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Uomo Nuovo e Idea Morale nel Fascismo secondo gli storici

 
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Marcus
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MessaggioInviato: Ven Ott 25, 2013 7:17 pm    Oggetto:  Uomo Nuovo e Idea Morale nel Fascismo secondo gli storici
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I brani che seguono descrivono sinteticamente, ancorché in modo efficace, una valutazione ampiamente diffusa nell’orientamento storiografico più recente di parte antifascista, rispetto alla questione dell’ “Uomo Nuovo” e della “Nuova Morale” che, ormai viene universalmente riconosciuto, costituivano aspetti essenziali nell’ ideologia del Regime mussoliniano.

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Di «uomo nuovo» si iniziò a parlare fin dall'avvento del fascismo al potere, con riferimento all'uomo nuovo per eccellenza, Benito Mussolini, «apparso sulla scena del mondo, per ricostruire la Grande Italia sui riconquistati valori» (cosi nella biografia a lui dedicata dallo scrittore Antonio Beltramelli, L'uomo nuovo, Milano 1923). Piú tardi e piú in generale, l'immagine e il mito dell'uomo nuovo divennero motivi ricorrenti nella politica culturale e educativa del regime fascista. Il nuovo italiano – L'Italiano di Mussolini, secondo il titolo di un romanzo del futurista Mario Carli (Milano 1930) - doveva distinguersi a vista, nel carattere e nello stile di vita, dal vecchio cittadino dell'Italia liberale. In un discorso del 22 giugno 1925, lo stesso Mussolini, annunciando la «feroce volontà totalitaria» del fascismo, espose ai quadri del IV congresso nazionale del Partito fascista il progetto di « fascistizzare la nazione, tanto che domani italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico siano la stessa cosa». Altrettanti temi che sarebbero stati infaticabilmente ripresi dalla pubblicistica e dalla letteratura fasciste. Secondo i dettami di un volumetto curato dal Pnf nel '29, La dottrina fascista per le reclute della III leva fascista, ricalcando virtù già care ai futuristi e agli arditi, si trattava di saper «vivere [...] pericolosamente», «sentire ripugnanza per la vita comoda e molle», «essere sempre pronti a osare», «sentire in ogni ora l'orgoglio d'essere italiani», lavorare con disciplina, rispettare l'autorità. Coraggio, forza, virilità, italianità caratterizzavano dunque il nuovo tipo dell'italiano fascista, per il quale avevano grande importanza anche le doti agonistiche e sportive, nonché quelle militari. Le qualità esattamente contrarie caratterizzavano invece il «tipo fisico anti-italiano», cioè antifascista, cosi descritto da Lando Ferretti - da presidente del Coni - in un discorso del 1926 (Esempi e idee per l'italiano nuovo, Roma 1930): «E il tipo di quei giovanotti che disprezzano la camicia nera, lo studio, lo sport, tutte le cose dove c'è da durar fatica, e preferiscono andare a spasso per le belle strade di Roma; che portano gli occhiali alla Harold Lloyd, i baffetti alla Menjou, che masticano gomma dolciastra e siedono, qualche volta, con aria stanca sui cuscini di una macchina americana». Così, il problema della creazione dell'italiano nuovo fini per sovrapporsi a quello della formazione di una nuova classe dirigente, che avrebbe dovuto garantire la sopravvivenza del fascismo nel tempo: un aspetto sul quale molto insistette, già nel corso degli anni venti, il Giuseppe Bottai di «Critica fascista», nella convinzione che per rendere la «rivoluzione» duratura fosse necessario trasformare la società e gli uomini, creando un nuovo stile di vita e un costume «italiano e fascista». A quest'opera dovevano dedicarsi la scuola e l'università fascistizzate. La scuola - come Mussolini affermò nel dicembre 1925, di fronte ai rappresentanti dei Gruppi universitari fascisti (GUF) - aveva il compito di educare i giovani nel clima creato dalla rivoluzione fascista e formare il nuovo «carattere italiano»: in questa direzione andarono i ritocchi alla riforma Gentile del 1923 e la progressiva opera di fascistizzazione delle strutture scolastiche e delle istituzioni culturali. Ma il compito di educare e di indottrinare le nuove leve di italiani in senso fascista fu riconosciuto di competenza prioritaria delle organizzazioni giovanili del regime, a cominciare dall'Opera nazionale balilla (ONB). Perciò i successivi segretari nazionali del Pnf tanto si dedicarono a esse, assicurando al partito il monopolio della formazione dei giovani dall'infanzia all'università: centrale nei loro programmi, l'educazione fisica e sportiva avrebbe contribuito a forgiare le donne e gli uomini nuovi, secondo l'adagio latino mens sana in corpore sano. Nel corso degli anni trenta, la questione dell'italiano nuovo e integralmente fascista acquisí una funzione sempre piú spiccata nella politica totalitaria del