunciare violenza subita, rinunciando a un aleatorio misero risarcimento, pur di potersi sposare e rifarsi una vita. Molti uomini dell’Italia di quel tempo non avrebbero sposato una donna non vergine, seppure avesse subito una violenza.

Per quanto riguarda il proclama Juin, molti storici ne contestano l’esistenza. Forse l’autorizzazione sarà stata data a voce.

In un rapporto del Ministero della Difesa del 18 ottobre 1947 sul Comportamento delle truppe alleate in Italia, si vede come l’occupazione fu critica per molte regioni della Penisola. I dati – sottorappresentati se confrontati con i minuziosi e rapporti mensili che le autorità periferiche inviavano ai superiori comandi – testimoniano che nel periodo compreso tra l’Armistizio e il 30 giugno del 1947 i reati commessi dai militari alleati in Italia furono 23.265. Erano così suddivisi:

Omicidi: 589

Ferimenti 1956

Aggressioni, risse, violenze 2390

Furti e rapine 7699

Incidenti automobilistici, morti 1159

feriti 6138

Violenze carnali consumate 1159

tentate 291

Le regioni più colpite furono: Campania, Toscana e Lazio.

I francesi di colore si resero responsabili del 21,22 % degli omicidi, del 51,07 % dei furti e delle rapine, dell’89,45 % delle violenze carnali consumate e del 28,28 % di quelle tentate. Gli americani conquistarono il primo posto col 21.46 % dei casi in aggressioni, risse e violenze.

In Campania la maggior parte degli stupratori apparteneva alle truppe coloniali del Corpo di spedizione francese, seguivano gli afro-americani, gli americani, i canadesi, gli indiani e gli inglesi. Gli stupri collettivi furono consumati da uomini appartenenti a tutti gli eserciti alleati.

Oltre ai furti e alle razzie, anche le diffuse violenze sessuali dimostrano quanto i militari stranieri fossero non solo “liberatori” ma conquistatori pronti a profanare il corpo delle donne italiane vinte, una maniera come un’altra per dimostrare l’impotenza virile dei loro uomini, deboli, impotenti, incapaci di difenderle. La guerra, oltre alla conquista di un Paese vinto, significa anche la violenza sulle donne sconfitte e la riduzione allo stato di res nullius dei beni di proprietà degli sconfitti.

D: Assieme all’arrivo degli invasori, aumentava il degrado e la criminalità nelle città italiane. Prostituzione, traffici illeciti, furti e saccheggi erano all’ordine del giorno, assieme alla fame e alla miseria. Napoli può secondo lei rappresentare la massima espressione di questa involuzione, dove lo Stato un tempo presente e attento era praticamente scomparso per lasciare il posto al male affare?

L’arrivo degli angloamericani provocò nelle città italiane un’ondata di criminalità e degrado. La fame e la miseria, la pratica scomparsa dello Stato in molte parti del Regno del Sud, la voglia di sopravvivere alla bufera della guerra e di arricchirsi, l’allentamento dei freni morali, furono tutti fattori che provocarono il crollo di un mondo e dei suoi valori. A Napoli si toccò il fondo della crisi.

Napoli fu una delle città italiane che più subì offese nella II guerra mondiale. E’ stata, inoltre, la città più condizionata dall'esperienza dell'occu­pazione. Sotto certi aspetti lo è ancora. Dipese da diversi fattori: 1) il lungo periodo in cui la città fu sottoposta al governo militare d’occupazione (dall'ottobre 1943 al gennaio 1946); 2) la forte presenza delle truppe straniere; 3) le conseguenze sulla sua econo­mia dell'enorme quantità di beni in transito; 4) la notevole domanda di manodopera da parte del governo d’occupazione; 6) le consistenti commesse anglo-americane all'industria locale; 7) il rilevante contributo dato dai gangster americani alla rinascita della camorra.

Napoli durante la guerra era il capolinea delle rotte marittime verso la Libia, il punto di partenza della “Battaglia dei convogli”. La presenza, inoltre, di numerosi obiettivi d’interesse militare - ad esempio le officine aeronautiche dell’Alfa Romeo di Pomigliano, il silurificio di Baia, gli Scali Napoletani, l’ILVA di Bagnoli ecc., mise la città ai primi posti nelle priorità dei pianificatori delle incursioni aree anglo-americane. Officine, porto, fabbriche, tutte le cose che potevano contribuire allo sforzo bellico, furono colpite più volte e pesantemente dagli aerei nemici. La città partenopea rispose alle incursioni nemiche in maniera dignitosa e disciplinata e il consenso alla guerra fino allo sbarco in Sicilia, non mancò.

Anche a Napoli la guerra fu “sentita” dalla maggioranza dei cittadini. Si era convinti che la vittoria avrebbe comportato un eccezionale periodo di prosperità per l’Italia, risolvendo molti problemi che da secoli affliggevano il nostro popolo. L’intervento dei volontari, nel solco della tradizione risorgimentale, si sublimò in un corale patriottismo che avrebbe meritato d’essere coronato dalla vittoria, fu massiccio.

Anche Napoli pagò caro l’arrivo degli americani sullo scacchiere mediterraneo. La loro “selvaggia” tesi del “bombardamento a tappeto” s’impose agli inglesi. Le città italiane dovevano essere “arate” meticolosamente dalle “fortezze volanti”. Quartiere dopo quartiere. Fino alla primavera del 1943, i bombardamenti erano stati mirati agli obiettivi d’interesse militare e industriale, cercando di risparmiare, per quanto possibile, il resto. Ora i raid erano diretti a colpire, oltre ai primi, indiscriminatamente, le case, le chiese e finanche gli ospedali (quello dei Pellegrini fu distrutto il 6 settembre 1943, solo due giorni prima della comunicazione dell’Armistizio). Si voleva esasperare e terrorizzare la popolazione, indebolirne il morale, disgregare le basi di massa del Fascismo, provocare la caduta del Regime e facilitare gli sbarchi in preparazione.

Naturalmente i 100 bombardamenti, le 25 mila vittime, le immense distruzioni, la delusione seguita alla perdita dell’Impero e della Quarta Sponda, dalla fine della Campagna di Sicilia e l’abile propaganda nemica, minarono le basi del Regime e la voglia di resistenza e di vittoria della stragrande maggioranza dei napoletani. Per molti divenne meglio chiudere subito “l’avventura” cominciata il 10 giugno 1940 e “salvare il salvabile”. La guerra “fascista”, considerata sinonimo di guerra italiana, la “nostra guerra”, diventò per molti “la guerra di Mussolini”. In caso di successo bellico, per molti, i veri vincitori sarebbero stati Hitler e la Germania, non l’Italia e gli italiani. La città sopportò, in ogni modo, eroicamente e con dignità le più gravi offese per amore della Patria in guerra. Solo quando fu imminente l'arrivo degli invasori, si creò una situazione di caos provocata da pochi antifascisti che volevano avvantaggiarsi dal disordine, derivato dal vuoto di potere tra i tedeschi in partenza, il governo della R.S.I. in embrione e gli anglo-americani in arrivo. Naturalmente, come sempre avviene in ogni cambio di regime, ai disordini parteciparono, oltre agli idealisti, i teppisti, la delinquenza spicciola, ma, nel nostro caso, almeno una squadra di mafiosi, tra cui il famoso Tommaso Buscetta.

La storia di Napoli dalle cosiddette “quattro giornate” alla fine della guerra fu per colpa di una minoranza un calvario umiliante. La città, utilizzata come retrovia dello sforzo bellico anglo-americano, divenne nota nel mondo come la “Shanghai del Mediterraneo”. Durante questo vergognoso periodo la delinquenza, giunta con le salmerie delle truppe angloamericane, spadroneggiò. Furono create le condizioni per la rinascita della Camorra, duramente colpita ai tempi del processo Cuocolo, nel 1908, tenutosi per le indagini del capitano dei Reali Carabinieri Carlo Fabroni, dichiarata sciolta il 25 maggio del 1915 dagli stessi camorristi, e infine debellata grazie all’opera del maggiore dell’Arma Vincenzo Anceschi al tempo del prefetto Mori, e che portò all’arresto di circa 10 mila camorristi o presunti tali.

Le province del "Regno del Sud" erano inoltre flagellate dall'inflazione galoppante provocata dalle Am-lire, stampate senza alcun limite dagli "Alleati". Ufficiali e soldati alleati, in combutta con camorristi, mafiosi e profittatori nostrani, partecipavano alla big robbery. Vendevano tutto, tutto si avviava al mercato nero, tutto si poteva comprare, ma a caro prezzo. Eroismi, idealismi, moralismi che avevano guidato il comportamento delle persone negli anni precedenti, furono seppelliti da un mare di fango e di moneta d’occupazione. Per sopravvivere in quel duro periodo bisognava rinunziare a dettami etici ormai "antiquati", superati dalla "nuova civiltà" democratica. Era una quotidiana, contaminante lezione di vita. Una lezione in negativo che fece smarrire la via a molti. Chi non volle o non seppe scendere a patti con la propria coscienza, per sopravvivere dovette sacrificare quel che aveva ereditato o conquistato in una vita d’onesto lavoro e di pesanti sacrifici. Ci furono moltissime famiglie costrette a vendere tutto, fino all'ultimo anello, all’ultimo lenzuolo, all’ultima coperta. I bambini erano gracili e avevano il ventre gonfio, causato dalla denutrizione. Molti vecchi erano seduti davanti alla porta del “basso”, silenziosi, indifferenti, ad attendere la morte, godendosi l’ultimo sole.

Per Maurizio Valenzi, nel secondo dopoguerra sindaco di Napoli, la metropoli campana era una “grande zattera abbandonata alla deriva”. Per il regista John Huston: “Napoli era come una prostituta malmenata da un bruto: denti spez­zati, occhi neri, naso rotto, puzza di sporcizia e di vomito... Gli uo­mini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere. L'anima della gente era stata stuprata. Era veramente una città senza Dio”. Una città dove: “Le sigarette erano la merce di scambio comu­nemente impiegata e per un pacchetto si poteva fare qualsiasi cosa. I bambini offrivano sorelle e madri in vendita…”. Con un pacchetto di sigarette si potevano comprare tre chili di pane. Chi non poteva permettersi le Victory, le Lucky Strike, le Raleig, le Camel o le Chester Field si rivolgeva al mercato delle cicche che si teneva in Piazza Garibaldi. Sui marciapiedi stavano quintali di tabacco sfuso, ricavato dai mozziconi, che gli scugnizzi o insospettabili signori muniti di un bastone terminante con uno spillo, raccoglievano nelle vie.

Nell’agosto del 1944 un militare alleato poteva portare a letto una ragazzina di 12 anni regalandole una coperta: equivaleva alla paga settimanale di un operaio.

Mortificato da quanto vedeva, Alan Moorehead, australiano, scriveva: “Stavamo assistendo al crollo morale di un popolo. La lotta per l'esistenza dominava tutto. Il cibo. Nient'altro contava...”.

Il piacere intenso della vittoria, l’ebbrezza che portava i soldati vincitori a lasciarsi andare, anche perché la morte poteva giungere poco dopo, e la fame dei napoletani, che induceva taluni a far qualsiasi cosa pur di guadagnare una scatoletta di cor­ned beef o di razioni k, faceva a molti dimenticare ogni tabù, infrangere ogni legge, lacerare principi e sentimenti tradizionali. Gli occupanti apparivano sempre allegri, puliti, profumati, ben nutriti e orgogliosi; percorrevano le vie di Napoli, fendendo la terribile folla, malinconica, sporca, affamata, vestita di stracci. I vincitori, appartenenti a tutte le razze del mondo, urtavano e ingiuriavano, in tutte le lingue e in tutti i dialetti del pianeta, i napoletani.

Protagonisti delle strade di Napoli erano tanti bambini e tante giovani donne, diventati ora sciuscià e segnorine. Bande di ragazzini con i vestiti sbrindellati, inginocchiati davanti alle loro cassette di legno, ricoperte di scaglie di madreperla, di conchiglie marine, di pezzi di specchio, battevano le loro spazzole sul coperchio delle cassette, urlando: "sciuscià! sciuscià! shoe-shine! Shoe-shine!" e intanto, con la scheletrica, avida mano, afferravano al volo i pantaloni dei soldati che passavano. Una schiera infinita di bambini cenciosi riempiva la città dall’alba a notte fonda. Compravano e vendevano con astuzia da adulti, servili e superbi, seducenti o maligni, secondo il caso. Giravano con la cassetta delle mercanzie a tracolla. Offrivano di tutto. Tutto era in vendita. Tutto si poteva trovare. Bastava chiedere e poi pagare. A qualcuno di questi scugnizzi d’otto nove anni finirà bene: imbrogliando, commerciando, rubando; affittando stanze, offrendo zie e sorelle, faranno un sacco di soldi senza nemmeno saperli contare. Qualcuno si presentò in banca, chie­dendo: "Scusate, signò, quanto fanno mille vote mille lire?" Molti soldati alleati salvarono la vita grazie ad un dollaro speso acquistando un coppo di pidocchi da uno scugnizzo: invece dell’inferno di Cassino andarono in ospedale.

