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SICILIA 1943: Crimini e stragi compiute dagli americani.
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Marcus
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MessaggioInviato: Dom Apr 09, 2006 11:31 am    Oggetto:  SICILIA 1943: Crimini e stragi compiute dagli americani.
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Ecco alcuni interessanti articoli usciti sul Corriere della Sera e riguardanti i misfatti mai raccontati dalla storiografia ufficiale e compiuti durante l'invasione della Sicilia attuata dai cosiddetti "liberatori" anglo-americani nell'estate del 1943.

Sicilia 1943, l’ordine di Patton ''Uccidete i prigionieri italiani''

I massacri dimenticati compiuti dai fanti americani tra il 12 e il 14 luglio. "Decine di morti"

"Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: "Chi vuole partecipare all’esecuzione?". Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani". "Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: "E’ meglio che non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia". Poi li ammazzò tutti". E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a Montreal sul tema "Dal massacro di Biscari a Guantanamo". E negli Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle corti marziali che giudicarono i "fucilatori di italiani". Perché - come risulta dagli atti di quei processi - i soldati americani si difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George Patton. "Ci era stato detto - dichiararono - che il generale non voleva prigionieri".

I FATTI -

Nessuno conosce il numero esatto di uomini dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali, con circa duecento morti. Di due, quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno ’43 la corte marziale Usa celebrò due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il plotone d’esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli atti del tribunale recitano: "Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi". Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi del ’43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi della New York University - il cui padre fu testimone oculare dell’eccidio - riportano il racconto di alcuni dei soldati americani presenti: "Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21 colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole".

L’ORDINE -

Ma gli atti dei processi per "i fatti di Biscari" accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più. Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i "Thunderbirds": reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono al processo: "Ci era stato detto che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale. "Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E’ finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!".

L’ORRORE -

Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la catasta dei corpi crivellati dal sergente West: "E’ una follia - gli dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in guerra per combattere queste brutalità non per fare queste porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo". King corre a cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: "Quando mi sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: "Padre, sei venuto per seppellirli?". "Cosa stai dicendo?", replicai io. Il caporale rispose: "Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri"". A quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare quegli uomini: "Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!". Altrettanto drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: "Venni fermato da due barellieri disarmati. Mi dissero: "Abbiamo due italiani feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli". Io gli urlai di curare quei soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare".

LA CONDANNA -

Fu proprio la volontà del cappellano King a far nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto all’ispettore dell’armata - figura simile ai nostri pubblici ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: "Omicidio volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37 prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un comportamento disdicevole". I fanti italiani - poco meno di 50 - erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al sergente con un ordine ritenuto "vago" dai giudici: allontanarli dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo. Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla corte, il sergente si difese invocando lo stress: "Sono stato quattro giorni in prima linea, senza mai dormire". Dichiarò di avere assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi, cosa che lo "aveva reso furioso in modo incontrollato". Il suo avvocato parlò di "infermità mentale temporanea". Infine, West disse ai giudici: "Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi". Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani - con cui era stato appena concluso l’armistizio - e il rischio di ritorsioni sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il vertice dell’esercito teme che la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al comando alleato di Caserta un "atto di clemenza" per West: "Non possiamo - è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 - permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani dalla violenza degli scontri". Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine agosto in Bretagna. Secondo altre, ha concluso la guerra indenne.

L’ASSOLUZIONE -

Invece il 23 ottobre ’43 il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E’ una mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in divisa e un altro in abiti "borghesi" che escono da una ridotta: sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde tempo: dice di ucciderli. Molti dei suoi si offrono volontari: sparano in 24, esplodendo centinaia di pallottole sul mucchio degli italiani. Il numero esatto delle vittime resta incerto ma l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per 36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che quegli italiani erano "sniper", termine traducibile come "cecchini" o "franchi tiratori", e quindi andavano fucilati: una linea difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton. "Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine di Patton - concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di un generale a tre stelle, con un’esperienza di combattimento, mi basta. E io l’ho eseguito alla lettera". Tutti i testimoni - tra cui diversi colonnelli - confermarono le frasi di Patton, quel terribile "se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali". Alcuni riferirono anche che Patton aveva detto: "Più ne prendiamo, più cibo ci serve. Meglio farne a meno". Compton fu assolto. Il responsabile dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello: "Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della giustizia - scrisse - che un ordine del genere doveva apparire illegale in modo lampante". Ma nel frattempo Cook era caduto al fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un precedente "riservato" anche per evitare che influisca sui processi ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni storici americani - assolutamente non sospettabili di revisionismo - ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul "massacro di Biscari" e le sue ripercussioni - il primo nel 1988 fu di James J. Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson - nel nostro Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un’iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate.

SECONDA PARTE

"I prigionieri italiani uccisi? Raccontate che erano cecchini" 1943: la ricostruzione delle stragi compiute in Sicilia dai soldati americani, il diario di Patton, i processi.