regime, e il Partito fascista divenne piú che mai lo strumento di inquadramento e di indottrinamento degli italiani, intervenendo in ogni momento della loro vita anche privata. Sotto la guida diretta di Mussolini, Achille Starace - segretario del Pnf dal 1931 al '39 — fu il principale artefice di questa operazione: attraverso innumerevoli disposizioni, a cominciare dall'obbligo delle divise e del saluto romano, dettò i codici di comportamento dell'uomo nuovo. Nel febbraio del '35, in una riunione del Gran Consiglio del febbraio 1935, Starace stesso vantò come la « struttura capillare» del Partito fascista fosse giunta «fino al limite estremo», «fino all'unità minima», vale a dire «fino al singolo»: obiettivo costante del Pnf era stato infatti la «creazione dell'Uomo, dell'italiano nuovo di Mussolini, capace di credere, di obbedire, di combattere». Il clima di guerra che si venne a instaurare in Italia già alla vigilia dell'impresa d'Etiopia contribuì a enfatizzare il carattere bellicoso dell'educazione fascista e a caratterizzare in senso antiborghese il processo di creazione dell'uomo nuovo: fu inaugurata allora la campagna polemica contro quello che Mussolini - in un articolo apparso su «Gerarchia» nel marzo 1934 e significativamente intitolato L'epoca delle camicie nere - definì lo «spirito borghese», consistente in uno stato d'animo «di soddisfazione e di adattamento», «di tendenza allo scetticismo, alla vita comoda, al carrierismo». Rilanciata da «Critica fascista», in un editoriale del marzo 1935 crudamente intitolato alla Bonifica spirituale della borghesia, la polemica contro i borghesi «panciafichisti» e «pantofolai» sarebbe rimasta un cavallo di battaglia dei periodici giovanili fascisti per il resto degli anni trenta. Sul terreno istituzionale, l'inquadramento della gioventù sotto il controllo del Pnf venne completato da Starace con l'istituzione, nel 1937, della Gioventù italiana del littorio (GIL): essa assorbiva l'Opera nazionale balilla e i Fasci giovanili di combattimento, con mandato statutario della «preparazione spirituale, sportiva e premilitare» dei giovani dai sei ai ventun anni. Due anni dopo, la Carta della scuola - fortemente voluta da Bottai, ministro dell'Educazione nazionale - si propose di completare la formazione dell'«uomo nuovo», «integralmente fascista», prefigurando la fusione di scuola, GIL e GUF in uno « strumento unitario di educazione fascista». Vi avrebbero contribuito i testi scolastici apparsi nel corso degli anni trenta, sempre piú impregnati di propaganda, e inoltre pubblicazioni del Pnf come Il primo libro del fascista e Il secondo libro del fascista (Milano 1937). Lo stringersi dell'alleanza politica e militare fra l'Italia di Mussolini e la Germania di Hitler spinse il regime a continuare la battaglia per la creazione dell'uomo fascista, in antitesi a quello borghese, con una piú spinta caratterizzazione classista e razzista. In un discorso al consiglio nazionale del Pnf del 25 ottobre 1938, Mussolini ribadì che la borghesia non era solo «una categoria economica», ma era soprattutto «una categoria morale», «una mentalità nettissimamente refrattaria alla mentalità fascista», e che come tale andava combattuta «con poderosi cazzotti nello stomaco». In tre modi il fascismo sferzava questi cazzotti: con l'istituzione del «passo romano di parata», con l'abolizione del «Lei», con l'introduzione del «principio razzista» attraverso opportune leggi razziali: che Mussolini riteneva «di importanza incalcolabile, perché, anche qui, eravamo dinnanzi a un complesso di inferiorità» ( Ndc. per un approfondimento tematico sull’idea di razza nel fascismo vedi voce del Dizionario di Politica del P.N.F. :
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). Una volta «identificato», lo spirito borghese andava «distrutto»: e questo - promise Mussolini - sarebbe avvenuto grazie all'Asse Roma-Berlino, che significava «la fine di tutte quelle ideologie, di tutte quelle tendenze» nelle quali ancora credeva la borghesia; grazie all'Asse, l'obiettivo dell'uomo nuovo si sarebbe amplificato in quello di una nuova civiltà e di un nuovo ordine europeo. Alla fine del decennio, la polemica antiborghese si intensificò su giornali e riviste: soprattutto sul «Popolo d'Italia» e su «Gerarchia», dove nel 1939 apparve una rubrica intitolata proprio «L'antiborghese». Né il mito e il progetto politico dell'uomo nuovo restarono confinati entro la sola dimensione maschile, poiché la stampa di regime non si stancava allora - come aveva preso a fare già negli anni venti - di sottolineare il ruolo della "donna nuova" fascista, intesa sia come moglie dell'uomo nuovo e madre degli italiani a venire, sia come militante nelle strutture del Pnf: una donna che la propaganda voleva forte e decisa, totalmente assorbita dal suo impegno, pienamente integrata nella trasformazione fascista della società.