Non tutte le segnorine erano prostitute professioniste. Centinaia di donne si mischiavano alla folla di Via Toledo, in bilico sui tacchi, masticando chewing gum, per portare da mangiare ai figli. Passeggiavano a coppie; abbordavano i militari alleati con il lurido frasario dei bassifondi americani appreso frequentandoli. Segno­rina era la merce offerta da un compiacente marito vicino al basso dove la moglie attendeva riscaldandosi davanti ad un braciere di carbonella: non era la regola, ma faceva colpo. Segnorina era la vedova di guerra costretta dal bisogno a prostituirsi al soldato che indossava la stessa divisa di chi aveva ucciso il marito. Segnorina era la poveretta caduta nelle grinfie dei soldati coloniali francesi. Segnorina era la verginella chiassosamente dipinta pronta a prestazioni stravaganti. Una Patpong del Mediterraneo. Segnorina era l’ex venditrice di “sigarette con lo sfizio”, passata a più lucrosi affari. Segnorine, naturalmente, erano le migliaia di professioniste del ramo, arruolate in ogni parte dell’Italia meridionale. Per migliaia di soldati alleati di stampo puritano le segnorine erano trasgressioni sconosciute, irrinunciabili. La vittoria si accompagnava a una sorta di facile libertinaggio mai goduto. La vittoria si completava solo con la conquista delle donne del popolo vinto. Dato che i casini non bastavano per tutti, e che quel commercio era il più redditizio, molti vi si dedicavano. Fiorivano i tè pomeridiani di molte signore della media e piccola borghesia. Erano organizzati da alcune signore intraprendenti. S’invitavano alcuni ufficiali alleati e alcune e belle e disponibili “amiche”. Poi prendevano una percentuale. Certi mariti chiudevano un occhio sulla professione intrapresa dalla moglie, bastava fingere di non vedere e di non sapere, bastava non tornare prima di una certa ora, per non sentirsi coinvolti. Fregandosene delle allusioni e del disprezzo dei benpensanti consentiva non solo di mantenere il livello di vita, ma addirittura di accrescerlo. Alcune vie di Chiaia, del Duomo, della Ferrovia, di Toledo, divennero infrequentabili per certe “mostre” di segnorine in attesa di clienti. Per poco non si arrivò alle esibizioni “corali” di cui parlò Malaparte. La tentazione di guadagnare “chili” di Amlire era forte.

Le migliaia di soldati alleati che occupavano la città sembravano ai napoletani ricchi clienti da spolpare. Facevano campare moltissime persone. Tra questi soldati, c'era chi ci guadagnava. “Pagavamo cinque lire un pacchetto di sigarette per un privilegio elargito dal popolo degli Stati Uniti. Ai napoletani potevamo venderle a 300 lire al pacchetto. Proprio un buon affare”.

Nella King’s Italy dall’Armistizio alla fine del 1944, e oltre, ci furono numerosissimi assassini, rapine, furti. Nell'Italia meridionale, i Reali Carabinieri contarono – quando ne furono informati, e molto spesso non lo furono – migliaia d’atti delinquenziali: 1547 omicidi volontari in 15 mesi, 140 preterintenzionali, 1.522 colposi, 14.800 lesioni personali, 5.603 rapine, 597 estorsioni, 134.937 furti aggravati. Reati commessi da italiani e da soldati alleati, da singoli e da bande, nelle città e nelle campagne. Al 1° aprile del 1944 le Allied Military Courts avevano già celebrato a Napoli 4.908 processi: di essi, 3.111 riguardavano furti di beni militari, soltanto 189 il mercato nero. Nella zona della Region 3, che comprendeva Napoli e la Campania, c'erano solo 6.240 carabinieri, 3.913 agenti di pubblica sicurezza, 2.650 guardie di finanza, impotenti ad arginare il dilagare della criminalità. Al 20 novembre 1944 a Napoli, agli ordini nel neo questore, dottor Michele Broccoli, c’erano 835 sottufficiali e 2.931 guardie, per un totale di 3.766 uomini. I carabinieri, agli ordini del tenente colonnello Attilio Baldinetti erano un’ottantina. Per ristabilire l’ordine a Napoli ci sarebbero voluti “trecentomila poliziotti”, ricordava anni dopo il dottor Broccoli, forse inutili, viste le complicità godute, dai fuorilegge, tra gli alleati e l’illegalità di massa.

Non c’erano confini tra malavitosi e faccendieri. Per tutti la speranza di far soldi cominciava con l'acquiescenza o la collusione di un paisano. Scriverà Leo Longanesi in Parliamo dell’Elefante: “Spostati, bari, camerieri di transatlantici, parassiti, conducenti di camion, ruffiani e lestofanti, riescono, in questo quotidiano disordine che a poco a poco diventa stabile e prende forma, a costruirsi una posizione. Basta loro incontrare qualche conoscente italo-americano per aprirsi una strada... S'intruppano cosi nei comandi, dove ottengono una carica e indossano perfino la divisa cachi... Si gettano le basi dei futuri grandi af­fari, delle future concessioni, dei permessi dell’AMGOT. Su questo primo nucleo si va costruendo la nuova classe dirigente italiana”.

Si rubava di tutto e in mille modi dai depositi alleati. Sigarette, sale, zucchero, scarpe, filo del telefono, vestiti, automobili, animali ecc. I ladri si spacciavano per carabinieri, M.P., funzionari pubblici, reduci, epuratori, sindacalisti, vedove di guerra, deportati. Scriveranno S. Lambiase e G. B. Nazzaro in Napoli 1940-1945 “Con i proventi del furto... la camorra torna in auge, dividendosi in zone la città, e, insieme, lucrosi profitti. Intorno ai mercati clandestini, essa organizza un’efficiente cintura di sicurezza, fatta di spie, di posti d'avvistamento, e di una serie di corrieri a voce che segnalano ogni movimento sospetto, compreso l'arrivo degli agenti... ”.

Il 60% delle merci scaricate finiva nei traffici clandestini. Il mercato nero della roba americana nasceva nei depositi del porto, dai quali sottufficiali traffichini facevano uscire casse di liquori, stecche di sigarette, razioni K, scatole di carne e fagioli, sacchi di polvere d'uovo, di zucchero o di farina, coperte.

A volte erano gli ufficiali a vendere un autotreno carico di vettovagliamenti. Prezzo richiesto: 6 milioni. Un usciere intraprendente dopo una colletta tra “amici” in poche ore riuscì a guadagnare 4 milioni. Seguirono le dimissioni dal lavoro. Qualcuno fece addirittura scomparire 7 camion, autisti e soldati di scorta compresi. Gli americani vendevano molto: dalla cioccolata ai copertoni d'automobile, dalle maglie di lana ai cappotti. A poco a poco, non ci fu napoletano che non usasse magliette color oliva, camicie color oliva, asciugamani color oliva, tutta roba in dotazione all'U.S. Army. Insieme al chewing gum, alla penicillina, alla coca cola e alla famosa polvere di piselli, arrivarono i film e i nuovi ritmi americani. La polvere di piselli, vantata come “nutrientissima”, vitaminizzata, capace di sopperire a ogni mancanza di cibo, però permetteva solo di preparare una pappa schifosa. Lasciò Na­poli tra perplessa e sghignazzante. Gli scugnizzi la sbattevano ridendo contro i muri, o dopo aver fatto delle palle, se la tiravano addosso per gioco. Poletti era scoraggiato e deluso. Questi napoletani erano degli ingrati. Perché sbeffeggiavano quella polvere che tante mamme americane, anche nelle migliori famiglie, usavano per nutrire quei giovanottoni che poi, con i capelli tagliati all'umberto, finiranno nei marines?

Ma questi fenomeni accaddero anche in altri Paesi. La fame e la miseria spinsero moltissime donne tedesche a “fraternizzare” con i ricchi militari alleati. Alla violenza seguì la prostituzione. Moltissimi per sopravvivere o per arricchirsi si diedero a ogni traffico con le forze d’occupazione. A ogni livello. Garmisch negli anni seguiti all’occupazione della Germania fu il centro di quel torbido mondo.

D: Prof. Bartolone diamo ora uno sguardo oltre, e propriamente alle strane alleanze che si formarono in occasione dell’invasione del territorio nazionale, le cui conseguenze si fanno ancora sentire oggi perdurando lo stato di sottomissione dell’Italia agli Stati Uniti. Si è parlato spesso di Mafia durante l’Operazione Husky. Quale fu il ruolo svolto dall’OSS (Office off Strategic Services) e dalla Mafia, leggasi Lucky Luciano, nella pianificazione dello sbarco? E’ vero che anche la chiesa ai suoi vertici era collusa in questa “alleanza” anti italiana, smaniosa solo di conservare i suoi bene e privilegi? Un intreccio che vedeva anche la Massoneria in prima fila al fianco degli Alleati.

E’ una domanda che richiederebbe una lunga risposta. Che per questioni di spazio sintetizzo. Mafia e Massoneria avevano avuto grossi problemi dopo l’avvento del Fascismo, la Chiesa col Concordato ebbe dei vantaggi dall’accordo con lo Stato. Decine di migliaia di mafiosi o camorristi furono arrestate, inviati al confine nelle isole, furono costretti a scappare in Tunisia, in America, o a mettersi a lavorare per vivere. Le Logge furono sciolte e la loro influenza nella politica italiana fortemente ridotta. Idem per i mafiosi. Con la dittatura Cosa Nostra non poteva più condizionare le elezioni in molte zone della Sicilia.

Parlando di mafia mi sembra opportuno, prima di proseguire nell'analisi dei fatti, di fare una pregiudiziale di metodo.

“Come oggetto di ricerca storica – ben precisa Massimo Ganci - la mafia sfugge ai canoni ormai consacrati della ricerca. Vano è cercare “il documento“ nel senso pre­ciso che di esso gli storici danno. Costituti, programmi, testamenti della mafia non ne esistono. Eppure la mafia è esistita, esiste ed ha avuto anche una sua evoluzione. Atti della polizia e dell'autorità giudiziaria e memoriali di contemporanei esistono. Di questa fonte lo storico deve vagliare 1'attendibilità, alla luce del­l'esperienza della società in cui la mafia opera”.

Particolarmente per questo studio è ancora più diffi­cile, per non dire impossibile, il rinvenimento di “pezze d'appoggio” o di altri mezzi conoscitivi sicuri sui contatti, gli accordi o sui legami tra i mafiosi di Sicilia o d'oltre oceano con le autorità statunitensi negli anni ‘40. Tutti gli interessati avevano l’interesse a far sparire le tracce dei loro inconfessabili contatti. Interpretando con la migliore intelligenza, e più fedelmente possibile, gli avvenimenti che Cosa Nostra ha determinato o concorso a determinare, penso che lo studioso con il suo giudizio e la sua asseverazione possa contribuire in maniera pro­bante a creare quelle prove e quei documenti impossi­bili da dare. Non c'e dubbio che Cosa Nostra raccolse anche i frutti della collaborazione, vera o presunta, con i servizi d’in­formazione USA e ciò prima, durante, e dopo lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia.

Il servizio segreto della Marina statunitense sapeva il ruolo che la mafia aveva in Sicilia ed era ben documentato sui rapporti intercorrenti tra essa e Cosa Nostra in America. I mafiosi dovevano agevolare lo sbarco e la successiva avanzata delle truppe, comunicando informazioni sulla zona di operazione e, specialmente, mediante “contatti“ con gli “amici influenti“ delle varie zone dell’Isola, collaborare per aprire la via all’armata americana. Il dipartimento della ricerca navale creò la sezione risorse umane che promosse una serie di studi concedendo cospicui fondi.

Nel 1957 Leonardo Sciascia si chiedeva:

“Sarebbe interessante fare un elenco di tutti i capimafia che sotto 1'AMGOT subito trovarono ca­richi e prebende; e dire come, sotto così esperte mani, subito si organizzò il mercato nero. C'e da chiedersi se ufficiali di Stato Maggiore non portassero, insieme ai piani dello sbarco, precise liste di “persone di fiducia“ che - guarda caso! - erano poi il fiore dell'onorata società: nel qual caso avremmo la prova migliore della potenza della mafia americana e del rapporto da questa costante­mente mantenuta con la mafia siciliana“.

Ai desideri di Sciascia risponde un documento trovato da Roberto Ciuni negli archivi USA. Il 21 luglio 1943, Patton ricevette dal quartier generale di Alexander un rapporto dettagliatissimo. Il rapporto aveva come oggetto: Mafia Personalities. Si trattava di un elenco di persone “considerate membri della mafia”, scritto grazie ad informazioni fornite al 15° Gruppo d'Armate alleato da gruppi francesi che lo consideravano abbastanza attendibile. Nell'elenco si leggono i nomi di 18 palermitani, con la relativa zona d'influenza e in alcuni casi addirittura con l'indirizzo. Numerose erano le "personalità mafiose" abitanti nelle borgate palermitane o nei paesi della Sicilia che dovevano essere contattati. Come i servizi segreti della Francia Libera si fossero procurati la lista, non era detto. Ciuni formula l'ipotesi che l'elenco sia pervenuto "attraverso canali nord-africani in contatto con i mafiosi o siciliani emigrati in Algeria e Tunisia". Se accettiamo per buona l'ipotesi di Sandro Attanasio sui contatti tra il Supersim italiano e i servizi segreti alleati intesi a favorire l'uscita dalla guerra dell'Italia possiamo formulare l'ipotesi che l'elenco sia stato fornito dai primi.

Per l’onorevole Angelo Nicosia, il contatto poté avvenire "con la complicità di elementi poco fidati del Ministero dell'Interno dell'epoca che solo poteva detenere l'elenco dei mafiosi confinati ... ". Nicosia rappresentava il MSI nella Commissione Parlamentare Antimafia. Naturalmente "elementi poco fidati del ministero dell'Interno" potrebbero aver fornito l'elenco al Supersim, che poi l'avrebbe girato ai francesi, finendo, infine, nelle mani degli americani, i quali li avrebbero poi "raggiunti con una meticolosissima" attenzione.

E' importante la lettera d'accompagnamento all'elenco, perché s’inseriva il problema mafia nell'oscura situazione politica. “Le persone indicate sono probabilmente antifasciste. Bisogna tenere però in considerazione che la mafia non ha ancora espresso una posizione politica a proposito dell'invasione e potrebbe essere contraria agli Alleati: nel qual caso sarebbe pericolosa in quanto è una società segreta organizzata. Sarà bene avvisare tutto il personale di sicurezza che gli elementi conosciuti come antifascisti non sono necessariamente anti italiani ovvero anti Alleati”. Per Ciuni il "Lavoro di renseignement che avrebbe resistito a qualsiasi pedante riscontro poliziesco locale, la mappa della mafia palermitana, particolarmente, era quanto di meglio si potesse fornire al governo d'occupazione: se non perfetta, certo frutto di ottime informazioni".

I nomi di molti citati nella lista li incontreremo spesso nelle pagine di cronaca nera dei quotidiani fino agli anni ’80 e oltre. In molti – nonni, padri, nipoti – sarebbero entrati nei libri di storia della mafia.

