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Piazza Fontana

 
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Marcus
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MessaggioInviato: Ven Nov 01, 2013 12:08 pm    Oggetto:  
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...un equivoco che anche noi sul IlCovo denunciamo da sempre, sia rispetto a questo episodio criminale che ai tanti altri che hanno insanguinato la storia indegna della criminale "repubblica delle banane antifascista" !

Fine di un equivoco

Carcere di Opera, 10 ottobre 2013

Era scritto. Il Tribunale di Milano ha ufficialmente sancito la mancanza di volontà dei suoi magistrati di trovare la verità sulla strage del 12 dicembre 1969 all’interno della Banca dell’Agricoltura di Milano, a piazza Fontana.
Negli anni ’70, Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini cercarono una verità solo parziale e, soprattutto, politicamente comoda per il regime.
Ricevuti gli atti processuali dal giudice di Treviso Giancarlo Stiz che indicavano in Franco Freda e Giovanni Ventura due dei responsabili del massacro, esclusero a priori la responsabilità del finto anarchico Pietro Valpreda e, con essa, quella del finto anarchico Mario Merlino, per concentrarsi esclusivamente sulla “cellula nera” di Padova senza riuscire a comprendere che la contiguità di questa città con Venezia non era solo geografica.
I due seppero prosciogliere il vice capo della polizia, Elvio Catenacci, i responsabili degli uffici politici di Roma e di Milano, Bonaventura Provenza e Antonino Allegra, sostenendo che l’aver taciuto ai magistrati che le borse utilizzate per gli attentati erano state vendute a Padova, per quasi tre anni, rappresentava un fatto di “non rilevante gravità”.
Fu il procuratore della Repubblica, Aldo Fais, ad incriminare nel 1973 il responsabile dell’ufficio politico della Questura di Padova, Saverio Molino, per aver mantenuto segrete le intercettazioni telefoniche sull’utenza di Franco Freda che provavano l’acquisto da parte di quest’ultimo dei timer utilizzati per gli attentati.
Loro fecero altro: chiamarono a collaborare nelle indagini il direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero degli Interni, Umberto Federico D’Amato.
L’inchiesta passò, poi, a Catanzaro per giustificati motivi di ordine pubblico, con buona pace ai Gerardo D’Ambrosio che ancora oggi fa intendere che gli venne tolta perché lui stava per arrivare alla verità.
Negli anni Novanta, la procura della Repubblica di Milano rifiutò dapprima di collaborare alle indagini svolte dal giudice Guido Salvini perché, a suo avviso, la competenza era del Tribunale di Catanzaro e, infine, quando venne obbligata ad intervenire lo fece contro l’inchiesta, contro il giudice istruttore Guido Salvini, contro i suoi collaboratori, contro i testimoni che avevano la colpa di chiamare in causa per la strage gli “ordinovisti” veneti.
L’azione di contrasto sviluppata da Gerardo D’Ambrosio, Grazia Pradella e Felice Casson è di pubblico dominio, non serve qui richiamarla ma solo sottolinearne la gravità eccezionale sulla quale tutti hanno sorvolato-per ragioni politiche.
I processi ultimi sulla strage di piazza Fontana hanno visto come unico pubblico ministero convinto delle accuse che formulava contro gli “ordinovisti” veneti Massimo Meroni, non i suoi colleghi a cominciare da Grazia Pradella.
La conclusione delle indagini iniziate al termine dell’iter processuale, con la sentenza della Corte di cassazione del 3 maggio 2005, non poteva essere diversa da quella che è ora ufficialmente sancita dal giudice istruttore Fabrizio D’Arcangelo.
Non ci dispiace, anzi siamo lieti che si sia posto fine all’equivoco, nel quale tanti incorrono, di una magistratura impegnata a cercare la verità, di uno Stato che non lascia nulla d’intentato per trovarla, e cosi via blaterando.
Lo Stato – lo abbiamo sempre detto – si è sempre impegnato a negare la verità e non ha lasciato nulla d’intentato per raggiungere questo fine.
In una inchiesta come quella sulla strage di piazza Fontana, la logica processuale della ricerca delle prove sui singoli individui sospettati di aver preso parte all’esecuzione materiale del massacro, si ritorce contro coloro che hanno assecondato il gioco della procura della Repubblica di Milano, in buona fede ovviamente, credendo che le segnalazioni da loro fatte su questo o su quel testimone potessero modificare la decisione di chiudere il capitolo una volta per sempre.
Non è cosi.
Su un fatto politico di respiro nazionale ed internazionale, come l’operazione del 1969 conclusa con gli attentati del 12 dicembre a Roma e Milano, solo una decisione politica può obbligare la magistratura a cercare la verità, non circoscritta ai soli esecutori materiali.