(estratto da “Dizionario del Fascismo”, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, volume secondo, pp. 765 – 767)


…possiamo ora vedere in cosa consisteva l'«idea morale» sulla quale in questo periodo si fondava l'azione politica mussoliniana. Il nucleo centrale è presto detto. La civiltà occidentale, soprattutto quella europea, era ovunque in crisi: «in tutti i paesi regnano l'incertezza, l'inquietudine, il disagio morale che si aggiunge a quello materiale; popoli anche di antica civiltà sembrano senza guida e sono incerti sul loro destino». I grandi imperi europei o erano stati travolti dalla guerra '14-18 o erano in crisi e mancavano sostanzialmente dell'intima capacità di risalire la china, sia con i mezzi tradizionali' sia elaborando nuovi valori e nuovi sistemi di egemonia. «L'Europa non è piú il continente che dirige la civiltà umana. Questa è la constatazione drammatica che gli uomini che hanno il dovere di pensare debbono fare a se stessi e agli altri. C'è stato un tempo in cui l'Europa dominava politicamente, spiritualmente, economicamente il mondo... Ma oltre Atlantico si è sviluppata la grande impresa industriale e capitalistica. Nell'Estremo Oriente è il Giappone che... avanza a grandi tappe verso l'Occidente». L'economia, dilaniata dai contrasti tra capitale e lavoro e giunta alla fase del «supercapitalismo» («l'utopia dei consumi illimitati: l'ideale del supercapitalismo sarebbe la standardizzazione del genere umano dalla culla alla bara»), era ormai arrivata anch'essa — soprattutto dopo lo scoppio della «grande crisi» — ad un punto tale di crisi per cui non si poteva piú parlare di crisi nel sistema, ma di crisi del sistema: «la crisi è penetrata così profondamente nel sistema che è diventata una crisi del sistema». L'urbanesimo e la denatalità crescenti erano i sintomi più evidenti di questa crisi morale e materiale: «l'urbanesimo industriale porta alla sterilità le popolazioni;... tutte le nazioni e tutti gli imperi hanno sentito il morso della loro decadenza quando hanno visto diminuire il numero delle loro nascite; ... la popolazione è uno dei fattori della ricchezza nazionale, essa costituisce la forza fisica e reale dello Stato, essendo il numero degli abitanti la sola misura della potenza di uno Stato». A livello politico, infine, la crisi generale della civiltà occidentale aveva il suo corrispettivo in quella dei grandi sistemi ottocenteschi: il liberalismo, il socialismo, la democrazia. Sicché si poteva ben dire che l'Occidente era giunto alla vigilia di un nuovo ciclo della sua civiltà. Sempre per Mussolini, la crisi non era però giunta allo stesso stadio di gravità in tutti i paesi e — soprattutto — i paesi «piú giovani» dal punto di vista nazionale e pertanto piú poveri e piú abituati al sacrificio avevano ancora la possibilità non solo di contrastarle il passo, ma — forti delle loro giovani energie — di affermare la loro potenza vitale, la loro forza morale, il loro «imperio». In prima fila tra questi paesi «giovani» potenzialmente era l'Italia. Su di essa gravava però il peso di un lungo servaggio prima e, poi, di una serie di governi deboli ed inetti che per lungo tempo ne avevano fatto un paese «gesticolatore, chiacchierone, superficiale, carnevalesco», inconsapevole delle proprie potenzialità e del posto che avrebbe potuto avere nel mondo. La grande