Nel 1942, numerosi e utilissimi ser­vigi erano stati resi al controspionaggio statunitense da Cosa Nostra che era stata assai attiva nel concorrere a stroncare l’attività spionistica dei nazisti nei porti ame­ricani allorquando sabotatori e spie germaniche fornivano informazioni, appoggi e anche rifornimenti ai sottomarini tedeschi appostati nell'Atlantico settentrionale. Dopo le “intese” tra Salvatore Lucania, noto come Lucky Luciano, condannato a una lunghissima pena detentiva, e il controspionaggio USA, Naval Intelligence Service in particolare, si cominciarono a vedere gli effetti di quel gentlemen's agree­ment, come scrive Lorenzo Marinese:

“Nella zona del porto, nelle banchine militari, i de­spoti diventano - sostituendosi ai papaveri della Ma­rina e dello spionaggio - i fratelli Camardos e Frank Costello. Il risultato è immediato: cessa il sabotaggio, cessa l'ostruzionismo, non un solo quintale di merce perduta; non un solo trabiccolo affondato. I tedeschi e i filo-nazisti vengono neutralizzati e, in seguito di­spersi. Ma c'è ancora altro da fare”.

Considerati i risultati, i servizi segreti americani, in previsione dello sbarco in Sicilia, tornarono a rivolgersi ai mafiosi dai quali potevano ottenere informazioni sulla loro terra d'origine, sui suoi porti, aeroporti, ferrovie, spiagge, punti strategici, disloca­zioni e consistenza delle truppe dell'Asse. Illuminanti a questo proposito sono le pagine di Ester Kefauver, presidente dell'omonima commissione sul crimine in America. Forse i servizi resi da Lucky Luciano e dai suoi “amici” agli agenti segreti americani non sono stati così preziosi sul terreno dell'informazione militare. La collaborazione però ci fu. Scrive Denis Mack Smith:

“E' stata spesso formulata l'accusa e non è stato mai dimostrato il contrario che questo corrispondesse a un piano deliberato dagli Alleati per facilitare la con­quista della Sicilia. Certamente c'erano stretti rap­porti fra i gangsters d'America e di Sicilia e l’aiuto della mafia poteva esser molto utile se non altro per ottenere informazioni. Alcuni particolari della carriera di Lucky Luciano, di Nicky Gentile e altri famosi cri­minali italo-americani conferiscono qualche attendi­bilità a questa storia. Vito Genovese, ad esempio, ben­ché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso l'omicidio e sebbe­ne avesse servito il fascismo durante la guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzo la sua posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a restaurare 1'autorità, disfacendo, cosi in parte, quel poco di bene che Mussolini aveva fatto”.

Questa collaborazione non era nata per caso. Per gli Alleati o per taluni agenti e funzionari dell’AMGOT si trattava, anche, di restituire alcune “cortesie” ricevute con l’ospitalità data dai mafiosi a vari agenti segreti americani e britannici prima dello sbarco, tra cui il tenente colonnello Charles Poletti, che molte voci vorrebbero a Monreale fin dal 1942, ospite di mafiosi del luogo o del locale Arcivescovo. Il presule fu accusato da molte male lingue di essere vicino a certi personaggi della zona. Anche gli inglesi si davano da fare. Sansone e Ingrascì scrivono:

“Nell'aprile 1943 un sottomarino britannico emerse a un miglio dalle coste meridionali della Sicilia. Una piccola imbarcazione, sotto la spinta dei remi, rag­giunse in breve tempo la costa, arenandosi dolcemente sulla spiaggia. Ne discese un uomo alto e sottile. Due persone che stavano ad attenderlo gli chiesero: “Chi siete?” “Sono il colonnello Hancock dell'esercito di S. Maestà britannica”.

L’ufficiale inglese, venuto per preparare il terreno all'invasione, a loro detta:

“fu ospite dell'on. Arturo Verderame che gli mise a disposizione una casa di campagna nei pressi di Gela. Nello stesso mese giunse clandestinamente in Sicilia un altro personaggio con compiti analoghi ma per incarico del Dipartimento di Stato, il colonnello Charles Poletti dell'esercito degli Stati Uniti. L'agente americano riuscì a stabilire immediatamente contatti con alcuni baroni agrari, tra i quali don Lucio Tasca Bordonaro, uno dei più grossi latifondisti siciliani, la duchessa di Cesarò ed altri”.

Gli Alleati si ser­vivano di queste e altre forze della conservazione dopo l’assicurazione che queste non avrebbero in alcun modo ostacolato i loro disegni di mantenere 1'ordine e che avrebbero contribuito a mantenerlo. Fu una stabilizzazione di un Paese conquistato.

“C'era indubbiamente nell'intervento alleato – come dice Franco Briatico - qualcosa che eccitava la mafia, rifacendosi ad un rapporto protettorato-autono­mia del tipo inglese dal quale nacque la Costituzione del 1812 e nel quale l'ideologia baronale ravvisava la libertà perfetta. La scelta della mafia era dunque il separatismo, in parte per la naturale identificazione di quest'ultimo con 1'antico ordine, in parte per la espe­rienza di uno Stato centrale che 1'aveva duramente perseguitata, in parte per la necessità di una restaura­zione che in un momento di estremo disordine, appa­riva improbabile a livello statale. Come sempre la ma­fia temeva contemporaneamente 1'assenza di un ordine e la presenza di un ordine troppo forte; e la sua pro­spettiva rimaneva quella di ritornare ad essere me­diazione indispensabile tra un ordine ristabilito in apparenza e un disordine latente”.

La tranquillità nelle retrovie era stata ed era una delle cose più importanti per gli Alleati e man mano che s’intensifica­vano le operazioni militari, il loro interesse (degli ame­ricani in particolare) alle forze che potevano contribuire aumentava. Scrive Denis Mack Smith:

“Perciò gli Alleati, che avevano interesse soprattutto a man­tenere la Sicilia tranquilla mentre la guerra procedeva sul continente, rimisero al potere una categoria di capi politici che derivavano dal passato prefascista; e, una volta fatto non ci fu modo di tornare indietro, perché essi fecero presto a trincerarsi efficacemente. Il quasi analfabeta Vizzini e i suoi soci, richiamarono in vita tutte le vecchie pratiche di clientelaggio, banditismo, terrorismo e omertà per crearsi un immenso potere e rimettere in auge i loro lucrativi labirinti di criminalità”.

Ci furono “piccoli“ ma si­gnificativi episodi. Ci permettono però d’intravedere già i segni della “scelta“ alleata che du­rerà fino alla prima metà del 1944. Churchill aveva un’estrema diffidenza verso una qualsiasi possibile iniziativa politica di “esuli o di av­versari del regime fascista” che non venisse dal Re e da Badoglio.

Sicuramente esagera il ruolo di della mafia Michele Pantaleone quando scrive:

“Comunque è storicamente provato che prima e du­rante le operazioni militari relative allo sbarco degli Alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo con il gangsteri­smo americano, s'adoperò per tenere sgombra la via da un mare all'altro, tanto che le truppe d'occupazione avanzarono nel centro dell'isola con un notevole mar­gine di sicurezza”.

Non ci furono battaglioni di mafiosi armati di lupara in marcia con le salmerie alleate. Gli occupanti grazie all’enorme divario di uomini e mezzi nei confronti dei nemici non ne avevano bisogno. Gli invasori sarebbero arrivati lo stesso allo Stretto, ma avrebbero pagato un prezzo maggiore. In molte località della Sicilia, però gli “uomini d’onore” contribuirono a minare il morale delle truppe dell’Asse e favorirono, con promesse e minacce, la resa dei reparti italiani e tedeschi che dovevano fronteggiare il nemico, oltre a guidare l’assalto ai municipi e alle sedi del Fascio. Come ad esempio a Bagheria.

Gli americani “subiscono” l’iniziativa politica dell'alleato nel Mediterraneo. I quali parevano essere più propensi a iniziative militari nei Balcani. Scrive N. Kogan, L'Italia e gli Alleati:

“l'atteggiamento americano non si esplicò in una poli­tica vera e propria per tutto il 1943 e la prima parte del 1944. Sottovalutando la forza dell’anti-fascismo e preoccupato della sicurezza militare, il governo ameri­cano seguì da principio la tattica di sopprimere qual­siasi attività politica in Italia, e questo fu il suo modo di rispondere a un problema che non era ancora preparato a trattare".

I criteri generali dell'impostazione della politica alleata in Sicilia sono anche illu­minanti del pragmatismo e dei contrasti tra gli Alleati. Gli americani sono meno interessati degli inglesi, a un disegno strategico più ampio. Perciò sono propensi, almeno sul piano più minuto, a servirsi di mezzi e stru­menti di governo diversi dai britannici. In questo quadro non devono però essere sottovalutati, i pre­valenti fattori di natura militare che ispiravano la con­dotta degli statunitensi e dei britannici e gli altri elementi dal più vasto disegno che non sembravano in quel tempo completamente chiari. Pareva impossibile, che si dovesse parlare, per i nordamericani, di tradizione politica e d’interessi storici nel Mediterraneo cui riallacciarsi in qualche modo. Non era tuttavia, però, da sottovalutare la loro recente esperienza nell’Africa settentrionale francese, vista al tempo dello sbarco come operazione primariamente logistica e condotta con la qua­si certezza di non incontrare resistenza anche di natura politica. Fu una vicenda tuttavia non priva di ombre, di am­bizioni, d’insegnamenti, per l’avvenire: 1'effetto di quest’ope­razione avrebbe modificato, infatti, la storia del­le tradizioni politiche e della situazione geografica degli USA. Chiaramente “l'imperialismo” del presente era in lotta con le idee passate e la politica statunitense rifletteva questo contrasto. E’ in concreto impossibile accer­tare se le direttive “aperturistiche” verso Cosa Nostra fu­rono stabilite e in quale misura dall’AMGOT prima dello sbarco. Non si tratta, certamente, di valutare alcuni fatti isolati senza un preciso contorno, ma di una volontà ed anche di un disegno piuttosto precisi che s’innestano in un quadro più ampio, in una scelta del tutto “utilitaristica” verso i mafiosi che avevano o rappresentavano comunque il potere effettivo e che non avevano alcun interesse a modificare lo “status quo” in materia di ordine socio-economico in Sicilia. I quadri della nuova mafia che si stavano riorga­nizzando e cambiando da quella di un tempo, ricomin­ciavano ad acquistare 1'antica e indiscussa potenza nelle campagne e più “peso”, man mano che acquisivano maggior potere politico. La cosa assunse un tono d'ufficialità agli occhi di molti siciliani quando don Calò Vizzini fu nominato sindaco di Villalba dal tenente americano Beehr, e alla cerimonia del suo insediamento partecipò l'inviato del vescovo di Caltanissetta. Cioè del rappresentante dell'altra colonna che, insieme a Cosa Nostra, doveva ga­rantire 1'ordine agli occupanti: il clero. Nel caso partico­lare poi, don Calò aveva dei fratelli preti e po­teva vantare anche due zii vescovi. Oltre a questi incarichi ufficiali dati dagli alleati ai capi noti della mafia stavano quelli dati a non pochi mafiosi meno importanti, meno conosciuti o del tutto sconosciuti. Erano nomi che già iniziavano a circolare di bocca in bocca con timore e riverenza. Anche i semplici “soldati” non sono meno importanti sul piano pra­tico e operativo, perché spesso costoro erano al ser­vizio degli Alleati, in molti casi, per la conoscenza dell’in­glese, come “interpreti”. In altri avevano vari incarichi, spesso anche come uomini di “fiducia”, per procacciare affari e sistemare altri “pro­blemi”. E’ indicativo il fatto che molti militari americani fossero di origine siciliana e furono volutamente scelti dall'esercito per questa ragione. Avevano appreso dai genitori emigrati nelle Little Italy a rispettare certi usi e certe leggi tradizionali avevano ben più efficacia di quelle statali. Anche questi rapporti giovarono a Cosa Nostra, che amministrò numerosi enti locali della Sicilia occidentale, specialmente in centri tradizionali dell’organizzazione ma­fiosa.

Quanto scrive Giuseppe Carlo Marino in Storia della Mafia sul governatore del Governo Militare Alleato, Charles Poletti, ci aiuta a capire grazie a quali alleanze fu possibile stabilizzare la Sicilia e tante cose che successero dopo nell’Isola:

"Sui rapporti tra l'AMGOT da una parte e il separatismo e la mafia dall'altra, la verità storica è tanto inoppugnabile quanto, per ben comprensibili motivi, controversa ... è ovvio, data questa opinione, non sarebbe mai stato in grado di riconoscere e temere come mafiosi il suo fraterno amico Antonini e gli altri boss che negli USA controllavano il sindacato dei portuali (il "fronte del porto" del famoso film con Marlon Brando). E neppure il famigerato Lucky Luciano che - giurano parecchi testimoni - fu, ovviamente sotto falso nome, suo interprete di fiducia a Palermo nel quartiere generale dell'AMGOT. Né lo avrebbero minimamente scandalizzato i vari Joe Adonis, Albert Anastasia, Joseph Antoniori, Jim Balestrieri, Thomas Buffa, Leonard Calamia, Frank Costello, Joe De Luca, Peter e Joseph Di Giovanni, Nick Gentile, Vito Genovese, Tony Lo Piparo, Vincent Mangano, Joe Profaci, tutti esponenti dell"'onorata società" ampiamente utilizzati dai servizi segreti e presenti con vari incarichi tra i "liberatori". A maggiore ragione, ritenne di operare per la rinascita della democrazia in Italia insediando come sindaco a Palermo il noto Lucio Tasca e, alla guida delle altre amministrazioni comunali dell'isola, a parte il noto "campione di antifascismo" don Calò Vizzini a Villalba, altri innumerevoli personaggi di analoga cultura democratica come Antonino Affronti, Serafino Di Peri, Giuseppe Genco Russo, Giuseppe Giudice, Vincenzo Landolina, Peppino Scarlata, Alfredo Sorce. E consegnò al boss Vincenzo De Carlo il controllo degli ammassi del grano e al medico arcimafioso di Corleone Michele Navarra (il primo "datore di lavoro" di Luciano Liggio) l'organizzazione di una società di trasporti nell'entroterra del Palermitano destinata a presiedere alle attività del "mercato nero". Ovviamente il vecchio Poletti ha negato, nella citata intervista, di avere avuto rapporti compromettenti con il separatismo. Ma è certo che il movimento di Finocchiaro Aprile - nel quale, dopo lo sbarco degli Alleati, confluì pressoché per intero la "borghesia mafiosa" con il personale del latifondo, dai grandi proprietari titolati, ai gabelloti, ai campieri - dovette molto del suo successo alla possibilità di presentarsi come il "partito degli americani" (alcuni separatisti, attratti da una specie di fondamentalismo americanista, e sarà don Calò, per qualche tempo, uno dei loro massimi esponenti, proporranno addirittura di fare della Sicilia la quarantanovesima stella degli Stati Uniti). Le reali o soltanto presunte credenziali americane furono, insieme alla capacità di fare crescere e di strumentalizzare nell'isola una vasta protesta contro il Nord colonialista, tra i fattori che resero possibile al trio Finocchiaro Aprile-Tasca-Vizzini di conquistare e strumentalizzare il consenso di una vasta forza plebea, dalla quale sarebbero emerse delle autentiche vocazioni popolari al riscatto e alla liberazione. Per esempio, le vocazioni del giovane professore Antonio Canepa, un idealista dell'Ateneo catanese che, sotto la spinta di originali suggestioni patriottico - rivoluzionarie, avrebbe costituito, con un pugno di studenti, il suo sedicente "Esercito volontario per l'indipendenza siciliana" (EVIS) e poi, il 17 giugno 1945, sarebbe caduto in un conflitto a fuoco con i carabinieri che lascia aperti i sospetti sulle responsabilità della mafia, interessata ad eliminarlo come sovversivo e "testa calda".