"Adesso alcuni ragazzi con i capelli ben pettinati stanno tentando di dire che ho ammazzato troppi prigionieri in Sicilia. Ma quelle stesse persone gioiscono per stragi di giapponesi ben più grandi. Più nemici ho eliminato, meno uomini ho perso: loro però non la pensano così". Sono le frasi con cui George Patton commenta sul suo diario l’apertura di un’inchiesta nei suoi confronti per le stragi di prigionieri italiani in Sicilia. Settantatré soldati, catturati durante la battaglia per l’aeroporto di San Pietro a Biscari (oggi Acate) e assassinati a sangue freddo. Dopo la denuncia di un cappellano, la corte marziale aveva condannato un sergente colpevole della morte di 37 italiani. E assolto un capitano che aveva dimostrato come l’ordine di non risparmiare chi alzava le mani fosse arrivato proprio dal comandante in capo dell’armata. In realtà dietro queste istruttorie si nascose una lotta di potere al vertice dei comandi alleati, con il generale a due stelle Omar Bradley impegnato a scavalcare il suo superiore. E si celò una ancora più complessa manovra per impedire la pubblicazione delle notizie sui massacri, rimaste infatti sostanzialmente inedite fino agli anni Ottanta. Tra il 12 e il 14 luglio ’43, nel corso dei feroci combattimenti per la conquista degli aeroporti intorno a Gela, gli americani avrebbero compiuto almeno cinque eccidi. Sui due nella zona di Comiso - circa 110 militari dell’Asse crivellati con una mitragliatrice - non venne aperta nessuna inchiesta. E questo nonostante Patton avesse promesso al giornalista-testimone Alexander Clifford di punire i responsabili. Ma su questo silenzio probabilmente ha pesato anche la presenza di Bradley nella zona delle esecuzioni. Invece delle raffiche esplose a freddo contro la folla che cercava di saccheggiare una fabbrica a Canicattì nessun generale venne informato. Diversa la storia di Biscari, perché Bradley fece di tutto per aprire l’inchiesta. "E’ venuto da me Bradley, un uomo fin troppo corretto , molto nervoso - ricorda Patton nel suo diario - per dirmi che un capitano ha preso sul serio il mio ordine di uccidere chi continuava a sparare anche quando eravamo a meno di 200 metri. Il capitano ha ammazzato quasi 50 prigionieri, a sangue freddo e raggruppandoli, cosa che costituisce un errore ancora più grande. Gli ho risposto che probabilmente era una notizia esagerata. Ma in ogni caso di dire al capitano di dichiarare che quegli uomini erano cecchini o avevano tentato di fuggire, perché c’è il rischio che finisca tutto sui giornali e i civili diventino furiosi. Comunque sia andata, sono morti e non c’è più nulla da fare". Il 9 agosto Bradley tornò alla carica: chiese a Patton di arrestare il sergente e il capitano sotto accusa. Ma il generale dedica poche righe nel suo diario a questo episodio, infervorandosi di più per la "scappatella" di tre italo-americani: "Bradley ha detto che sarebbe necessario far processare i due di Biscari. Poi mi ha raccontato che hanno trovato tre soldati americani di origine siciliana che avevano abbandonato i ranghi per andare dai loro parenti. Bastardi! Diserzione davanti al nemico, vorrei ammazzarli...". Pochi giorni dopo, di fronte all’inerzia del superiore, Bradley dispone personalmente la cattura dei fucilatori di Biscari. Proprio nelle stesse giornate, Patton viene sostanzialmente silurato. Nei film e nelle biografie più datate, la disgrazia del "generale d’acciaio" viene collegata allo scandalo dello "slapping": gli schiaffi e gli insulti antisemiti contro due soldati americani, ricoverati per "choc da bombardamento". Ma adesso alcuni storici cominciano ad avanzare l’ipotesi che la vicenda degli schiaffi sia stata usata anche per coprire il caso dei massacri di prigionieri. Una notizia, quest’ultima, che poteva avere effetti devastanti sull’opinione pubblica mondiale. Pur nell’esigenza di segretezza, la giustizia militare statunitense tentò di andare fino in fondo. Più volte nel giugno ’43 il magistrato responsabile per l’armata di Patton aveva chiesto al comandante di correggere il contenuto dei discorsi in cui invitava "a uccidere i nemici che alzano le mani a meno di 200 metri". Poi nel febbraio ’44 aveva trasmesso a Washington gli atti dei due processi per i massacri di Biscari, con le testimonianze sui discorsi del generale. L’interrogatorio del colonnello che guidava il reggimento delle stragi confermò le parole di Patton: "Avevo preso degli appunti. Ci disse: "Se continuano a spararvi addosso quando siete a 100-200 metri da loro, allora anche se cercano di arrendersi non lasciateli vivere"". Quelle stesse frasi che il colonnello urlò ai soldati dall’altoparlante delle navi mentre arrivavano sulle coste siciliane. E che spinse molti di loro a non prendere prigionieri. Il 4 aprile 1944, in piena preparazione dello sbarco in Normandia, l’ispettore generale del Ministero della Guerra arriva a Londra per interrogare Patton. "Io - replica Patton - volevo solo far capire che in un combattimento ravvicinato non bisogna fidarsi dei segnali di resa ma continuare a sparare finché non c’è la certezza che abbiano alzato le mani. Mio figlio è in un campo di concentramento tedesco: come potrei ordinare di uccidere i prigionieri?". Ma l’ispezione si chiude con un dossier segreto che evidenzia il peso delle frasi di Patton. "In almeno due discorsi ai suoi ufficiali ha detto: "se un figlio di p... vi spara mentre siete a 2-300 metri, allora uccidetelo". Non ha specificato di volere la morte dei prigionieri, ma non ha chiarito neanche il significato delle sue parole, trasmesse poi ai reparti". Il documento però non sollecita iniziative contro il generale. Mancano pochi giorni al D-Day e la disastrosa esperienza di Anzio sta convincendo Eisenhower a rimettere in gioco l’irruento condottiero. E soprattutto si vuole evitare lo scandalo: "Patton era troppo utile per lo sforzo bellico in quel momento - spiega al Corriere James Weingartner, il docente della Southwestern Illinois University autore nell’89 del primo studio completo su Biscari -. Inoltre la sua incriminazione avrebbe reso più difficile la tutela del segreto sulle atrocità". Secondo Carlo d’Este, ex ufficiale e storico americano, invece i crimini di Biscari vanno inquadrati nella situazione di quei giorni in cui spesso "anche italiani e tedeschi uccidevano chi si arrendeva". Cita le lettere del generale alla moglie, in cui ironizza: "Gli italiani che resistono sono grandi combattenti , hanno fatto lo scherzo della bandiera bianca quattro volte". Dal punto di vista formale, l’aiuto più forte a Patton arriva dal generale Everett Hughes, suo capocorso a West Point e stretto collaboratore di Eisenhower, che scrive al capo dell’ispettorato militare di Washington: "Sono convinto che non ha mai ordinato di eliminare i prigionieri. Sono convinto che sia un combattente che guarda alla realtà della guerra e fa quello che pochi nel nostro esercito hanno il coraggio di fare: parla apertamente di uccidere. George crede che il modo migliore di accorciare la guerra sia ammazzare quanti più tedeschi, il più in fretta possibile". Sotto le pallottole a Biscari, però, non caddero dei feroci nazisti ma soldati italiani, colpevoli solo di avere combattuto con decisione. E su questo aspetto le conclusioni del professor Stanley Hirshson - che ha realizzato la biografia più documentata e dissacrante sul "generale d’acciaio" - offrono una chiave di lettura ancora più inquietante. Dalla Sicilia alla Germania Patton avrebbe rovinato la sua carriera a causa dell’odio profondo verso italiani, ebrei e comunisti. Un odio nato nel 1912, quando l’industria tessile della madre fu rovinata da un lungo sciopero organizzato da sindacalisti socialisti ebrei: i lavoratori che incrociarono le braccia erano quasi tutti immigrati provenienti dal nostro Meridione. Il disprezzo emerge spesso nei diari del generale: "Gli italiani avranno paura di noi, i tedeschi no". Oppure: "Abbiamo catturato due generali, hanno detto di essere felici di trovarsi nelle nostre mani perché i siciliani non sono esseri umani ma degli animali". Ma Carlo D’Este, scrittore americano dalle indubbie origini, è tra chi non condivide questa impostazione. Una valutazione basata in particolare sul discorso al cardinale di Palermo: "Gli italiani hanno combattuto con la forza della disperazione. Sono sorpreso dalla loro stupidità e dal loro coraggio: stupidi perché lottano per una causa persa, valorosi perché italiani".

