Marcus Cittadino Fascista-Gruppo ADMIN


Età: 50 Registrato: 02/04/06 11:27 Messaggi: 2613 Località: Palermo
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Inviato: Mer Ott 23, 2013 12:09 pm Oggetto: Proletariato e Aristocrazia nel Fascismo! Descrizione: |
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Proletariato e aristocrazia
Sarebbe ridicolo pensare di creare uno Stato corporativo sindacalista, uno Stato in cui il lavoro cessa di esser una merce per assumere il ruolo di soggetto dell'economia, uno Stato collettivo e totalitario mirante a portare non solo (giuridicamente ma concretamente, cioè nella cultura, nella morale, nel costume, ecc.) le classi e categorie proletarie sullo stesso piano delle classi e categorie intellettuali o detentrici degli strumenti della produzione semplicemente dispensando delle nozioni elementari di cultura alle classi e categorie operaie e contadine, o indirizzando loro predicozzi moralistici, o fondando biblioteche o università popolari o varando, di quando in quando, qualche leggina in difesa del lavoro. Questo era il metodo democratico che si affissava come a ideale sublime e massimo nel miraggio di costituire classi e masse evolute e coscienti; un piatto, generico, diffuso sapere; una livellata umanità di cuori teneri e buoni sempre sognanti pace, abbracciamenti universali, dolcezze di paradisi pieni di terrestre felicità. Oggi nel mondo democratico, troppo spesso, solo formalmente gli uomini sono eguali, liberi e sovrani e al di sotto a questa proclamazione idealistica continua l'ineguaglianza economica anche piú disumana, la miseria velata di beneficienza, la disoccupazione, l'oppressione e spesso il dominio e predominio del piú ricco, reputato anche il migliore. Il mondo culturale democratico è, troppo spesso, astrattezza, insincerità, falso idealismo. E’ un regno da anima delicata. E’ un mondo inconsistente e aereo che dà l'impressione di un paesaggio visto attraverso la nebbia ove non vedi contorni netti, limiti, ostacoli, precise e dure realtà, gerarchie certe di forme. Purtroppo questo metodo non è solo un metodo politico: è, troppo spesso, un costume di vita e germina nell'anima di chi troppo spesso ti rammenta «che siamo tutti uguali», di chi non fa, in concreto, differenza fra il cretino l'intelligente il laborioso e l'ozioso, di chi trova che nel mondo tutto è fatto nel miglior dei modi possibili o che, comunque, andrà sempre così, di chi vuole la quiete e la comodità ad ogni costo, di chi vive pacato e placato, con una faccia sempre euforica e guarda con certo compatimento la tua volontà di vita, tesa e costruttrice; i tuoi propositi di navigare, la tua consapevole indignazione contro il male, l'ingiustizia, l'errore; la tua misurata e contenuta passione in una storica e realistica idealità rivoluzionaria. Questo metodo di vita, non è chi non veda, come sia congeniale proprio di classi e uomini ben pasciuti e sicuri, tutti chiusi, in concreto, in un cerchio di egoismi e di personalismi ripugnanti, e tutti presi in astratto con piú o meno illusione di sincerità nel giro di formule idealistiche: la religione, il dovere, la patria, l'arte, l'umanità, l'ideale, ecc. Diciamo, dunque, che è semplicemente anacronistico pensare di porre alle basi di uno Stato effettivamente collettivo, basato sul lavoro e sulla gerarchia, questo metodo politico e morale democratico e borghese.
Per realizzare il suo Stato, che dovrà essere realtà esemplare, realisticamente il Fascismo ha portato il suo atteggiamento rivoluzionario nel mondo della economia, ha ricondotto questo mondo nell'ambito della autorità dello Stato; Stato il quale anziché essere la longa manus della classe capitalistica (come dovrebbe essere ogni Stato secondo il marxismo) si è palesato come decisa autorità rivoluzionaria, animata da una storica e perciò nazionale volontà di potenza, tesa concretamente, verso una definita idealità di giustizia sociale. La proprietà e il capitale, pur riconosciuti nella loro insostituibile iniziale funzione privatistica, sono stati, però, decisamente piegati a una netta funzionalità sociale. Il capitalista deve, per forza, smettere di essere il cavaliere dalla triste figura per riconoscere, al di sopra di sé, volente o nolente, una autorità che lo trascende e lo limita: l'autorità di quella collettività nazionale che si esprime e si anima nello Stato. Le masse lavoratrici devono smettere di credere che fra loro e i datori di lavoro ci siano solo ed esclusivamente interessi fatalmente contrastanti e antagonistici. Al di sopra degli uni e degli altri si impone una concreta collettività storica, una vera unità economica, politica, morale, in cui solamente essi vivono e si svolgono: la Nazione, lo Stato. Sarebbe ingenuo credere che tutto sia stato fatto: la via però è stata chiaramente indicata e un nuovo costume politico e morale si afferma e sempre piú si deve affermare. Però, siccome le classi e categorie detentrici dei mezzi di produzione e della ricchezza, o delle funzioni intellettuali sono su un piano di favore e di privilegio, (qui si arrestò la civiltà demo-liberale) è verso le classi e categorie del lavoro manuale, è verso il proletariato che punta il nuovo Stato totalitario. Intanto riconosciamo che di diritto e di fatto il proletariato è stato messo su uno stesso piano con le classi e categorie datrici di lavoro, sia nella corporazione sia nel sindacato. Però non illudiamoci; questo fatto implica tal rivolgimento, in profondità, nella vita sociale che è semplicistico credere si sia pervenuti a un punto di arrivo. Non per nulla il Duce ammonì: la rivoluzione continua. E, invero, la nuova posizione delle classi e categorie del lavoro manuale nella corporazione, nel sindacato, nella fabbrica, nella vita morale e politica, postula una preparazione umana, tecnica e politica, una formazione aristocratica, una volontà di potenza anche (vorrei dire soprattutto) nel proletariato che è ben lungi dall'essere come dovrebbe.