Poletti avrebbe avuto come sloo interprete personale al Comando Alleato di Nola, Napoli, il noto gangster Vito Genovese. Ricercato negli States per omicidio, Paese in cui fu estradato dopo una lunga procedura: godeva di alte complicità al comando alleato. “Don Vitone” gestiva il mercato nero nell’Italia meridionale. E “mangiava e faceva mangiare” gli “amici”.

Marino accenna alla presenza di massoni nelle trattative che condussero alla firma dell'armistizio di Cassibile e alla successiva strategia americana di contenimento del comunismo in Italia:

"In sintesi, che cosa era accaduto a partire dallo sbarco degli Alleati nell'isola? Inizialmente, per calcoli di realpolitik conformi all'esigenza di assicurare il successo all'impresa militare, gli americani sfruttarono a piene mani gli effetti della ricomposizione antifascista della mafia siciliana, un processo al quale essi stessi avevano contribuito con il buon lavoro svolto dai servizi segreti e dai mafiosi di casa loro ingaggiati per l'occasione, tutti già collegati o capaci di ricollegarsi rapidamente ai mafiosi siciliani. Tramite privilegiato dell'operazione, dagli USA alla Sicilia e viceversa, dovette essere la massoneria, cioè la componente più misteriosa di quella borghesia che, mafiosa essa stessa o "amica degli amici", aveva comunque acquisito una grande dimestichezza - direbbe Nicola Tranfaglia - con la “mafia come metodo”. Non era certo un caso che Charles Poletti fosse un gran massone. E così i suoi migliori amici americani. E sarebbe da appurare su quale invisibile pista massonica il generale Giuseppe Castellano (che, assistito dall'eminenza grigia Vito Guarrasi, aveva firmato la resa italiana di Cassibile) fosse ancora all'opera nel novembre del 1944, (secondo quanto attestano importanti documenti americani), sempre con il suddetto Guarrasi e con l'avvocato Vito Foderà e “assieme ai capi della maffia incluso Calogero Vizzini”, questa volta non più per appoggiare il movimento separatista di Finocchiaro Aprile che “stava perdendo popolarità”, ma “per la formazione di un gruppo in favore dell'Autonomia sotto la direzione della maffia”. Tutto questo non poté non avere conseguenze di rilevante portata. In concreto, nell'intreccio tra i servizi Segreti e la massoneria, il personale mafioso, con i suoi rafforzati legami con i cugini d'oltreoceano, era stato assunto tra le principali risorse strategiche del "partito americano" in Italia. Così la mafia, comunque si vogliano vedere le cose, fu innalzata al rango di un vero e proprio soggetto politico che, tanto più con l'avvio della "guerra fredda" e con i timori per i progressi del Pci in Italia, avrebbe presto preso coscienza della sua forza contrattuale, ai fini degli interessi internazionali del cosiddetto "mondo libero". Nell'interscambio Sicilia-America, si erano già formate le condizioni necessarie e sufficienti per quella che, da lì a poco, sarebbe stata Cosa nostra, una vera e propria "multinazionale" politico-affaristico-criminale, un'entità sempre più affinata, capillare e complessa di cui per decenni si sarebbe soltanto intuita l'esistenza".

Ai precedenti massoni aggiungerei, solo per rimanere in Italia, il maresciallo Pietro Badoglio, scelto per la carica di Capo del Governo anche per i suoi legami con le Logge, e il Re Vittorio Emanuele III, in gioventù sospetto di simpatie massoniche. Sarebbe stato un “gradito visitatore" delle Logge. Per Antonio Nicaso: “Fu il massone americano Frank Bruno Gigliotti, già agente della sezione italiana dell’Oss e quindi agente della Cia, a preparare lo sbarco degli americani in Sicilia attraverso i rapporti con la mafia e la massoneria”.

Nel gioco di “salvare il salvabile” nel “gioco” entrò anche la Chiesa, preoccupata, specie dopo gli scioperi del marzo 1943 dell’andamento che potevano prendere le “cose” in caso di sconfitta dell’Italia: la forte influenza nella Penisola di due Potenze protestanti e del PCI. Con i primi presto si giunse a un accomodamento, indicativi sono rapporti Alleati - Chiesa in Sicilia. Le angosce del Papa crebbero con l’aumentare della forza del PCI dopo il 25 luglio.

Pio XII era consapevole da tempo che l’unica via di salvezza per 1'Italia era quella della pace. Il Papa non condivi­deva l’orientamento del governo Badoglio, vale a dire un armistizio che ponesse 1'Italia alla merce dell'occupazione militare anglo­americana. Papa Pio XII percepiva che, in tal caso, la reazione di Hitler sarebbe stata certa e dura con il risultato di favorire i comunisti, che aspettavano solo una situazione del genere per mettersi a capo della lotta partigiana contro i tedeschi. La cosa avrebbe finito col favorire enormemente il PCI che sarebbe emerso dalle rovine della guerra, come 1'unico, autentico vincitore, con tutte le conseguenze che tale successo avrebbe comportato per 1'avvenire dell'Italia e della Chiesa. Il Pontefice aveva quindi deciso che la sola via possibile non fosse l’armistizio sperato da Badoglio, ma la “neutralizzazione” dell'Italia previo accordo con le Potenze in guerra: vale a dire, gli Alleati avrebbero dovuto cessare le ostilità ma non occupare l’Italia; i tedeschi, a loro volta, avrebbero dovuto ritirare le loro Divisioni oltre il Bren­nero. I1 piano era molto meno utopistico di quanto oggi possa sembrare. E’ chiaro che il Papa sapeva di potere contare per la realizzazione del suo progetto sul consenso di Berlino. Il governo germanico in quel tempo, cercava qualsiasi occasione che gli permettesse, di entrare in contatto con gli Alleati al fine di trattare una tregua che gli consentisse ma­no libera in Russia. Un accordo per 1'Italia poteva benissimo costituire un prezioso precedente per il raggiungimento di questo scopo. Contando quindi già a priori sul favo­revole atteggiamento del governo ger­manico, ai primi di agosto del 1943 il Papa aveva inviato negli USA, quale rappresentante personale, 1'architetto Enrico Piero Galeazzi. Doveva illustrare la volontà di Pio XII ai capi dell'episcopato americano e pre­mere quindi, loro tramite, sul Presidente Roosevelt. Mentre Galeazzi era in missione, ci fu 1'accostamento tra Badoglio e i comunisti. Pio XII, che vedeva la situazione deteriorarsi nel senso da lui temuto, tentò di premere ulteriormente su Washington e su Badoglio. Il suo piano fu però sconvolto dal precipitare degli eventi. I1 15 agosto, nel massimo se­greto, il generale Giuseppe Castellano, munito di credenziali rilasciategli da Badoglio, incontrò a Madrid sir Samuel Hoare, l'ambasciatore britannico, con 1'incarico di trattare il passaggio del­1'Italia a fianco degli Alleati. Iniziò così la frenetica vicenda delle trat­tative che portarono all’Armistizio.

D: Infine alcune sue considerazioni sul comportamento degli alti gradi italiani, in particolare quelli della Marina Militare, traditori (Il Trattato di Pace stipulato a Parigi con le Nazioni vincitrici nel febbraio del 1947 all’articolo 16 dice: “L’Italia non perseguirà, ne disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data dell’entrata in vigore del presente Trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate e Associate o di avere condotto un “azione a favore di detta causa”) come l’ammiraglio Maugeri responsabile dell’Ufficio Informazioni della Marina, decorato dagli Stati Uniti a guerra finita con la Legion of Merit, l’ammiraglio Priamo Leonardi, comandante la piazzaforte di Augusta e Siracusa e l’ammiraglio Gino Pavesi comandante di Pantelleria, lei che ne pensa? Su Casa Savoia credo sia meglio stendere un velo pietoso.

Forse è meglio sorvolare sulle responsabilità degli alti gradi della marina. Molti furono dei felloni e furono coperti dal Diktat di Parigi e dalla complicità della successiva repubblica antifascista nata della resistenza. Alla quale poi prestarono i loro servizi. Il loro tradimento costò la vita a tanti bravi militari e forse impedì la vittoria dell’Asse. I semplici marinai volevano vincere la guerra. Per chi vuole approfondire consiglio alcuni testi il classico Navi e poltrone di Antonio Trizzino, La flotta tradita di Roberto Fabiani Carlo De Risio e Su onda 41, Roma non risponde di Franco Tabasso. Antonio Trizzino fu processato per quanto scritto e poi assolto. La flotta tradita, pubblicato nel 2005, fuori catalogo, è quasi introvabile. L’ultimo libro fu subito sequestrato dopo la sua stampa in alcune centinaia di copie da una piccolissima casa editrice nel lontano 1957 e ne circolano solo alcune, molto rare e costose anche in anastatica. Queste vicende sono indicative.

Pantelleria il “il paracarri d’Italia” cadde dopo 6 giorni di bombardamenti che avevano fatto pochi ai potentissimi bunker e pochissime vittime. L’ammiraglio Pavesi, dopo la resa, si difese dalle accuse sostenendo la mancanza d’acqua. Secondo molte testimonianze successive ce ne però era in abbondanza. Il crollo dell’Isola contribuì molto ad abbattere il morale degli italiani.

Su quanto di accaduto alla piazzaforte di Augusta abbandonata in pratica senza combattere con il nemico molto lontano, per carità di Patria, preferisco stendere un velo pietoso. Appartiene alle pagine più vergognose della nostra storia. Vergogna riscattata dal sacrificio di migliaia di eroici caduti in Sicilia. Doveva essere una delle più importanti difese fisse dell’Isola, fu in realtà l’anello più debole della catena. Per la triste vicenda accaduta ad Augusta, l’ammiraglio comandante, il massone Priamo Leonardi, fu nell’aprile 1944 condannato a morte in contumacia dal governo della Repubblica Sociale Italiana, il 20 novembre 1945 fu riabilitato dalle conclusioni di una Commissione d’inchiesta della Marina. Poi, per lo storico Leonardo Salvaggio, ebbe la medaglia d’argento per il valore e il coraggio dimostrato nel difendere la piazzaforte di Augusta- Siracusa.

Bagheria, 25 settembre 2012

Giovanni Bartolone, nasce a Palermo nel 1953, ove insegna Diritto ed economia nelle Scuole Superiori. Vive a Bagheria (Palermo). E’ laureato in Scienze Politiche, indirizzo Politico Internazionale, con una tesi sul Referendum istituzionale Monarchia – Repubblica del 1946. Ha conseguito un Master sul Medio e Vicino Oriente presso l’Istituto Enrico Mattei di Roma, con una tesi dal titolo “Le operazioni di stabilizzazione. I governi militari d’occupazione in Sicilia, a Napoli, in Germania e in Iraq”. E' da molti anni impegnato in ricerche sulla Seconda guerra mondiale, il Fascismo, il Nazionalsocialismo, il fenomeno della Mafia, la Sicilia dallo sbarco Alleato alla morte di Salvatore Giuliano. Ha pubblicato nel 2005 il libro “Le altre stragi”, Tipografia Aiello & Provenzano, Bagheria, dedicato alle stragi alleate e tedesche nella Sicilia del 1943/44 e il saggio “Luci ed ombre nella Napoli 1943-1946”, in AA. VV., ISSES, Napoli, 2006. E’ attualmente impegnato in studi sui crimini commessi dagli anglo-americani in Sicilia nel 1943 e il fenomeno del Fascismo clandestino e la rivolta dei “Non si parte” in Sicilia. Ha collaborato a Candido, Historica Nova e Storia del Novecento

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MessaggioInviato: Mer Apr 03, 2013 12:43 pm    Oggetto:  
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…ecco un’altra pagina oscura attinente lo sbarco in Sicilia degli anglo-americani nel 1943, ma l’espediente di utilizzare prigionieri italiani come scudi umani comunque non rappresenta affatto una scoperta, contrariamente a quanto sembra pensare Ezio Costanzo, che pure dello "sbarco" ha scritto in modo diffuso ( ad esempio
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). Già nei fatti di "Portella della Paglia", viene riportato dalle stesse fonti americane un episodio dello stesso tenore…