Gianluca Di Feo

Fonte:Corriere della Sera 23/24.06.04


STORIA: OMBRE DI MORTE NELLO SBARCO DEL '43 IN SICILIA

(ANSA) - PALERMO, 25 (ANSA) - PALERMO, 23 GIU 2004 - GIU - Luci e ombre dello sbarco degli alleati in Sicilia. Ancora oggi, a distanza di oltre 60 anni, riaffiora nella memoria di chi ha visto e non ha mai dimenticato una delle pagine piu' oscure della storia dello sbarco alleato: i massacri commessi nel 1943 dalle truppe americane agli ordini del generale Patton, ricostruiti in un servizio pubblicato dal Corriere della Sera Giuseppe Ciriacono, maresciallo dei carabinieri in pensione, aveva 13 anni quando si compi', sotto i suoi occhi, una delle stragi piu' efferate: l' eccidio di Biscari. Cinque civili caddero sotto i colpi dei mitra dei soldati americani, a pochi metri dal ragazzo che vide quella scena terribile. Era il 13 luglio. Il giorno successivo, secondo le ricostruzioni di alcuni studiosi, gli alleati uccisero altri otto civili e 84 militari, 81 italiani e tre tedeschi. L' unico testimone oculare della strage oggi ha 74 anni e vive ad Acate, la citta' in provincia di Ragusa che un tempo si chiamava Biscari. Sono passati tanti anni, ma il film di quella strage e' rimasto impresso in modo indelebile nella sua mente. ''Gli americani - racconta il pensionato - arrivarono nel nostro rifugio e ci prelevarono, trasferendoci a 400 metri dalla casa, vicino ad una casetta rurale abbandonata e ci fecero sedere sotto un grande albero di gelso. Dopo poco tempo arrivarono altri militari che circondarono la casa e la tennero sotto il tiro dei mitragliatori''. Giuseppe Ciriacono ancora oggi ricorda con una lucidita' straordinaria le ultime parole del dialogo fra il padre, che aveva il suo stesso nome, proprietario del podere 26 e fiduciario del Fascio, e Giovanni Ciurciullo, un agricoltore della vicina Vittoria. ''Ciurciullo - ricostruisce l' ex carabiniere - disse di avere la sensazione che gli americani li avrebbero fucilati e mio padre condivise la sua impressione''. I due uomini intuirono, dunque, cosa stava per accadere. Qualche minuto dopo ci fu il massacro: gli alleati fecero radunare i coloni e li fucilarono. Le vittime, oltre a Giuseppe Ciriacono, furono Salvatore Sentina e Giuseppe Alba, due agricoltori di Caltagirone, Giovanni Curciullo e il figlio Sebastiano, di soli 14 anni. Il piccolo Giuseppe, unico testimone oculare, scampo' all' eccidio, forse per la sua giovane eta'. ''Un soldato americano mi prese per il colletto - ricorda - e mi fece capire con i gesti che dovevo allontanarmi. Dopo aver percorso venti metri senti' una raffica di mitra, mi voltai e vidi il corpo di mio padre e dei suoi sventurati compagni, a terra senza vita. Non saprei dire perche' decisero di graziarmi e uccisero invece il povero Sebastiano, che era appena piu' grande di me''. Giuseppe, dopo essere stato affidato ad alcuni soldati americani, torno' ad Acate e diede l' allarme. Ma nessuno sembro' credere a quel ragazzino. Il testimone della strage all' inizio non ebbe neppure il coraggio di riferire al fratello che il padre era stato ucciso. Poi, fra le lacrime, si libero' del suo fardello, raccontando tutto alla madre. I familiari si recarono con Giuseppe nel luogo dove i coloni erano stati trucidati e li' trovarono i corpi, gia' in avanzato stato di decomposizione. A vegliare i cadaveri c' era anche uno dei cani del padre del ragazzo. ''Le urla dei miei familiari - ricorda ancora il pensionato sopravvissuto all' eccidio - attirarono gli americani che giunti sul posto fecero brillare alcune mine e nel cratere che era stato provocato dallo scoppio seppellirono i coloni''.
(ANSA). Y3P-KQN - 25/06/2004 09:31



“SICILIA 1943, SETTE SOLDATI USA INDAGATI PER I MASSACRI”