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C'era un magnifico tramonto: una contadina zappava nell'orto vicino alla sua cascina. Io ed una amica ammiravamo con lieto e calmo stupore quel miracolo di cielo: la contadina zappava incurante. Mi chiedeva la donna fine e intelligente: perché la contadina non sente la bellezza della natura e del cielo? E io: prova a zappare, a lottare contro la terra dura e il cielo spesso inclemente, dall'alba al tramonto, e poi mi saprai dire se nella tua anima potrà vivere con gioiosa pienezza il sentimento e il desiderio della bellezza della natura e del cielo. Morale della favola breve: certi superiori beni della vita, l'arte, la cultura, i sensi di finezza, ecc. ecc., esigono che l'uomo non sia imbestiato dalla dura fatica e non viva nell'ansia continua per la conquista del pane. Solo quando si sarà assicurato alle classi e categorie del lavoro manuale un minimum di dignità di lavoro sicuro e umano sarà possibile un completo dispiegamento della loro umanità potenziale. Però non si esageri: se il proletariato non è la classe-Messia, come voleva Marx, non è neppure tutta umanità imbestiata dal lavoro manuale faticoso e spesso doloroso, e tutta negata ai superiori valori dello spirito. E, invero, è proprio il clima duro, pervaso da un realistico pessimismo in cui il proletariato vive che stimola in esso i più forti e piú vivi ad aspirare a volontà di potenza, di cultura, di finezza. Non per nulla, invero, il proletariato è sempre stato la piú sicura matrice di aristocrazie. Ed è verità questa che prima di Marx, con ben altro senso umano e politico, insegnò il nostro Gioberti.
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Lo stato corporativo non è solo una realtà in atto; è anche idealità da conquistare nel costume, nella morale, nella cultura. Questa idealità si profila, così: eliminare gli estremi delle antiumane ricchezze e delle antiumane miserie; avvicinare le classi e le categorie, attenuar sempre piú i vincoli di casta e di classe onde si concreti piú intimamente il vincolo sociale della nazione-Stato e si esprima la persona nella sua individuale potenza creatrice; porre il lavoro manuale e intellettuale, il lavoro nella sua piena fenomenologia morale come metro essenziale per misurare la dignità concreta ed effettiva degli uomini come la fonte vera della gerarchia e della aristocrazia. Chi medita sulla profondità rivoluzionaria di queste concrete idealità sente subito che per riuscire a calarle nella realtà, bisogna prima di tutto annullare, con un lavorìo profondo e diuturno, quel costume, quella morale e quella cultura che è frutto della cadente civiltà demoliberale. E non può certo, essere opera di un giorno. Una rivoluzione che voglia essere civiltà non può, invero, solo enunciare l'idea rivoluzionaria: deve svilupparla, dispiegarla, farla circolare, rinnovatrice, in tutto il cosmo della vita civile. Anzi la realtà e fecondità di una rivoluzione sta proprio nello sviluppo e nel dispiegamento dell'idea rivoluzionaria. E verità questa che vale in riferimento alla civiltà, come alla filosofia e all'arte, ecc. Vico non realizzò il suo sistema filosofico solo con la mera enunciazione della sua idea centrale, come Beethoven non scrisse le sue sinfonie solo con la nuda enunciazione dei motivi tematici fondamentali.