… “Il nemico prende le sue contromosse, lecite e non. Secondo fonti attendibili, infatti, come riporta il relatore nel suo memoriale, gli Americani hanno legato ai propri automezzi di prima linea dei prigionieri italiani, catturati mentre questi stavano minando la strada (60). Questo vile espediente avrebbe dovuto far sì che qualsiasi offensiva si sarebbe dovuta paralizzare sul nascere. Avranno pensato: gli Italiani sono troppo teneri di cuore per aprire il fuoco, col rischio di colpire i propri commilitoni.”
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( Cfr. J. Belden, Adventure in Sicily, in Life, 9 agosto 1943, vol. 15 n. 6, pp. 82-89. La traduzione del pezzo, che testimonia da parte americana il fatto, è riportata in un allegato a C.M.T.P. cit., p. 3. Ivi: "(…) da fonte attendibile, ma non controllata, risulterebbe che il sottotenente Barbadoro abbia aperto il fuoco contro i mezzi corazzati nemici sui quali erano stati legati alcuni prigionieri italiani catturati sul posto mentre erano intenti a sistemare alcune mine lungo la strada. Ciò fu possibile attuarlo, da parte del nemico, sfruttando il defilamento al tiro ed alla vista di un'accidentalità sul terreno". )


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I SEGRETI dello SBARCO - SOLDATI SICILIANI SCUDI UMANI DEI MARINES

Una comunicazione di poche righe, trasmessa da un colonnello del regio esercito a un suo superiore alle 9,20 del 10 luglio 1943, mentre in Sicilia era appena iniziata l' Operazione Husky e infuriavano i combattimenti subito dopo lo sbarco degli anglo-americana nell' Isola. Svela un inedito, agghiacciante, particolare sul comportamento delle truppe americane nell' area di sbarco di Gela: i primi soldati italiani fatti prigionieri furono utilizzati come scudi umani per coprire l' avanzata del generale Patton nell' entroterra. Un' inedita rivelazione che a distanza di 68 anni riaffiora da un foglio di carta velina ingiallito, posto all' interno di un faldone dell' Archivio dell' Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell' Esercito italiano, ritrovato nei mesi scorsi da uno studioso di storia gelese, Nuccio Mulè, al quale non è sfuggito un particolare del lungo resoconto scritto dal generale Orazio Mariscalco, comandante della XVIII brigata costiera, la sera del 10 luglio 1943, nella cronologia degli avvenimenti delle prime quarantotto ore di scontri nell' area di sbarco della Settima armata Usa tra Licata e Scoglitti: «...Ore 9,20: il Col. Altini comunica che la 49a btr. siè arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri...» (Aussme, cartella 2124). La quarantanovesima batteria costiera italiana (che faceva parte del gruppo di sei unità di artiglieria antisbarco, a difesa del litorale gelese, collocate tra punta Due Rocche, ad ovest di Gela, e la foce del fiume Dirillo, nella zona di punta Zafaglione, a sud di Niscemi), si arrende, dunque, senza sparare un colpo e lo fa per una scelta ben precisa: evitare di colpire i propri commilitoni prigionieri costretti ad avanzare verso l' entroterra gelese davanti a drappelli di soldati americani e utilizzati come scudi umani. Il col. Altini trasmette la motivazione della resa al suo superiore, il generale Mariscalco, che ne prende atto, l' annota nella relazione la firma e la trasmette allo Stato Maggiore. A Roma nessuno fa caso a quelle poche righe, né viene chiesta una più approfondita relazione. Così, fino ad oggi, questo documento rimane la sola testimonianza di quegli scudi umani. Una semplice annotazione che svela una nuova verità sulla "guerra buona" combattuta dai soldati a stelle e strisce in quella cocente estate del 1943 e getta un' ombra sulla loro condotta militare e umana. «Spesso sui libri leggiamo che durante lo sbarco americano in Sicilia i soldati italiani si arresero per codardia - dice il professore Mulé - ma non risponde a verità. O meglio non fu così per tutti quelli che deposero le armi e questo documento ce lo conferma. E poi vi sono le stragi. Gruppi di soldati americani si abbandonarono a selvaggi comportamenti in sfregio all' etica militare e ai dettami della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra». Come non ricordare l' eccidio a sangue freddo di 73 prigionieri a Biscari (oggi Acate), o di civili inermi a Piano Stella, oppure quello di una ragazza uccisa a colpi di mitra assieme ai suoi due bambini in una viuzza di Gela, o ancora la fucilazione, senza motivo, di quattro carabinieri reali, sempre a Gela, compiuta dai paracadutisti dell' ottantaduesima divisione; questi atti, che comunque non trovano giustificazione, rappresentano forse la conseguenza estrema di una catena di violenza che si scatena durante ogni guerra. Il generale Patton, che guidò la Settima Armata in Sicilia, fu l' artefice di alcuni di questi terribili ordini. Oltre a quello di «non fare prigionieri...» e di «ammazzare subito i soldati nemici, fossero pure a mani alzate», ai suoi uomini amava predicare: «Quando incontreremo il nemico noi lo uccideremo. Noi non dovremo avere nessuna pietà di lui... Dovete avere l' istinto dell' assassino. Avremo la nomea di assassini e gli assassini sono immortali. Noi dobbiamo crearci la fama di assassini». D' altro canto, come ha rivelato lo storico inglese Anthony Beevor, anche durante lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944 gli Alleati, oltre ad uccidere i prigionieri tedeschi, compresi i feriti, utilizzarono in molti casi i soldati della Wehrmacht e i militari della Waffes-SS come scudi umani e, a volte, li costrinsero ad avanzare in avanscoperta sui campi minati. E così fu anche durante la guerra d' Africa. Uno dei tanti prigionieri italiani, un artigliere salernitano, Andrea Liquori, classe 1917, ha raccontato di recente che dopo essere stato catturato dagli inglesi e trasferito in un campo di prigionia in prossimità del canale di Suez, gli toccò, assieme ad altre migliaia di prigionieri, «l' infame compito di fungere da scudo umano a difesa delle strutture portuali per evitare bombardamenti da parte delle forze dell' Asse». La battaglia per la conquista di Gela fu una delle più cruente dell' intera campagna di Sicilia. E forse i soldati della 1a divisione americana del generale Terry Allen, sbarcati assieme a due brigate di Ranger sul litorale gelese su un fronte di 41 chilometri, tra punta Due Rocche e Punta Zafaglione, non si aspettavano la dura reazione italo-tedesca. La difesa italiana di Gela era stata schierata lungo i bunker costruiti a difesa della spiaggia e del centro abitato. Ad alcuni reggimenti e battaglioni era toccato il compito di resistere alla prima forza d' urto degli uomini di Patton. Già nella prima giornata di attacchi gli italiani subirono pesanti perdite: circa 180 soldati e 17 ufficiali, ovvero ben la metà dei poco meno dei 400 uomini in servizio effettivo, caddero. Il generale Guzzoni, comandante della Sesta armata in Sicilia, pur cosciente dell' inferiorità di uomini e mezzi, diramò così l' ordine di contrattacco, facendo confluire sull' area di Gela la divisione Livorno assieme ad un gruppo mobile di stanza a Niscemi e alla divisione tedesca Herman Goering, collocata a Caltagirone. Il piano di Guzzoni era quello di ricacciare nel mare il nemico ancora prima che potesse riorganizzarsi dopo lo sbarco; ma fu un tentativo disperato e la controffensiva italotedesca venne schiacciata dall' artiglieria navale alleata. Il 12 luglio sui campi di battaglia attorno a Gela si contarono circa duemila cadaveri di soldati della Livorno, 214 ufficiali, seicentotrenta tedeschi, e circa 2300 americani tra morti e feriti. Furono fatti prigionieri oltre duemila italiani, mentre altri soldati trovarono rifugio nelle case dei contadini nelle campagne di Gela e Niscemi. Dopo la violenta battaglia di Monte Castelluccio fu fatto prigioniero anche il tenente colonnello Ugo Leonardi, comandante del III battaglione del 34° reggimento di fanteria della divisione Livorno. Leonardi, nella sua relazione sui combattimenti di Gela, raccontò un altro particolare sul comportamento dei soldati americani: «Al termine dei combattimenti una numerosa squadra di militari americani si scagliò su di me, sul tenente medico Mario Zocca e sul sottotenente Giuseppe Vitoni, entrambi portanti in maniera visibile il bracciale della croce rossa internazionale. Ancora accesi in volto dall' ardore della lotta, essi ci puntarono i moschetti al petto per immobilizzarci e ci disarmarono strappandoci cinturoni e pistole. Poi ci schiaffeggiarono, pronti anche a finirci con le armi se qualcuno di noi avesse minimamente reagito. Con questo gesto essi hanno voluto umiliarci, anziché riconoscere e cavallerescamente apprezzare il valore del soldato italiano che si batté in Sicilia nonostante la sua grave inferiorità in forze e mezzi d' ogni genere».

EZIO COSTANZO

23/03/2011

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MessaggioInviato: Mer Lug 03, 2013 6:51 pm    Oggetto:  
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...sono molto scettico riguardo la sincerità del gesto attuato dal deputato della repubblica bananara e sono certo invece dell'assoluta mancanza di volontà nel fare piena luce e giustizia riguardo agli episodi criminosi di cui furono vittima gli italiani per mano dei militari statunitensi, temo sia solo una trovata pubblicitaria per racimolare voti... i libri "a causa" dei quali sarebbe divampato all'improvviso il "sacro furore" dell' "onorevole" di turno, infatti, non sono mica recentissimi ( tranne l'ultimo "Obiettivo Biscari") ma il tema evidentemente suscita interesse e l'anniversario si presta a strumentalizzazioni di comodo.

Storia: Piso (Pdl), fare luce su stragi americane in Sicilia nel 1943

Roma, 1 lug. (Adnkronos) - A pochi giorni dalle celebrazioni per il settantesimo dello Sbarco degli Alleati in Sicilia (9-10 luglio 1943) si riaprono i dossier sulle stragi compiute dagli americani nei sei giorni di guerra che infiammarono il territorio da Gela a Vittoria e durante i quali i soldati dell'Operazione Husky si sarebbero macchiati di crimini di guerra sia contro i civili sia contro i militari italiani e tedeschi presi prigionieri. Biscari, Comiso, Vittoria, Passo di Piazza, sono i nomi delle localita' siciliane dove si sono consumate le stragi ricostruite nei saggi: 'Uccidi gli italiani', di Andrea Augello (strage di San Pietro di Caltagirone, localita' Biscari), 'Gela 1943', di Fabrizio Carloni (strage dei carabinieri a Passo di Piazza) e nel recente 'Obiettivo Biscari', di Domenico Anfora e Stefano Pepi che documenta, per la prima volta, la strage di Comiso nella quale vennero fucilati soldati italiani e tedeschi, e ricostruisce l'omicidio di Giuseppe Mangano, podesta' di Acate, ucciso nei pressi di Vittoria insieme al figlio Valerio e al fratello Ernesto. Dai volumi editi da Mursia ha preso spunto Vincenzo Piso (Pdl) che oggi ha presentato un'interrogazione al ministro della Difesa per chiedere ''quali siano nell'ambito delle celebrazioni promosse per il 70° anniversario dello Sbarco le iniziative che si intendono assumere per rendere omaggio alla memoria dei soldati italiani che furono vittime di questi crimini di guerra; e se sia o meno confermato che la Procura militare di Napoli stia svolgendo un'inchiesta sulle stragi di Passo di Piazza e di Comiso''.

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Sbarco americano in Sicilia, tre libri della Mursia scatenano interrogazioni parlamentari

A pochi giorni dalle celebrazioni per il settantesimo dello Sbarco degli Alleati in Sicilia (9-10 luglio 1943) si riaprono i dossier sulle stragi compiute dagli americani nei sei giorni di guerra che infiammarono il territorio da Gela a Vittoria e durante i quali i soldati dell’Operazione Husky si macchiarono di crimini di guerra sia contro i civili sia contro i militari italiani e tedeschi presi prigionieri.

Biscari, Comiso, Vittoria, Passo di Piazza, sono i nomi delle località siciliane dove si sono consumate le stragi ricostruite nei saggi: Uccidi gli italiani di Andrea Augello (strage di San Pietro di Caltagirone, località Biscari), Gela 1943 di Fabrizio Carloni (strage dei carabinieri a Passo di Piazza) e nel recente Obiettivo Biscari di Domenico Anfora e Stefano Pepi che documenta, per la prima volta, la strage di Comiso nella quale vennero fucilati soldati italiani e tedeschi, e ricostruisce l’omicidio di Giuseppe Mangano, podestà di Acate, ucciso nei pressi di Vittoria insieme al figlio Valerio e al fratello Ernesto.

Dai volumi editi da Mursia ha preso spunto l’onorevole Vincenzo Piso (Pdl) che oggi ha presentato un’interrogazione al ministro della Difesa per chiedere «quali siano nell'ambito delle celebrazioni promosse per il 70° anniversario dello Sbarco le iniziative che si intendono assumere per rendere omaggio alla memoria dei soldati italiani che furono vittime di questi crimini di guerra; e se sia o meno confermato che la Procura militare di Napoli stia svolgendo un'inchiesta sulle stragi di Passo di Piazza e di Comiso.»

Le verità nascoste: i libri Mursia sulle stragi americane in Sicilia.

Nell’Operazione «Husky», l’assalto alla Fortezza Europa, gli anglo-americani misero in campo 180 mila uomini, 1800 mezzi da sbarco, 600 carri armati, 4 mila aerei. Sulla spiaggia di Gela si trovarono di fronte alla resistenza disperata dei soldati della Livorno, della Goering e di gruppi di civili. La reazione degli americani, caricati dalla parola d’ordine del generale Patton: «Kill, kill and kill some more» fu violenta.

Le verità nascoste per decenni da una storiografia ufficiale, che ha avallato la tesi di un esercito italiano in rotta e ha steso un velo di silenzio e omertà sugli eccidi, sono state riportate alla luce da tre saggi pubblicati da Mursia.

"Uccidi gli Italiani" di Andrea Augello, pubblicato in prima edizione nel 2009 e in seconda edizione nel 2012 con l’elenco dei nomi e del luogo di sepoltura dei soldati italiani e tedeschi uccisi il 14 luglio 1943 a Biscari, oggi Acate. I soldati italiani furono presi prigionieri dopo la battaglia per il controllo dell’aeroporto di Santo Pietro di Caltagirone e fucilati dai militari della 45ª Divisione di Fanteria dell’esercito americano. Le fucilazioni furono ordinate dal capitano John Compton e dal sergente Horace West. Un primo gruppo di 36 soldati italiani venne fucilato a Santo Pietro, poco dopo altri 35, tra cui alcuni tedeschi, vennero sterminati mentre venivano trasferiti per gli interrogatori. Alcuni italiani riuscirono miracolosamente a salvarsi dalla strage, tra loro l’aviere scelto Giuseppe Giannola che ha recentemente ricevuto la Croce di Cavaliere della Repubblica.
Pochi giorni dopo la strage le autorità militari americane avviarono un’inchiesta: West venne condannato mentre Compton riuscì a convincere la Corte di aver agito in osservanza all’ordine di Patton.