“L’istruttoria della Repubblica militare di Padova dopo l’inchiesta del “Corriere della Sera” e un’altra fonte italiana ricorda: anche a Butera ci arrendemmo e loro spararono”. I nomi: i militari USA indagati per l’uccisione nel ’43 di 73 prigionieri e 8 civili: capitano John Compton, tenente Richard Blanks, sergenti Jim Hair e Jank Wilson, soldati John Gazzetti, Raymond Marlow e John Carrol. Tutto quanto sopra si legge a pag 13 del “Corriere della Sera” del 31 ottobre scorso in un articolo a firma di Gianluca di Feo. C’è anche un secondo piccolo “incorniciato” in cui e detto: “Nuovo caso superstite. Bruno Vagnetti ha descritto la vicenda della sua squadra catturata dagli americani a Butera nel luglio del ’43. <<Dopo 700 metri ci spararono alle spalle, Un commilitone morì subito, in tre restammo a terra feriti” . Ed ecco, per intero, il testo dell’articolo di Gianluca Di Feo:
«Gli americani ci sorpresero alle pendici di Butera mentre stavamo caricando il nostro cannone su un camion. Erano le tre di notte del 13 luglio 1943: un bengala illuminò tutto a giorno e loro ci puntarono contro i mitra. Uno ci urlò in dialetto siciliano: "Alzate le mani. Venite accà". Noi obbedimmo. Ci fecero camminare per settecento metri. Poi cominciarono a spararci addosso con i mitra. Io fui centrato nello stomaco, ma sono sopravvissuto». Bruno Vagnetti oggi ha 82 anni: vive a Perugia e non riesce a dimenticare quella notte. E la sua testimonianza va ad allungare l'elenco degli eccidi contro prigionieri e civili compiuti dai militari statunitensi nei primi giorni dello sbarco in Sicilia. Lo scorso giugno, il Corriere ne rivelò cinque. Adesso la lista nera si è allungata e comprende almeno nove differenti episodi. Portano quasi tutti la firma della 45esima Divisione, mentre la vicenda descritta da Vignoni probabilmente è stata opera dei Ranger che espugnarono Butera. Su questi fatti vuole fare luce la Procura militare di Padova, che sta cercando di ricostruire la mappa dell’orrore. Il procuratore Sergio Dini ha identificato e iscritto nel registro degli indagati sette americani che presero parte alle esecuzioni. Ora l'Interpol dovrà accertare se sono ancora in vita: in tal caso, risponderanno della morte di 36 artiglieri, 37 'avieri e otto contadini. Ma la lista rischia di essere molto più lunga e raccogliere più di 220 vittime. I magistrati hanno scoperto i nomi dei sette americani grazie agli atti dei due processi celebrati dagli americani nell'agosto del '43 mentre in Sicilia si stava ancora combattendo proprio di fronte al dilagare di segnalazioni sull'uccisione di prigionieri, vennero subito istruite due corti marziali per giudicare i casi più eclatanti. Una decisione senza precedenti, che forse testimonia la volontà di frenare il ricorso indiscriminato alla vendetta su chi alzava le mani. E' come se l'inattesa resistenza italo-tedesca nella zona di Gela avesse fatto perdere la testa alle divisioni di punta del generale Patton. Alcuni soldati non dormivano da giorni, molti recitano gli atti della corte - erano sotto l'effetto di psicofarmaci. Nel primo processo il sergente Horacio West fu riconosciuto colpevole dell'omicidio di 37 italiani e tedeschi, che lui stava trasportando verso le retrovie. Fu condannato all'ergastolo, ma dopo pochi mesi venne liberato nel timore che la famiglia facesse arrivare ai giornali la notizia del massacro: sarebbe morto combattendo in Bretagna. La seconda corte marziale esaminò il caso del capitano John Compton, che fece fucilare 36 italiani catturati in un bunker dell'aeroporto di San Pietro. Compton fu assolto proprio perché dimostrò che esisteva un ordine di Patton: «Il generale ci ha detto: "Anche se cercano di arrendersi, non lasciateli vivere"». E' quello che accadde alla squadra di Vagnetti. I cinque fanti del 34 o Reggimento con il loro piccolo cannone da 47/32 avevano partecipato al contrattacco di Gela, che stava per far fallire lo sbarco Usa. «Da Butera dovevamo ritirarci su Piazza Armerina. Quando ci hanno sorpreso avevamo posato le armi per spingere il cannone sul camion. Poi quelle raffiche alle spalle, nel buio. Il sergente Baraldo, che veniva dal Veneto, morì subito. Io, un fante calabrese e il sergente Bertamè di Milano venimmo abbandonati feriti. Un quinto uomo, il sergente Tamborino di Milano, invece era praticamente illeso: fu lui a trascinarci lontano dalla strada. Rimanemmo nascosti per ore. Poi chiedemmo aiuto perché perdevamo troppo sangue: una colonna americana ci raccolse. Ma, quando gli raccontavo cosa ci fosse successo, loro ridevano e mi prendevano in giro: "Sei un pazzo, noi non spariamo ai prigionieri"».

Gianluca Di Feo

«Sei un prigioniero italiano? E mi sparò al cuore»

Giuseppe Giannola, scampato tre volte dopo la resa alle esecuzioni degli americani in Sicilia «Eravamo in 50, i miei compagni caddero su di me. Prima le raffiche, poi il colpo di grazia» «Più tardi mi sono alzato ferito dal mucchio dei cadaveri. Un cecchino mi ha colpito alla testa»
Una nuova testimonianza sui militari decimati dai reparti di Patton ore dopo la cattura. «Denunciai tutto nel ' 47, non venni creduto»