Gli elementi per giungere all’affermazione della verità sul piano anche processuale, non solo storico, ci sono tutti, manca la volontà di riunirli insieme, di ricomporre il mosaico, di interrogare tutti i testimoni.
Bisogna avere le carte in regola per procedere ad un’inchiesta che sia degna di essere considerata come tale.
Il Tribunale di Milano, tolta l’eccezione rappresentata da Guido Salvini, non le ha perché storicamente nulla ha mai fatto per cercare ed affermare la verità.
Giancarlo Rognoni, ad esempio, è stato imputato per la strage di piazza Fontana, e poi assolto dall’accusa. Ma lo sarebbe stato se la procura della Repubblica avesse preso in considerazione che la fallita strage del 7 aprile 1973, per il quale è stato condannato con sentenza passata in giudicato, riproponeva alla lettera il piano preparato per il mese di dicembre del 1969, prima le stragi (a Roma e a Milano il 12 dicembre 1969), poi la manifestazione nazionale indetta dal Movimento sociale italiano a Roma il 14 dicembre?
In quella primavera del 1973, i congiurati della “Rosa dei venti” in cui è intruppato Giancarlo Rognoni, lo ripropongono pari pari: prima la strage, da attribuire questa volta a Lotta continua, il 7 aprile 1973, poi la manifestazione nazionale del Msi il 12 aprile 1973, questa volta a Milano con preventiva distribuzione di bombe a mano a un gruppo di fidati attivisti.
Nessuno, fino ad oggi, ha mai indagato sulla mancata strage del 7 aprile 1973, benché siano noti i legami fra Giancarlo Rognoni, Carlo Maria Maggi e il comando della divisione carabinieri “Pastrengo” di Milano.
Tutti fingono di credere che l’iniziativa di fare un massacro su treno, attribuendola ai “rossi”, quel 7 aprile 1973 sia partita dal solo Giancarlo Rognoni.
La magistratura milanese non ha compreso allora ché la strage del 7 aprile 1973 e la successiva manifestazione nazionale del Msi del 12 aprile, erano inseriti in un disegno politico organico che riproponeva perfino le modalità esecutive di quello iniziato nel 1969.
Neanche la strage di via Fatebenefratelli del 17 maggio 1973, che vede gli “ordinovisti” veneti agire a Milano, fa sorgere nei magistrati milanesi il dubbio che ci sia un collegamento fra Milano e Venezia.
Non la procura della Repubblica di Milano, non D’Ambrosio e colleghi hanno il merito di essere pervenuti al processo per la strage compiuta dal finto anarchico Gianfranco Bertoli il 17 maggio 1973 a Milano, per questo va ascritto al solo giudice istruttore Antonio Lombardi che per venti anni ha tenuto aperto il fascicolo nella matematica certezza che Bertoli non aveva agito da solo e non era anarchico.
Un disegno organico nel quale sono inseriti tre episodi di strage, due dei quali eseguiti ed uno organizzato a Milano, di cui non si trova traccia negli atti giudiziari della procura della Repubblica di Milano.
Oggi il giudice istruttore milanese, accoglie la richiesta dei pubblici ministeri Armando Spataro, Maurizio Romanelli e Grazia Pradella, e chiude l’inchiesta perché le indagini non possono durare all’infinito.
Riconosce, però, che risulta colpevole di concorso nella strage di piazza Fontana Carlo Digilio, riconosciuto come tale con sentenza del 30 giugno 2001 della Corte di assise di Milano.
Chi era Carlo Digilio?
“Sono un agente dello spionaggio figlio di un agente dello spionaggio”, dichiarò orgoglioso ai giudici all’inizio della sua parziale collaborazione con la “giustizia”.
Carlo Digilio, in effetti, era un informatore dei servizi segreti americani.
Franco Freda e Giovanni Ventura riconosciuti tardivamente colpevoli erano collegati al servizio segreto militare italiano e, uno a quello greco.
La “cellula nera” è prodotto della fantasia politico-giornalistico-giudiziaria, perché in realtà si tratta di indagare sull’operato dei servizi segreti americani, italiani, greci e così via, per i quali i tre colpevoli lavoravano.
Sopra i servizi segreti ci sono gli Stati maggiori delle Forze armate e i ministeri degli Interni, i quali dipendono dai rispettivi governi.
E qualcuno si attende, stando così le cose, che i giudici di Milano facciano un’indagine vera, seria, allargata agli ideatori ed agli organizzatori del eventi del dicembre 1969?
Questo potrebbe accadere in un Paese africano, non in Italia. Qui tutti vogliono vivere felici e contenti: Gerardo D’Ambrosio è stato senatore dell’ex Pci; Felice Casson è senatore ancora in carica dello stesso partito; lo stragista Franco Freda scrive articoli per “Libero”, gli altri proseguiranno nella loro grigia carriera con la sicurezza di essere esenti da critiche perché hanno fatto la cosa giusta per la politica, per i partiti, per le Forze armate, i servizi segreti italiani e stranieri, la Nato e via enumerando.
E per le vittime? Per i giudici del Tribunale di Milano vale il detto: “Chi muore giace, chi vive si dà pace”.
E loro in pace vivono e vogliono vivere.

Vincenzo Vinciguerra

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