Nessuna inchiesta è invece mai stata aperta per la strage dei carabinieri a Passo di Piazza documentata nel libro "Gela 1943" di Fabrizio Carloni:

Pubblicato nel 2011, il saggio di Carloni, storico e giornalista napoletano, ha dato conto per la prima volta della strage compiuta a Passo di Piazza da elementi dell’82a divisione aviotrasportata statunitense lanciati nella notte del 10 luglio. A Passo di Piazza, circa otto chilometri da Gela in direzione di Vittoria, i Carabinieri Reali avevano istituito una stazione affidata a una quindicina di militari. Verso le sette di mattina del 10 luglio i carabinieri furono circondati da soldati americani. Colti di sorpresa e consapevoli del rapido deteriorarsi della situazione delle difese italiane, si arresero. Furono disarmati, perquisiti e derubati, poi furono fatti appoggiare a un muro con le mani sulla testa e fucilati, senza preavviso, alle spalle. Alcuni si salvarono. Uno dei superstiti, Antonio Cianci di Stornara, è ancora vivo e ha dato la sua testimonianza per il libro di Carloni.

Stefano Pepi e Domenico Anfora nel saggio "Obiettivo Biscari", da pochi giorni in libreria, documentano la strage all’aeroporto di Comiso, ricostruita sulla base dei documenti conservati negli archivi militari, dalle testimonianze di un ufficiale dell’ufficio storico della 45° Divisione di Fanteria statunitense e di un giornalista inglese.

Comiso aveva rappresentato per tre anni la base di partenza dei bombardieri che attaccavano Malta e i convogli inglesi in transito nel Canale di Sicilia. Un obiettivo importante che l’11 luglio alle 15,40 venne attaccato da tre battaglioni della 45a che in poco tempo ebbero la meglio sulla difesa italo-tedesca. I soldati italiani e tedeschi furono fatti prigionieri e un gruppo (sul numero dei morti non c’è ancora certezza) venne fucilato. Pepi e Anfora hanno ricostruito con esattezza l’elenco dei reparti americani che hanno operato a Comiso e i nomi degli ufficiali che li comandavano.

I due ricercatori hanno inoltre raccolto numerose testimonianze sull’omicidio del podestà di Acate, Giuseppe Mangano, del figlio Valerio e del fratello Ernesto. Emblematica quella di Maria Scuderi che all’epoca dei fatti aveva 19 anni e abitava a Vittoria; nella sua casa fecero irruzione il 10 luglio gli americani trascinando le donne della famiglia Mangano mentre gli uomini venivano fatti stendere sulla strada. Vide gli americani portare via i Mangano e il giorno dopo fu tra le prime a sapere che erano stati uccisi in contrada Terripupi. Valerio probabilmente ucciso da un colpo di baionetta, Giuseppe ed Ernesto fucilati ma dell’ultimo non venne mai ritrovato il corpo.

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Ultima modifica di Marcus il Gio Lug 04, 2013 1:48 pm, modificato 2 volte in totale
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MessaggioInviato: Mer Lug 03, 2013 7:50 pm    Oggetto:  
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Qui siamo al bis della giornata delle Foibe. Che da espediente elettorale si è trasformata nel giorno della santificazione della resistenza. Con il solito stereotipo.
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"La mistica appunto precisa questi valori...nella loro attualità politica...e dimostra l'universalità di luogo e di tempo del Fascismo"(Giani)
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MessaggioInviato: Gio Lug 04, 2013 7:58 pm    Oggetto:  
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...un'altro tassello si aggiunge al mosaico che compone la tragedia dell'invasione degli Alleati anglo-americani della Sicilia nel 1943. Lentamente ma inesorabilmente va sgretolandosi il muro di falsità, omertà e complicità che la repubblica antifascista succube dei vincitori di ieri aveva eretto per nascondere i fatti in questione. Dopo quello di Gela, apprendiamo che un altro settore della "Sbarco", quello di Licata, fu protagonista della morte di centinaia di soldati, italiani, tedeschi e americani e di un cospicuo numero di civili.


QUEI CIVILI MORTI CHE QUALCUNO VOLEVA CANCELLARE

3 luglio 2013

NON ho cercato i 78 civili caduti durante lo sbarco alleato nel settore di Licata. Non li ho cercati perché non sapevo che esistessero. Di loro non c' era memoria collettiva perché dimenticati. E tali sarebbero rimasti per sempre se non avessi iniziato - sul finire dell' anno 2000 - a raccogliere le testimonianze dei licatesi che assistettero all' operazione Husky, la notte del 10 luglio 1943 quando la guerra arrivò dal mare talmente coperto di navi da sembrare "ncurdunati" mentre una marea di soldati americani - 27.000 fanti della III Divisione di fanteria del generale Truscott e della II corazzata - si riversava sulle quattro spiagge prima, nella città dopo. Un evento che nell' immaginario collettivo non aveva lasciato sul campo né vittime tra la popolazione civile - al massimo una o due - e neppure tra i militari. In realtà nel cimitero degli Americani, costruito alla periferia della città, furono sepolti i 173 fanti americani, oltre 123 italiani e 40 tedeschi caduti nel settore Joss (Licata). Quattrocentoquattordici vittime sparite nel nulla. Una rimozione collettiva controversa che però ha cominciato ad incrinarsi man mano che raccoglievo le testimonianzee si andava delineando una nuova realtà dello sbarco, non più indolore, non festa, fatta di soldati americani che lanciavano caramelle, cioccolati, scatolette e chewing-gum mentre la gente applaudiva, quanto piuttosto un evento storico complesso dentro cui guardare con maggiore lucidità. Non avevo cercato le vittime, le ho trovate dentro racconti scarni ed essenziali, ricordi cristallizzati dove improvvisamente tra lembi di dolore cupo o stupore raggrumato riemergevano, dopo circa sessant' anni nella loro nitidezza, i 73 civili caduti. Così per i fratelli Farruggio, Domenico e Salvatore, 14 e dodici anni, uccisi dai Rangers nella loro "roba" addossata alla collina che guarda al mare; così per Gerlando Peruga, soldato in licenza, caduto per la giubba militare che la mamma gli aveva messo addosso per ripararlo dai morsi della tramontana nella notte in cui il mare era illuminato come per la festa di Sant' Angelo e invece vomitava soldati e cannonate; o l' uomo colpito da una granata arrivata dal mare, Vincenzo Porrello, rimasto tra le braccia della moglie inebetita dietro un filagno di fichidindia, inutile barriera al mare divenuto cattivo; o così per Angela, la bimba Peritore, che la mamma stringeva al petto e la sentiva calda «Nenti ni ficimu» esclamava dopo lo scoppio della bomba, mentre la bimba aveva il ventre squarciato; e fu così per i fratelli Nicaso: uno morto, uno rimasto cieco e un altro che ha convissuto con schegge nel corpo per una bomba a mano lanciata nel rifugio. Tante storie riemerse, tanti nomi di caduti che avrei dovuto affidare alla memoria storica dopo la necessaria verifica sui documenti. Ed è stato a questo punto che ho iniziato a cercare le vittime. Le ho cercate dentro carte ingiallite, registri polverosi, nomi siglati in bella grafia con inchiostro nero. E non le ho trovate. Ho trovato altro: i loro nomi c' erano, erano regolarmente registrati ma questi erano deceduti nella propria civile abitazione per causa naturale, gli altri erano morti sul campo di battaglia. Delle due versioni quale era la vera? A chi credere: alle carte o ai parenti? Non potendo e non volendo arrendermi, ho continuato a cercare riscontri sino a quando non ho trovato l' ultima spiaggia: effettuare un' ulteriore verifica sulle cartelle degli eliminati che ogni comune compila prima di cancellare i nomi dei deceduti dagli elenchi generali. E qui finalmente, sul retro di una cartella rosa, usurata, ho trovato la registrazione di morte con la dicitura: per fatti bellici. Adesso in Piazza della Vittoria, di fronte alla lapide bronzea che ricorda lo sbarco della VII Armata Usa, su una pietra eretta a imperitura memoria sono scolpiti i nomi dei 78 civili caduti. Ma Licata ha davvero voglia di ricordare?

CARMELA ZANGARA

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MessaggioInviato: Dom Lug 07, 2013 11:36 am    Oggetto:  
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...tra le stragi dimenticate commesse dai cosiddetti "liberatori" vi sono quelle taciute per decenni dalla repubblica delle banane antifascista poiché dovute ai bombardamenti a tappeto compiuti dai "buoni" anglo-americani per annichilire e spezzare definitivamente il morale della popolazione civile italiana, la Sicilia nel 1943 ebbe anche il triste primato di sperimentare per prima in Europa questa tattica. Per tutti vogliamo ricordare, nonostante vi siano stati episodi più gravi con bilanci in vittime civili più numerosi (bombardamento britannico dell'11 maggio 1943 su Marsala con oltre 1000 morti), quello che colpì Palermo il 9 maggio 1943. Lo scarno bollettino di guerra n° 1080 del giorno successivo riporta al riguardo che...

Palermo, Marsala, Messina, Reggio Calabria, Licata e Pantelleria so­no state bombardate da massicce formazioni di quadrimotori che provocavano danni ingenti in Palermo, di minor rilievo nelle altre località. In corso di accertamento il numero delle vittime. Ventuno degli apparecchi incursori risultano abbattuti: 8 dai no­stri cacciatori, 7 dalla caccia germanica e 6 dalle batterie contraeree.

...ma i contorni della tragedia di quella triste giornata sono stati ben descritti di recente in un testo dedicato appositamente a tale argomento.


Le bombe del 9 maggio 1943 che distrussero Palermo

Il 9 maggio di settant'anni fa 222 bombardieri angloamericani scaricarono 1.114 ordigni da 227 chili: volavano troppo alto per la contraerea e fu il disastro

di AMELIA CRISANTINO


L'importanza del porto di Palermo durante la seconda guerra mondiale fu tragicamente chiara a tutti i suoi abitanti. Frequenti attacchi britannici avevano mirato a interrompere il flusso di rifornimenti alle forze dell'Asse in Africa, mentre i tedeschi organizzavano una rete di sorveglianza antiaerea coordinata dalla postazione sul Monte Pellegrino. Di solito i bombardieri provenivano da Malta, passavano sopra Isola delle Femmine; si dirigevano poi su Sferracavallo e Mondello, seguivano la rotta di attacco in direzione dell'Arenella e colpivano il porto. Però la vicinanza della montagna e le correnti d'aria avevano sempre impedito che i Cantieri navali fossero seriamente danneggiati. E poiché non c'erano altri punti d'interesse strategico, con qualche disagio la città aveva continuato la sua vita. Ma nel 1943 ogni residua minima sicurezza s'era dissolta.

Quell'anno la guerra stringeva la sua morsa. Gli Alleati erano sbarcati in Africa, avevano deciso di terrorizzare le popolazioni nemiche per indurle a pressare sul governo e chiedere la resa: l'aviazione americana applica quindi la tecnica del "bombardamento a tappeto", e in virtù della sua importanza strategica la Sicilia diventa la prima regione a sperimentarne gli effetti devastanti.

A Palermo si intensificano i bombardamenti sul porto a cui si aggiungono le strade e la ferrovia, il macello comunale, i mulini. Si prepara lo sbarco Alleato e i Boeing B-17 Flying Fortress, le "Fortezze volanti", hanno cominciato la loro opera di demolizione. In "Bombe su Palermo" - un libro molto dettagliato di Alessandro Bellomo e Clara Picciotto - è ricostruito il crescendo degli avvenimenti: il 3 febbraio una formazione di trenta bombardieri colpisce il porto, ma anche piazza Magione e corso dei Mille sino ad arrivare a Villabate. Il bilancio è di 98 morti e 297 feriti.

Il 1° marzo, in pieno giorno, due formazioni per complessivi trentasei bombardieri di nuovo attaccano il porto e l'entroterra urbano. Novantaquattro tonnellate di bombe vengono scaricate sulla città, fra gli edifici danneggiati ci sono il portico meridionale della Cattedrale, l'Albergo delle Povere di corso Calatafimi, il complesso monumentale di via Cappuccini. Il 22 marzo è la volta di ventiquattro bombardieri, ognuno sgancia dodici bombe sempre a cominciare dal porto. Stavolta l'acqua sollevata da un'esplosione allaga un rifugio antiaereo sul molo, dove s'erano rifugiati gli operai della Compagnia portuale: 24 morti.

La chiesa del SS. Salvatore, la Biblioteca nazionale, l'ospedale di San Saverio all'Albergheria vengono seriamente danneggiati la notte fra il 4 e il 5 aprile. Il rifugio di via Monte Pellegrino è centrato il 15 aprile, i morti sono 92. L'indomani, ventidue Fortezze volanti provenienti dall'Algeria bombardano i quartieri attorno al porto anche con ordigni al fosforo, che causano l'incendio e il crollo del primo piano dell'Archivio di Stato.

Il 17 aprile altra incursione: 48 bombardieri lanciano 1.200 bombe per un totale di 130 tonnellate di esplosivi che devastano corso Vittorio Emanuele e via Cavour, la contraerea italo-tedesca abbatte quattro Fortezze volanti. Il 18 aprile altra incursione: bombe dirompenti e spezzoni incendiari colpiscono soprattutto gli scali ferroviari di Brancaccio e piazza Ucciardone, il deposito dei tram. Le comunicazioni risultano paralizzate.

Dopo i bombardamenti del 18 aprile ci sono giorni di tregua. A Palermo viene assegnata una simbolica "medaglia di mutilata", la cerimonia è fissata per il 9 maggio a piazza Bologni. Ma sin dal mattino Radio Londra - la radio degli Alleati - invita la popolazione a disertare la cerimonia preannunciando una grande incursione aerea. Centinaia di bombardieri preparano l'apocalisse, che presto arriva.