DAL NOSTRO INVIATO PALERMO - «Io pensavo che fosse tutto finito. Pensavo a Palermo, la mia città, dove quella sera ci sarebbero stati i botti: sì, era l' alba del 14 luglio 1943, la festa di Santa Rosalia. Da noi, nelle trincee dell' aeroporto di Biscari, non si sentiva più sparare. Dopo quattro giorni di combattimenti avevamo alzato le braccia: noi avieri con i nostri fucilini non potevamo fare di più. Mentre gli americani ci spogliavano, io pensavo alla festa, pensavo a casa. Poi abbiamo camminato sotto il sole: saremmo stati in cinquanta, tutti senza scarpe, a torso nudo, in mutande o con i pantaloni corti. Dopo qualche ora ci hanno fatto fare una sosta, stavamo seduti in un campo all' ombra degli ulivi. Quelli che ci sorvegliavano si sono appartati, fumavano e parlavano. Tempo un quarto d' ora e ci siamo alzati di nuovo: ci hanno fatto mettere su tre file. Io ero in mezzo a quella centrale, accanto avevo due commilitoni, palermitani come me che conoscevo sin da quando eravamo bambini. A quel punto gli americani hanno cominciato a sparare». Giuseppe Giannola non racconta: rivive quei minuti terribili, torna nell' incubo da cui non riesce a liberarsi. Sono 62 anni che sente le raffiche di quel mitra, le urla dei suoi amici, il sangue dei compagni che lo sommerge. Sessantadue anni prigioniero della stessa rabbia, di quell' impotenza e di quella disperazione vissuta mentre i corpi degli altri prigionieri italiani lo seppelliscono, salvandolo una prima volta dal massacro. E piange. Piange senza riuscire a trovare il fiato per parlare ancora. La moglie e i figli gli portano da bere, i nipoti lo circondano: tutti insieme lo pregano di non andare avanti in quel calvario. Ma lui li zittisce con un gesto deciso della mano e chiede solo un fazzoletto per asciugare le lacrime. Vuole proseguire in quel viaggio nel passato. Lo vuole fare per tutti quelli che non sono tornati. «Sono stato colpito subito: un proiettile mi ha spezzato il polso e mi sono buttato a terra. Ho fatto solo in tempo a fissare l' immagine di quel sergente gigantesco, con il tatuaggio sul braccio, che impugnava il mitra. Poi i corpi degli altri mi sono caduti addosso. Non vedevo nulla, sentivo solo quegli scoppi che non sembravano finire mai. Prima raffiche lunghe, quindi delle esplosioni secche, sempre più rare. Erano i colpi di grazia». ALLA TESTA - «Io stavo fermo, con il braccio infuocato e la faccia che si copriva del sangue dei miei amici. Sono rimasto immobile per un paio d' ore, finché il silenzio non è diventato totale. "Se ne sono andati", ho pensato. Lentamente, quasi paralizzato dalla paura, ho spostato i corpi e mi sono alzato. Ho fatto solo in tempo a guardarmi attorno ed è arrivata la fucilata. Ricordo il botto e il calore che mi bruciava la testa. Sono caduto, sorpreso di essere ancora vivo. Il proiettile mi ha preso di striscio, scavando un solco tra i capelli: sarebbe bastato un millimetro più giù per ammazzarmi. Con terrore ho cercato di non respirare. Sapevo che ci doveva essere qualche americano lì intorno, appostato per non lasciare nessuno vivo. Con la faccia a terra credevo di non avere più scampo. Invece nulla». «Non so quanto tempo sia passato. Mi dicevo: "Non muoverti". Ma avevo sete. Il polso spezzato e la ferita alla testa bruciavano. Il dolore ha superato la paura. Mi sono mosso carponi, temendo un altro sparo. Ho camminato così fino a una strada sterrata. Vedevo in lontananza delle colonne di camion americani. Non si sentiva più la battaglia. E' passata un' ambulanza e si è fermata. Si sono resi conto che ero un italiano, ma mi hanno dato da bere e bendato le ferite con attenzione. Poi a gesti mi hanno fatto capire di restare vicino alla strada: "Verranno a prenderti". Io mi sono seduto: avevo solo i pantaloncini, il resto del corpo era impastato di terra e sangue. E' arrivata una jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all' altro la jeep, lo ha mandato via. E' rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato la carabina, ha mirato al cuore e ha sparato». Giuseppe Giannola ferma il racconto. Manda via moglie e nipoti. Vuole intorno solo i figli maschi. Con orgoglio si toglie la camicia. Sa che per comprendere il miracolo bisogna vedere. Il suo fisico è forte