guerra prima e il fascismo dopo avevano scosso l'Italia dal suo torpore e le avevano aperto ed indicato una strada ed una meta. Il fascismo (e, su un terreno antitetico, il comunismo sovietico) era il grande fatto nuovo del xx secolo, la salvezza dell'Italia e, in sostanza, dell'Europa: «il fascismo è l'unica cosa nuova che i primi trent'anni di questo secolo abbiano visto nel campo politico e sociale»; «l'Italia fascista si affaccia al meriggio del xx secolo, come l'unica nazione che ha una parola ed una dottrina di salvezza e di vita da dare a tutti i popoli civili della terra ; ... noi siamo convinti che il fascismo sarà il tipo di civiltà europea e italiana di questo secolo».Se, da un lato, Mussolini credeva che il fascismo avesse aperto e indicato all'Italia una strada e una meta, da un altro lato, egli era però ormai convinto che gli italiani erano praticamente incapaci di percorrere quella strada e di raggiungere quella meta. A parte «gli angoli morti della vita nazionale» ancora da fascistizzare, gli italiani erano per Mussolini un popolo « dal troppo facile ottimismo, dalla negligenza che segue talvolta una troppo rapida ed eccessiva diligenza», facile a «lasciarsi ingannare dopo la prima prova», portato a «credere che tutto sia compiuto mentre non è ancora incominciato». Un popolo, insomma, che mancava del «carattere» necessario ad essere veramente fascista e a comportarsi fascisticamente. Tanto vero, che lo stesso partito fascista riproduceva nel suo interno quei limiti e quei difetti che erano del popolo. Da qui per Mussolini l'esigenza, la necessità, il dovere di chi invece si rendeva conto della posta in giuoco — di coloro che Spengler definiva gli «individui cesarei», cioè, in sostanza, del «duce» — di indurre il popolo italiano ad essere veramente fascista e a percorrere sino alla meta la strada che gli era stata aperta innanzi. E ad indurlo con tutti i mezzi che il fine giustificava, anche i piú estremi e coattivi; e senza frapporre indugi, poiché, da un lato, la crisi europea non ne consentiva e, da un altro lato, perché Mussolini (col suo tipico miscuglio di egocentrismo e di realismo) si rendeva conto — come disse a Ludwig — che «un duce numero due» non ci sarebbe stato e che, in ogni caso, «se venisse, l'Italia non lo sopporterebbe». Da questo complesso di convinzioni discendevano, infine, tutte quelle conclusioni che, in pratica, sostanziavano alla radice la prospettiva politica mussoliniana. Da un lato, si trattava, al solito, di « durare»; ad ogni costo, con ogni mezzo, consolidando il consenso con una politica che andasse « al popolo» (e che all'atto pratico era caratterizzata soprattutto dal tentativo di contenere i prezzi al minuto e la disoccupazione, in genere col ricorso all'impiego della mano d'opera nei lavori pubblici, e dallo sviluppo dell'assistenza sociale) e tenesse desto il mito carismatico del «duce». In questo senso, per valutare appieno l'atteggiamento psicologico e culturale di Mussolini e il suo tradursi in norma d'azione politica, estremamente significative sono le dichiarazioni dello stesso Mussolini a Ludwig sulle masse, i loro sentimenti e il loro «trattamento» da parte dell'uomo politico, ed è assai probabile che proprio di alcune di queste dichiarazioni, una volta stampate, egli si dovette pentire per essersele lasciate sfuggire di bocca.