L'attacco Anglo-americano evita Capo Zafferano dov'è concentrata la difesa antiaerea, si presenta da Termini Imerese: alle 11 una formazione di caccia bimotori bombarda l'aeroporto di Boccadifalco, mettendo fuori combattimento i settanta aerei parcheggiati sulla pista. Alle 12,35 arrivano le Fortezze volanti: il primo gruppo è composto da 222 bombardieri, provengono dall'Algeria e sono armati con bombe da 500 libbre (227 chili); li scortano 118 caccia pesanti. Seguono altri 90 bombardieri che portano ordigni da 300 libbre (136 chili), sono scortati da 60 caccia bimotore. La contraerea reagisce, spara senza interruzione. Ma i bombardieri volano troppo in alto, vengono intercettati solo sulla via del ritorno: dopo che con 1.114 bombe da 500 libbre e altre 456 da 300 libbre hanno distrutto la città.

Palermo sperimenta il primo bombardamento a tappeto avvenuto in Italia. Nessuno dei suoi quartieri viene risparmiato, il tessuto monumentale è ridotto in macerie che riprendevano a bruciare anche dopo spente: effetto di ordigni incendiari come le bombe al fosforo. Nell'elenco stilato dai Vigili del fuoco e dalla Soprintendenza ai Beni culturali i nomi degli edifici distrutti disegnano il profilo di una città martoriata. E la notte dello stesso 9 maggio la città torna a essere colpita da 23 bimotori Wellington: gettano 76 ordigni esplosivi fra cui due bombe Hc (High capacity) da 4.000 libbre (1.814 chili), che non penetrano al suolo ma risultano micidiali per distruggere le zone edificate.

Il bilancio ufficiale delle vittime del 9 maggio accerta "solo" 373 nomi: un numero relativamente basso, perché gran parte della popolazione è "sfollata" fra paesi e campagne. Palermo è ridotta una città in macerie, senza vie di comunicazione. È allo sbando. Diventerà facile preda per sciacalli d'ogni genere, che a lungo avrebbero continuato a martoriarla. Ma questa è un'altra storia. Settant'anni dopo la memoria di quel giorno ritorna con la consegna alla città di un ritrovato rifugio anti aereo sito sotto la scuola Madre Teresa di Calcutta di via Maqueda.

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MessaggioInviato: Mar Ago 12, 2014 10:34 am    Oggetto:  
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…una testimonianza interessante sulla presenza in Sicilia dei famigerati Goumiers marocchini, utilizzati dalle truppe statunitensi come truppe di montagna, ma tristemente più noti per i loro crimini a danno delle popolazioni civili italiane:

Capizzi 1943: cronache di un massacro
di Antonino Teramo


Nel 1960, alla proiezione del film La ciociara diretto da Vittorio de Sica e ispirato dall’omonimo romanzo di Moravia, il pubblico rimase turbato dalla scena in cui la protagonista, interpretata da Sofia Loren, e la figlia venivano stuprate da soldati marocchini al seguito degli alleati. Si trattava purtroppo di uno spaccato realista dell’Italia del 1943, quando a margine dell’avanzata Anglo-americana, già carica del dramma della guerra, si verificarono una serie di fatti di estrema violenza a danno della popolazione civile. Comunemente si ritiene che queste violenze siano scoppiate dopo il 14 maggio del 1944 subito dopo la battaglia di Montecassino, quando in effetti il fenomeno divenne di una tale diffusione che la gestione divenne problematica tanto da rappresentare un vero problema diplomatico per gli Alleati. Il papa Pio XII informato, chiese ed ottenne dal presidente degli Sati Uniti Roosevelt e da de Gaulle che addirittura i soldati marocchini venissero allontanati dall’Italia. Sebbene questi fatti avessero segnato in modo indelebile la memoria della popolazione, e nonostante nel dopoguerra si sentisse l’eco di qualche voce che si sollevava dal mondo politico[1], non fu mai resa giustizia alle vittime ed alla verità dei fatti.

Tra le pieghe della Storia però si nascondono altri tristi avvenimenti, messi da parte e trascurati. Eppure ricercare la verità dei fatti può essere utile per comprendere come in quegli anni non sempre la distinzione tra bene e male fosse netta; per capire come le vicende siano molto più complicate di come in genere vengono raccontate; per ricordare e non perdere la memoria e per poter finalmente rimarginare ferite rimaste aperte. Il tragico fenomeno raccontato ebbe inizio in Sicilia nell’Agosto del 1943 e vide nei Nebrodi un luogo di particolare tensione. Ma è bene ricostruire con ordine quei fatti.

L’ operazione Husky[2], così come è stato chiamato il piano di invasione della Sicilia, era iniziata la notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943. Il piano prevedeva lo sbarco dell’Armata Americana sulla costa meridionale della Sicilia e proseguendo verso est nella costa settentrionale si sarebbe dovuta incontrare con l’Armata Inglese, a sua volta sbarcata sulla costa sud-orientale. L’obiettivo di entrambe le armate era quello di aggirare il nemico e giungere a Messina per poter così impedire alle forze italotedesche di poter varcare lo stretto riparando verso il continente. Le manovre delle due Armate subito dopo lo sbarco spinsero le truppe italotedesche, compresse verso la Sicilia nordorientale, a pianificare una fase di contenimento con lo scopo di evitare l’aggiramento e l’accerchiamento del nemico e soprattutto consentire alle forze militari presenti sull’Isola di essere trasferite sul continente. Ci fu quindi una reazione all’invasione che di fatto fu una ritirata ben strutturata e ben pianificata dal punto di vista strategico. Si crearono così, in opposizione agli Alleati, più linee interne di difesa terrestre per una resistenza ad oltranza che permettesse di volta in volta lo sganciamento periodico di truppe e mezzi in direzione dello Stretto, per essere traghettate in Calabria. La prima necessità per tale operazione difensiva era quella di muovere tutti i reparti e raggrupparli all’interno delle aree della Sicilia che per le caratteristiche morfologiche si prestavano più facilmente alla difesa, cioè le Madonie, i Nebrodi, il massiccio dell’Etna con la piana di Catania ed in un secondo tempo anche i monti Peloritani. La scelta di siti in prevalenza montuosi comportava dei vantaggi difensivi in quanto spesso l’attaccante non poteva utilizzare in quei luoghi la fanteria corrazzata. Vennero così a formarsi delle linee campali che andarono a tagliare la cuspide orientale della Sicilia e che in modo ordinato opposero resistenza all’avanzata degli Alleati permettendo di volta in volta il ripiegamento italo-tedesco verso lo Stretto. Fu così che il fronte della Seconda Guerra mondiale giunse anche nei Nebrodi. A partire dal 21 luglio 1943 si era formata la linea difensiva che da ovest ad est si attestava tra S.Stefano di Camastra, Mistretta, Nicosia, Assoro, Agira, Regalbuto, Centuripe, Catenanuova, Muglia, Simeto. Diversi eventi bellici si susseguirono fino a quando il progressivo arretramento del fronte porterà il conflitto nel cuore dei Nebrodi prima sulla cosiddetta linea di San Fratello e poi sulla linea di Tortorici.

Il generale statunitense Patton, durante la preparazione dello sbarco in Sicilia nel giugno 1943[3], aveva chiesto di unire alla propria armata un battaglione marocchino in rappresentanza dell’esercito francese, che sarebbe rimasto in Africa per riorganizzarsi. Fu così che il generale francese Giraud mise a disposizione il 4° Tabor comandato dal capitano Verlet. Si trattava di un reparto che rispecchiava la struttura tribale (goum) ed era composto dai contingenti 66°, 67° e 68° aventi come effettivi 58 francesi, per la maggior parte ufficiali e sottoufficiali, 832 marocchini, principalmente goumiers (soldati semplici) e 241 animali tra cavalli e muli. Fornito di armi americane il Tabor fu fatto sbarcare il 13 luglio a Licata. Non è difficile seguire il percorso dei marocchini al seguito della 3^ armata americana, incaricati di rastrellare le montagne da Agrigento a Palermo: Naro, Canicattì, Mussomeli e Lercara Friddi, nodo stradale molto importante affinché gli americani giungessero a Palermo. Da questa località e dopo aver partecipato ai combattimenti, il Tabor fu dirottato verso Resuttano e Alimena per essere unito alla 1^ divisione americana che avanzava verso Nicosia e Troina. Da questo momento in poi le battaglie si fecero più dure perché l’avanzata degli alleati fu ostacolata dal piano messo a punto dai tedeschi che, come visto pocanzi, avevano organizzato delle linee difensive allo scopo di permettere un ripiegamento ordinato e sicuro delle forze dell’Asse verso la Calabria.

La linea di Caronia – San Fratello- ovest di Cesarò – Troina – Adrano – Biancavilla – Acireale aveva come caposaldo principale Troina. Gli americani, dopo aver occupato Nicosia, si fermarono sulle colline che si affacciano sul fiume Cerami per riorganizzarsi dopo la lunga marcia da Gela a Licata. Nell’offensiva studiata dal generale Allen il 4°Tabor avrebbe dovuto, assieme al 18° Reggimento, spostarsi verso Capizzi per poi proseguire e tagliare la SS120 al di là di Troina. Pertanto i marocchini da Gangi il 27 luglio iniziarono a spostarsi per le difficili vie di campagna per occupare il monte Sambughetti che domina la strada Nicosia-Mistretta-Santo Stefano di Camastra. Gli italiani del 5° reggimento fanteria Aosta si ritiravano quindi verso Capizzi subendo numerose perdite e colpendo con una vivace resistenza il 66° goum che ebbe una quindicina di uomini fuori combattimento. Il 30 luglio il Tabor continuò verso Capizzi combattendo assieme al 18° reggimento americano. Il 31 luglio tutti i reggimenti ripresero l’avanzata occupando Cerami ma nei giorni successivi i movimenti delle truppe furono bloccati dalla reazione dei soldati dell’Asse con le loro artiglierie. In più punti i fanti americani furono costretti a retrocedere facendo temere il ritorno dei tedeschi su posizioni lasciate giorni prima. Le perdite degli Alleati furono numerose, specialmente a causa delle artiglierie posizionate ad ovest di Cesarò. Il 66° goum non riuscì ad attraversare il fiume Troina e rimase isolato senza notizie tanto che il capitano Verlet mandò un ufficiale al comando stanziato a Cerami per avere istruzioni. In quei momenti accadeva un fatto che segnò l’opinione pubblica statunitense: il generale Patton, notevolmente innervosito dalla battuta di arresto delle forze sotto il suo comando, girando nelle immediate retrovie, schiaffeggiò, colpì col frustino e con una pedata un soldato apparentemente sano che chiedeva di essere visitato in un ospedale da campo presso Nicosia. Il fatto, portato all’attenzione pubblica dalla stampa americana, suscitò l’intervento del presidente americano Eisenhower che invitò il generale Patton a fare pubbliche scuse al soldato. Il successivo tentativo del generale Allen di aggirare l’ostacolo Troina fu bloccato dalle artiglierie italiane e tedesche. In particolare il 3 agosto un contrattacco italiano costrinse alla ritirata alcuni plotoni del 67° goum e il 68° goum a sua volta dovette indietreggiare. A questo punto il generale tedesco Hube ritenne fosse giunto il momento di rispettare la tattica di ripiegamento e quindi giudicò maturati i tempi di abbandono del forte caposaldo di Troina. Anche gli italiani sotto gli ordini del tenente colonnello Gianquinto, comandante del I battaglione del 5° reggimento fanteria Aosta, eseguirono la stessa operazione di ripiegamento dei tedeschi. Il 6 agosto così gli americani poterono entrare a Troina.

Mentre i combattimenti continuavano a impegnare la prima linea, a Capizzi invece si verificava una singolare guerra privata tra marocchini e capitini. I goumiers erano facilmente riconoscibili dal loro vestiario, indossavano infatti un ampio camicione, il cosiddetto barracano, e portavano i capelli intrecciati e unti. Il loro aspetto esaltato era accompagnato dall’eco del loro comportamento e la fama delle loro imprese aveva di gran lunga preceduto il loro arrivo a Capizzi, creando ansia e preoccupazione nella popolazione.

Involontariamente gli stessi americani contribuirono ad alimentare la paura invitando la popolazione a ritirare prudentemente le famiglie dalla campagna per evitare facili aggressioni, come quella avvenuta in contrada Ruscina dove due donne erano state violentate. L’accampamento dei marocchini a Capizzi era al Piano della Fiera e a M.Rosso, molti civili erano stati fermati all’ingresso del paese e alleggeriti di portafogli, orologi e oggetti d’oro, agendo alcune volte anche con violenza. Caso esemplare fu l’episodio di un furto di orecchini, tolti con forza dalle orecchie di una donna, fatto che costò caro ad un marocchino che per ordine di un ufficiale fu legato alla coda di un cavallo poi lanciato al galoppo. I marocchini allo stesso modo si distinguevano anche per le ruberie galline e pecore.

I capitini dopo un primo momento di sgomento iniziarono a reagire: alcuni goumiers vennero bastonati, ad altri venne invece mostrata una corda per intimorirli, temevano infatti la morte per impiccagione che, secondo le loro credenze, avrebbe impedito alla loro anima di giungere in paradiso. Molti vennero impiccati o uccisi a colpi di accetta. In contrada Salice due goumiers furono impiccati e lasciati a penzolare su due alberi. Vicino a Spezzagallo altri due furono uccisi a colpi di accetta perché sorpresi a rubare. Altri morirono in contrada Mercadante uccisi da contadini adirati per dopo aver visto foraggiare i cavalli con i covoni di frumento. Due cadaveri furono rinvenuti in un casotto all’Addolorata. Un altro invece fu trovato morto dopo alcuni mesi, con ancora indosso il suo caratteristico costume, in un pagliaio di Pardo. E’ probabile che altri ancora abbiano trovato la morte nelle campagne.

Finalmente, dopo la caduta di Troina il Tabor riprese la sua marcia a protezione dei fanti del 60° reggimento. L’11 agosto il Tabor superò i monti Pelato e Camolato, tagliò la strada Cesarò-San Fratello per poi, attraverso Monte Soro e Serra del Re, superare l’altra strada Randazzo-Capo d’Orlando. Dopo l’occupazione di Messina, avvenuta il 17 agosto, il Tabor fu tenuto fuori dalla città e il 23 ottobre fu rimpatriato col suo carico di elogi e di gloria conferitagli dai generali alleati.