nonostante gli 88 anni. Mostra la cicatrice sul petto, lì dove la pallottola è entrata. Poi si gira: sulla schiena c' è un cratere, come se degli artigli avessero strappato la carne. Una ferita accanto al cuore, che nulla potrà mai cancellare. Come l' incubo che si porta dentro. L' angoscia per quei commilitoni rimasti sotto gli ulivi. Recupera dagli appunti dell' epoca pochi cognomi: Raimondi, Argento, Del Pozzo, Macaluso, Giacalone. Puntella la memoria con le copie ingiallite delle denunce che ha ripetuto per due volte nel 1947. Relazioni ricostruite mettendo insieme i ricordi sopravvissuti ai lunghi ricoveri nei quali i medici britannici gli salvarono la vita. Giannola non sapeva che in quel 14 luglio 1943 altri prigionieri italiani subirono la stessa sorte. Ha ignorato, fino agli articoli del Corriere dello scorso giugno, che la ferocia di quelle esecuzioni aveva spinto persino il comando Usa a processare d' urgenza due dei fucilatori. DENUNCE IGNORATE - Nessuno invece in Italia ha mai preso in considerazione le relazioni di Giannola. Come nessuno ha mai dato attenzione al racconto dell' artigliere veneto Virginio De Roit, che sempre dopo la resa sull' aeroporto di Biscari si salvò dall' eccidio del suo reparto. Stesso destino per le accuse del fante perugino Bruno Vagnetti, il cui plotone venne crivellato dopo la cattura a Licata. Le denunce sui crimini a cui avevano assistito sono rimaste lettera morta, confuse tra pile di pratiche con richieste di pensioni o di assistenza medica negli armadi di qualche ministero. Per anni sono stati derisi: «Avete visto il film sbagliato. Gli americani non ammazzano i prigionieri, lo fanno i tedeschi». Altre volte si sono trovati alle prese con una burocrazia tanto spietata quanto confusa, che non riusciva a inquadrare nei suoi moduli le ferite inflitte dopo la resa: al ritorno in Italia, Giannola venne persino dichiarato disertore, salvo poi ricevere due medaglie. Adesso chiedono giustizia alla magistratura militare ma soprattutto chiedono che venga onorata la memoria dei loro commilitoni, vittime dimenticate degli ultimi giorni della «guerra fascista». Gli americani hanno cercato di fare subito i conti con quello che stava accadendo. Le denunce degli eccidi nella zona di Gela nei primi giorni dopo lo sbarco in Sicilia sono apparse inaccettabili. Una situazione così drammatica da spingere a celebrare immediatamente due corti marziali nei confronti di un reparto - il 180mo reggimento - impegnato in prima linea, chiamando alla sbarra anche un «eroe», il capitano James Compton. Lui e il sergente Horace West furono giudicati per due fucilazioni, costate la vita ad almeno 73 prigionieri italiani. Il loro arresto fu una misura eccezionale ordinata dal generale Omar Bradley in persona dopo i resoconti sull' uccisione indiscriminata di chiunque alzasse le mani nel quadrante della 45ma divisione, tra Caltagirone e Gela, dove più dura fu la resistenza del Regio Esercito e dei tedeschi: quattro giorni di scontri corpo a corpo, con continui contrattacchi e il rischio concreto che lo sbarco fallisse. Le testimonianze raccolte da storici come Stanley Hirshson della New York University e quelle rintracciate dal Corriere ora fanno ipotizzare un numero di prigionieri uccisi tre volte più alto: anche civili - ha ricostruito Gianfranco Ciriacono - furono assassinati senza motivo. Una follia collettiva, stando agli atti della corte marziale, che contagiò interi battaglioni. «Vidi quelle cataste di corpi, parecchi con un colpo alla nuca - testimoniò il cappellano William King -. Molti soldati correvano da me: "E' una pazzia, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Padre, faccia qualcosa"». L' ORDINE DI PATTON - I militari incriminati ebbero facile difesa. Ripeterono davanti ai giudici l' ordine impartito dal loro comandante, George Patton: «Ci era stato detto che il generale non voleva prenderli vivi. Il suo discorso era stato chiaro: "Non badate alle mani alzate, si fottano: nessun prigioniero. Mirate tra la terza e la quarta costola, poi sparate"». Proprio dove ha mirato quel soldato che trovò l' aviere Giannola ferito e seminudo, chilometri lontano dal fronte. Grazie all' ordine di Patton il capitano Compton fu assolto: morì sei mesi dopo, alle