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Una rivoluzione che sia veramente iniziatrice di vita nuova non si fa senza miti. Il mito della rivoluzione fascista, nato dalla necessità dei tempi, dall'esigenza piú profonda del proletariato ed espressa dal Duce è quello della piú alta giustizia sociale nell'ambito di quella collettività che è la Nazione-Stato. Orbene, guai a sentire questo mito come un'idea astratta, il frutto di un pensamento individuale ed arbitrario! Esso è invece un'idea-forza, un mito proprio per il suo rispondere alle piú costruttive e umane necessità ed esigenze del tempo nostro. Ora, bisogna che soprattutto il proletariato senta questa idea come la sua idea-forza, il suo mito; bisogna che il proletariato, sotto il pungolo forte delle più intelligenti e disinteressate élites, lavori sempre piú, viva piú virilmente ed aggressivamente, studi, pensi, conquisti sempre piú con la patria, anche lo Stato. Anche lo Stato invero non è solo un essere ma anche una idealità, una coscienza del passato e una volontà di avvenire, e conquistare lo Stato significa acquistare, col lavoro, possibilità concrete di essere qualcuno, di vivere la vita come uomo non come servo, di esplicare anche funzioni di comando. Conquistare lo Stato vuol anche dire mirare a farsi creatori piú che spettatori della vita; conquistare capacità, dignità, potenza. La piú alta giustizia sociale sentita come mito, non autorizza dunque il proletariato ad aspettare tutto dallo Stato, ma anche a muovere incontro allo Stato non per abbatterlo ma per renderlo sempre piú forte e piú umano e piú vivo. Lo Stato, in questo modo, non è piú lo Stato camorrista e classista, ma è il vero e concreto Stato-popolo: e il proletariato può sentire che anch'esso è nello Stato e nella storia, può sentire anche nella realtà quotidiana più prosaica che la legge che si fa, la guerra che si combatte, ecc., ecc., è anche la sua legge, è anche la sua guerra. E’ sordo il popolo a questo mito e a questo metodo di vita?
Quando si sappia agitare l'anima autentica del popolo e incendiarla delle migliori idealità, non è vero affatto. Fate, invero, che al popolo parli Corridoni, Rossoni, Mussolini e il popolo risponderà. E’ compito, perciò, di quelli che si sentono e sono le migliori aristocrazie di popolo di agitare nel popolo il nuovo mito fascista della piú alta giustizia sociale. E non si tratta certamente solo di fare dei discorsi nelle piazze. Il che è il meno che si possa fare.
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Si è parlato altrove di pedagogia politica. Qualche sapientone ha sorriso. Dunque esiste anche una pedagogia politica ? Mettete, con fervore, in atto questa fedele (perché non imborghesita) aristocrazia di popolo con questa finalità di formazione di aristocrazia proletaria ed avrete un esempio tangibile (uno fra mille) di pedagogia politica vivente.
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Qualche santone della saggezza e della cultura mi sorride ancora davanti: «Dunque tutti felici, tutti possidenti, tutti aristocratici, tutti Stato». Risposta: niente affatto, signor Santone! Noi amiamo le dure e precise realtà, piú che gli idealismi fumosi e piú che la vostra saggezza e cultura, da cui Dio ci scampi e liberi. Il clima di questo nuovo Stato corporativo, in cui il proletariato entra per la prima volta sul serio nello Stato per la porta d'ingresso e non piú per la porta di servizio è clima duro, anche per gli imbecilli, non se l'abbia a male, anche per lei signor Santone. Lo Stato corporativo mira certo a realizzare, in quanto ha in sé l'anima della migliore democrazia, l'autogoverno economico delle classi e categorie. Ma l'assoluto autogoverno economico e politico per quanto un processo di democratizzazione dello Stato possa andare unito a un processo di aristocratizzazione degli uomini, categorie e classi e specie del proletariato, sarà sempre di là da venire. Al disopra delle masse, che, fino a un certo punto, sono sempre strumento piú che creatrici di storia, si erigerà, sempre autoritaria e demiurgica l'opera delle aristocrazie e l'autorità dello Stato. E l'aristocrazia e l'autorità dello Stato vivrà nella sua maggiore pienezza sempre e soltanto in pochi, in minoranze virili. Comunque, nella realtà rivoluzionaria dello Stato corporativo anche l'idea di popolo deve necessariamente mutare: popolo non può piú essere, con un irrazionale segno di inferiorità, colui che esplica una funzione manuale, ma, in qualsiasi modo, colui che non si è saputo elevare, con la sua capacità, moralità, e lavoro, su un piano di aristocrazia.
(Roberto Mazzetti,“Proletariato e aristocrazia”, Meridiani Editrice, Bologna 1936, pp. 49-56; citato in R. De Felice, “Autobiografia del Fascismo”, Torino, 2001 e 2004, pp. 342 – 346) _________________ " Forse che non conoscendo a fondo il pensiero del Duce si può affermare di essere fascisti? Noi diciamo di no! Che il fascismo non è istinto ma educazione e perciò è conoscenza della sua mistica,che è conoscenza di Mussolini" (N. Giani) |
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