I fatti di Capizzi meritano ancora oggi di essere ricordati perché rappresentano una ferita forse ancora aperta e in questo senso non si può tacere l’attività di chi negli ultimi decenni ha provato a tener viva la memoria. In particolare degno di esser ricordato in questa sede è il decano dei giornalisti messinesi, il prof. Carmelo Garofalo, che in più occasioni ha ricordato nei suoi articoli le “marocchinate” nei Nebrodi, insegnando come la memoria sia un patrimonio di cui non ci si può privare, anche quando riporta alla conoscenza fatti spiacevoli che a volte molti preferiscono dimenticare col rischio, però, di perdere per sempre parte del proprio patrimonio culturale.

NOTE

[1] Cfr. Atti parlamentari – 37011 – Camera dei Deputati, “Seduta notturna di lunedì 7 aprile 1952″

[2] Per approfondire la ricostruzione dei fatti bellici, qui riportata in modo sintetico, si faccia riferimento a A.DONATO, “MESSINA OBIETTIVO STRATEGICO” Organizzazione difensiva ed eventi bellici 1940-43, EDAS, Messina 2009, pp.103-165.

[3] D’ora in poi per la ricostruzione degli avvenimenti sui Nebrodi si prenderà in considerazione L.ANELLO, 1943-1983 In margine all’operazione Huskj: Capizzi e le truppe marocchine nel 1943, in ARCHIVIO STORICO MESSINESE – 42, Società Messinese di Storia Patria, Messina 1983 pp. 155-165.


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MessaggioInviato: Ven Set 19, 2014 12:27 pm    Oggetto:  
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SICILIA 1943: SCOPERTA STRAGE AMERICANA DIMENTICATA

21 luglio 2014


A distanza di un anno dall’uscita del saggio storico “OBIETTIVO BISCARI”, che ha come sottotitolo “9-14 luglio 1943: dal ponte Dirillo all’aeroporto 504”, scritto da Stefano Pepi e Domenico Anfora, che nella prefazione il Tenente colonnello Giovanni Iacono ha definito “una pietra miliare nella ricostruzione storica della battaglia di Sicilia”; che è stato pubblicato dalla Casa Editrice Mursia; e che ha rimesso in campo il problema delle stragi di militari italiani da parte degli Americani nei primi giorni dello sbarco, i due Autori siciliani si sono messi alla ricerca delle tracce ormai perse dell’Aeroporto di Biscari a causa dell’avanzata della vegetazione spontanea e delle abbondanti precipitazioni nella provincia di Ragusa e di Catania riportando alla luce i luoghi delle stragi.

di Stefano Pepi

I militari italiani, che difendevano l’Aeroporto di Biscari, investiti dal fuoco dell’artiglieria dei soldati del 180° reggimento di fanteria degli Stati Uniti, non buttarono le armi né scapparono, sostenuti nella lotta ad oltranza da due batterie contraeree tedesche della Flak.Per diversi giorni i soldati americani dovettero attaccare le postazioni italiane, lasciando sul campo di battaglia un elevato numero di morti e di feriti. Il 14 Luglio 36 soldati italiani, che facevano parte della retroguardia che aveva consentito con la sua resistenza ai reparti di ritirarsi come da ordine del generale Maniscalco verso la strada Santo Pietro-Caltagirone, si arresero alla compagnia C del 180° reggimento di fanteria del capitano John T. Compton.Il capitano Compton fece fucilare subito sul posto i prigionieri italiani che si erano arresi.

Anche in contrada Ficuzza gli Americani della compagnia A del 180° reggimento di fanteria incontrarono una durissima difesa del territorio da parte degli italo-tedeschi e, quando i difensori si arresero, il sergente Horace T. West, incaricato, assieme ad altri militari americani, di scortare i prigionieri verso la città di Biscari, ordinò loro di togliersi gli abiti e le scarpe, li incolonnò e li fece camminare fino al torrente Ficuzza, dove li fece fuori a colpi di mitra. 37 furono i morti italiani, 4 quelli tedeschi. Si salvarono l’aviere Giuseppe Giannola e i mitraglieri Virgilio De Roit e Silvio Quaiotto, i quali denunciarono con dovizia di particolari quanto era successo.

Durante le ricerche condotte nel corso della stesura della loro opera, Stefano Pepi, Domenico Anfora e Giovanni Iacono, si sono imbattuti in una testimonianza che riportava un’altra esecuzione perpetrata sempre dagli Americani del 180° reggimento fanteria, che faceva parte della 45° divisione Americana. Supportati dallo storico di Acate, Antonio Cammarana , e dal Senatore Andrea Augello, che ha trovato i nomi di tre soldati della milizia fucilati assieme ad altri cinque, Pepi, Anfora e Iacono hanno intensificato le loro ricerche arrivando a concreti risultati.

Dalla testimonianza del signor Lo Bianco Luigi, contadino nei pressi dell’aeroporto di Biscari, che all’epoca dei fatti era un ragazzo di 15 anni, si è appurato che, nella strada tra l’aeroporto di Biscari e Caltagirone, in contrada Saracena, 8 soldati italiani, tra cui 3 camice nere appartenenti alla 19° batteria da 76/40 del 31° gruppo di stanza all’aeroporto di Biscari, furono fucilati dagli Americani. I nomi delle camice nere, ritrovati dal Senatore Andrea Augello, sono: Luigi POGGIO nato a Genova il 21.06.1905, Angelo MAISANO nato a Messina il 30.09.1891 e il Vice Capo squadra Colombo TABARRINI nato a Foligno nel 1895. Il signor Lo Bianco precisa che i militi vennero fatti allineare lungo il muro di cinta di Villa Cona e fucilati.

Pepi, Anfora e Iacono, approfondendo inoltre la lettura dei verbali della Corte Marziale Americana riguardanti i procedimenti del sergente West e del Capitano Compton, sono risaliti alla testimonianza del reverendo LT Colonnello William E. King , colui che denunciò per primo le stragi di Biscari al Comando americano. Dichiara il reverendo LT Colonnello King: “ Alle 13 .00 del 15 Luglio 1943, mentre mi stavo recando al posto di Comando del 180° Reggimento di fanteria, a circa 2 Km a sud di Caltagirone , sul punto di coordinate 457454, ho osservato una fila di corpi stesi vicino al ciglio della strada principale in un piccolo vicolo, che confluisce sulla strada principale da est”. Il reverendo King continua con queste parole: “Quando tornai dalla linea del fronte, mi fermai nel posto già citato e osservai con attenzione i corpi che avevo visto andando al fronte. C’erano 8 corpi di Italiani che erano stesi in fila, 6 a faccia in giù e 2 a faccia in su. Erano stati fucilati esattamente nello stesso modo di quelli osservati a sud dell’Aeroporto di Biscari, tranne che questi non erano stati fucilati alla testa e che parecchi corpi avevano più di una ferita alla schiena e al petto”. La descrizione minuziosa del luogo fatta dal Reverendo King e le coordinate contenute nel verbale inquadrano la scena di questo crimine in un incrocio della via Giombattista Fanales ,angolo strada Aeroporto di Biscari- Caltagirone.

La differenza tra i corpi notati dal cappellano, LT Colonnello King, e quelli riportati dal sig. Lo Bianco è minima: il Colonnello King parla di 8 corpi, il sig. Lo Bianco dichiara che i corpi sono 7; e che le località indicate sono molto vicine, lungo la strada Aeroporto di Biscari-Caltagirone, per cui potrebbe trattarsi dello stesso episodio, anche se non si può escludere che si tratti di 2 fucilazioni diverse. A questo punto potrebbe trovare convalida la testimonianza resa al dottor Michele Sinatra, ex direttore amministrativo dell’Ospedale Cannizzaro di Catania, nativo di Caltagirone e vissuto fin da bambino presso l’aeroporto di Biscari, dal signor Mineo Gesualdo, oggi defunto, che sosteneva che i fucilati della Milizia sopraindicati si trovavano insieme a 5 civili che vestivano di nero a causa di un lutto familiare, in contrada Saracena. Su questa ultima testimonianza la ricerca di riscontri è alle battute finali.

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MessaggioInviato: Lun Set 07, 2015 1:49 am    Oggetto:  
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MessaggioInviato: Gio Dic 08, 2016 12:24 am    Oggetto:  
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E' morto a 99 anni l'eroe silenzioso, il sopravvissuto "assassinato tre volte" che ha dedicato la vita a far conoscere la strage di Biscari, che ha lottato 50 anni contro la burocrazia e i servili leccaculo del vincitore che avrebbero voluto farlo tacere...

È sopravvissuto a tre fucilazioni dei soldati americani e ha combattuto per vedere riconosciuta la verità storica dello sbarco alleato in Sicilia, fatto di crimini e atrocità verso i nostri soldati. E dopo aver avuto anche la soddisfazione di essere premiato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che nel 2012 gli ha conferito l’onorificenza di ufficiale della Repubblica, Giuseppe Giannola, l’ultimo sopravvissuto dei militari italiani che combatterono nell’isola nel 1943, è morto a 99 anni nella sua Palermo. La storia dello sbarco in Sicilia a lungo è stata raccontata come l’epopea dei «vincitori»: le truppe alleate che dovevano liberare il Paese dal fascismo. Ma non ci fu nulla di particolarmente eroico in quella operazione. Come raccontato recentemente in un libro del senatore Andrea Augello «Uccidete gli italiani» che ha indagato proprio su quelle vicende, gli atti di eroismo furono invece tutti dalla parte dei soldati italiani e di piccoli gruppi di tedeschi.

Furono loro che si immolarono davanti a un avversario superiore per numero, mezzi e armi. E furono loro che, fedeli agli ordini che avevano avuto, combatterono per difendere metro dopo metro le loro postazioni. Chi non venne ucciso in battaglia fu brutalmente fucilato. Perché l’ordine impartito dal generale George Patton era stato chiarissimo: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!».
Giuseppe Giannola era un aviere palermitano in servizio nell'aeroporto di Ponte Olivo, nella piana tra Caltagirone e Acate. Insieme ai suoi compagni riuscì a tenere in scacco le truppe americane che attaccavano la zona per due giorni. Poi, finite le munizioni, non rimase loro altra scelta che arrendersi. A quel punto, spogliati delle divise, il gruppo fu incolonnato e affidato al sergente Horace West con 7 militari. Durante il tragitto si aggiunsero altri 37 prigionieri di cui 2 tedeschi. Dopo circa un chilometro di marcia furono obbligati a fermarsi e disporsi su due file parallele mentre West, imbracciato un fucile mitragliatore, aprì il fuoco compiendo il massacro. Al centro della prima fila c’era proprio Giuseppe Giannola che fu l'unico superstite. Lui stesso, in una relazione inviata nel 1947 al Comando Aeronautica della Sicilia, raccontò quello che era successo: «Fummo avviati nelle vicinanze di Piano Stella ove fummo poi raggiunti da un altro contingente di prigionieri italiani del Regio esercito, e questi ultimi in numero circa di 34. Tutti fummo schierati per due di fronte. Un sottufficiale americano, mentre altri 7 ci puntavano con il fucile per non farci muovere, col fucile mitragliatore sparò a falciare i circa 50 militari che si trovavano schierati. Il dichiarante rimasto ferito al braccio destro rimase per circa due ore e mezzo sotto i cadaveri, per sfuggire ad altra scarica di fucileria, dato che i militari anglo-americani rimasero sul posto molto tempo per finire di colpire quelli rimasti feriti e agonizzanti».
Giannola, quando pensò che gli americani fossero andati via, alzò la testa nel tentativo di allontanarsi, ma da lontano qualcuno gli sparò con un fucile colpendolo di striscio alla testa. Cadde e si finse di nuovo morto. Restò immobile per circa mezz’ora fin quando, strisciando carponi, raggiunse un grosso albero. Vide degli americani con la croce rossa al braccio e si avvicinò. Gli fu tamponata la ferita al polso e alla testa e gli fu fatto capire che da lì a poco sarebbe arrivata un’ambulanza che l’avrebbe trasportato al vicino ospedale da campo. Poco dopo vide avvicinarsi una jeep e fece segno di fermarsi. Scesero due soldati e uno di loro gli chiese se fosse italiano. L’aviere rispose di sì e il militare gli sparò un colpo di pistola al collo. Poi risalì sull’auto e se ne andò. Ma la fortuna fu ancora una volta dalla sua parte perché poco dopo arrivò l’ambulanza che lo raccolse trasportandolo all’ospedale da campo di Scoglitti. Due giorni dopo fu imbarcato su una nave e portato all’ospedale inglese di Biserta ed altri del Nord Africa. Rientrò in Italia il 18 marzo 1944 e fu ricoverato all’ospedale militare di Giovinazzo.
Da allora il suo unico pensiero fu quello di far emergere la verità di quel terribile conflitto. E iniziò presentando, nel 1947, al Comando Aeronautica della Sicilia un resoconto di quanto accaduto. Racconto che rimase inascoltato. Da allora Giannola ha continuato a combattere la sua battaglia fino a quando, assistito dal figlio Riccardo, raccontò tutto al procuratore militare di Padova che aveva aperto un fascicolo per la storia di un altro sopravvissuto alle fucilazioni dei soldati americani. Nel settembre 2009 fu ricevuto al Quirinale dal Generale Mosca Moschini, Consigliere Militare del Presidente della Repubblica, al quale consegnò una lettera appello nella quale chiedeva che si facesse di tutto per individuare il luogo dove furono seppelliti i suoi commilitoni, per restituire l’onore a chi combattè quella «sporca guerra», cancellandoli dall’elenco dei dispersi o, peggio ancora, dei disertori.
E la sua testardaggine è stata finalmente premiata il 14 luglio del 2012 quando, a Santo Pietro, è stata inaugurata una targa di marmo che ricorda i nomi di tutti i soldati italiani uccisi nella strage. Compresi i quattro tedeschi. L’ultima «soddisfazione» è stata quella onorificenza al merito concessa da Giorgio Napolitano. Da quel giorno Giuseppe Giannola sapeva di poter finalmente morire tranquillo.

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