porte di Cassino, combattendo fianco a fianco assieme a soldati italiani diventati suoi alleati: è sepolto nel sacrario di Anzio. Il sergente West, condannato all' ergastolo, fu scarcerato dopo pochi mesi per evitare che la notizia delle stragi finisse sui giornali. L' inchiesta sulle responsabilità di Patton fu archiviata nel giugno ' 44, quando il generale tornò determinante per le sorti degli alleati in Normandia. Ma gli storici americani non hanno dimenticato. Da almeno venti anni discutono di quel momento nero in Sicilia, di quei quattro giorni in cui l' invasione ha rischiato di fallire. A causa dell' impreparazione dell' armata di Patton ma anche della inattesa resistenza italiana, di quei soldati straccioni che restavano nelle trincee fino all' ultima cartuccia dei loro vetusti moschetti ' 91. Perché in quei quindici giorni tra lo sbarco e l' arresto di Mussolini gli americani non erano i liberatori: per soldati e civili erano ancora gli invasori, quelli che bombardavano le case. LA BATTAGLIA - Giannola è uno di quelli che hanno combattuto, nonostante fosse un semplice aviere senza nessuna simpatia per il fascismo. «Io ero un autista, avevo già fatto servizio nelle basi in Libia. Poi nel ' 43 sono stato assegnato all' aeroporto di San Pietro (che gli alleati chiamavano Biscari, ndr): una pista costruita nei boschi tra Caltagirone e Acate. Il 10 luglio il maggiore ci ha detto: "E' ora di fare il nostro dovere". Sono stati distribuiti i moschetti: i vecchi fucili "91" della Grande Guerra. Due giorni dopo siamo usciti di pattuglia per dare la caccia ai paracadutisti americani. Io e un mio commilitone ne abbiamo catturati due. Erano colossi con la testa rasata, armati fino ai denti: mitra, pistole, granate, coltelli. Il 13 ci siamo schierati nelle trincee intorno alla pista. Il primo attacco è cominciato nel pomeriggio: abbiamo sparato per più di un' ora, un caricatore dietro l' altro. Si sentivano cannonate dovunque. Li abbiamo respinti ma non potevamo fare di più. Dopo il tramonto, il tenente ci ha radunato al centro del bunker, l' ultimo caposaldo: "Avieri, vi siete battuti bene". Non sapevo che a quelli dell' esercito era stato ordinato di ripiegare nel buio verso Caltagirone. Siamo rimasti lì sotto, ad aspettare: forse volevano che coprissimo la ritirata degli altri. Prima dell' alba i nemici hanno circondato il rifugio. Due bombe sono esplose davanti alle uscite. Ci hanno urlato di venire fuori con le mani alzate e abbiamo obbedito. Siamo stati perquisiti, ci hanno tolto tutto, lasciandoci in mutande o con i pantaloni corti. Hanno buttato via le scarpe per impedirci di correre. Poi ci hanno fatto marciare verso la costa. Dopo poco, una trentina di artiglieri sono stati uniti al nostro gruppo. I sorveglianti? Erano in otto. Non rammento i loro volti, mi sembra che qualcuno parlasse un poco di italiano. L' unico che ricordo era quel sergente gigante, con il tatuaggio sul braccio e il mitra che sparava, sparava, sparava». Gianluca Di Feo Le stragi ignorate La storia Ferito tre volte Giuseppe Giannola fu catturato dagli americani il 14 luglio 1943 nell' aeroporto di San Pietro di Caltagirone, Biscari per gli alleati. Sopravvissuto al massacro del suo gruppo, venne ferito altre due volte. L' ultimo a sparargli fu un soldato sceso da una jeep che mirò al cuore. In Italia Accuse non credute Giannola ha riportato ferite gravi al polmone e al polso. Ricostruì il massacro dei suoi commilitoni due volte nel 1947, fornendo tutti i dettagli agli ufficiali dell' Aeronautica incaricati di determinare l' origine delle sue ferite. Non venne creduto e ha smesso di raccontare la sua vicenda Negli Usa I due processi La corte marziale americana nel 1943 celebrò due processi per le uccisioni di 73 prigionieri italiani avvenute il 14 luglio nella zona dell' aeroporto di Biscari. Ma studi americani e testimonianze raccolte dal «Corriere» portano il bilancio degli eccidi a oltre 200 vittime Indagine La nuova inchiesta La procura militare di Padova ha aperto un' inchiesta sugli eccidi, partendo dalla testimonianza di Virginio De Roit, uno dei superstiti: sono stati identificati 7 dei presunti fucilatori americani. Ora il fascicolo è stato trasferito a Palermo, dove è stato interrogato Giannola.