La massa — disse a Ludwig — ama gli uomini forti. La massa per me non è altro che un gregge di pecore, finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che essa possa governarsi da sé. Ma se la si conduce, bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse. Chi si serve solo di uno dei due, corre pericolo. Il lato mistico e il politico si condizionano l'un l'altro. L'uno senza l'altro è arido, questo senza quello si disperde nel vento delle bandiere. Non posso pretendere dalla massa la vita incomoda: essa è solo per pochi ... Musiche e donne sono il lievito della folla e la rendono piú leggera. Il saluto romano, tutti i canti e le formule, le date e le commemorazioni, sono indispensabili per conservare il pathos ad un movimento. Così è già stato nell'antica Roma... Solo la fede smuove le montagne, non la ragione. Questa è uno strumento ma non può essere mai la forza motrice della massa. Oggi meno di prima. La gente ha oggi meno tempo di pensare. La disposizione dell'uomo moderno a credere è incredibile... Tutto dipende da ciò, dominare la massa come un artista.

Da un altro lato — fatte aderire le masse al «vangelo fascista», i due trinomi « autorità, ordine, giustizia» e «credere, obbedire, combattere » — si trattava, invece, di trasformare il popolo italiano, creando nuove generazioni, piú numerose, piú forti fisicamente e moralmente «fasciste», senza i limiti e i difetti di quelle sulle quali Mussolini aveva dovuto e doveva ancora fondare la sua azione. Questa, in definitiva, era la vera grande carta sulla quale Mussolini puntava a quest'epoca pressocchè tutte le sue speranze, con una convinzione, un impegno, un fanatismo che giungevano sino all'assurdo di pensare, di pretendere, di cambiare non solo il modo di vivere e di pensare degli italiani, ma persino il loro carattere. Nel novembre 1931, parlando al terzo congresso del sindacato fascista dei medici affermerà senza mezzi termini :

Io sono profondamente convinto che il nostro modo di mangiare, di vestire, di lavorare e di dormire, tutto il complesso delle nostre abitudini quotidiane, deve essere riformato. Bisogna fare agire gli elementi della natura sul nostro corpo; prima di tutto l'aria, il sole ed il movimento, se vogliamo veramente — secondo la immagine carducciana — scendere tra le grandi ombre, senza il petto meschino ed il polmone contratto.

E, coi corpi, voleva cambiare le menti e gli spiriti:

Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. E' una fatica grandiosa. Il Risorgimento non è stato che l'inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani.

Se fosse stato possibile, il vero ideale di Mussolini, come egli stesso aveva confessato sin dal '25, sarebbe stato quello di creare in laboratorio le nuove generazioni:

Portando nella vita tutto quello che sarebbe grave errore di confinare nella politica, noi creeremo, attraverso una opera di selezione ostinata e tenace, le nuove generazioni, e nelle nuove generazioni ognuno avrà un compito definito. A volte mi sorride l'idea delle generazioni di laboratorio, di creare cioè la classe dei guerrieri, che è sempre pronta a morire; la classe degli inventori, che persegue il segreto del mistero; la classe dei giudici; la classe dei grandi capitani di industria, dei grandi esploratori, dei grandi governatori. Ed è attraverso questa selezione metodica che si creano le grandi categorie, le quali a loro volta creano gli imperi.

(in R. De Felice, “Mussolini il duce – gli anni del consenso”, Torino, 1974 e 1996, pp. 47 – 51)

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" Forse che non conoscendo a fondo il pensiero del Duce si può affermare di essere fascisti? Noi diciamo di no! Che il fascismo non è istinto ma educazione e perciò è conoscenza della sua mistica,che è conoscenza di Mussolini" (N. Giani)
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