Gianluca Di Feo

Corriere della Sera 03,03,2005

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«Ci eravamo arresi, e i liberatori spararono»

Sicilia 1943, un sopravvissuto racconta la strage dimenticata di Santo Pietro

Virginio De Roit ha 92 anni e da sessantuno è un sopravvissuto. Il 14 luglio 1943 è scampato alla fucilazione in Sicilia, da parte di un reparto statunitense, nei pressi dell' aeroporto di Santo Pietro, frazione di Caltagirone. Lui e un compaesano veneto, Silvio Quaiotto, l' hanno evitata con una fuga fortunosa, benché la povera mente di Quaiotto ne sia uscita sconvolta, rifiutando ogni contatto con la realtà. Ventinove italiani e quattro tedeschi rimasero, invece, vittime di una furia sanguinaria e inspiegabile. «Ancora oggi - afferma De Roit - ignoro chi fossero e perché lo fecero. Dopo la guerra me l' hanno chiesto i padri, le madri, i figli, le spose dei miei sventurati commilitoni, venuti fin qui per avere informazioni e capire. Io ogni volta ho potuto solo allargare le braccia». In base alla disposizione delle truppe alleate nei primi giorni dello sbarco, i loro carnefici molto probabilmente appartenevano alla 45a divisione del generale Troy Middleton, la stessa che sempre il 14 luglio si macchiò della carneficina di settantatré militari italiani dopo la resa di un altro aeroporto, Acate. Proprio la lettura di quest' episodio, prima sul mio libro Arrivano i nostri, in seguito nello splendido approfondimento di Gianluca Di Feo sul Corriere della Sera, ha indotto un nipote di De Roit, Raffaello Maggian, sociologo e docente all' Università di Trieste, a inviarci un' e-mail. Raccontava l' odissea dello zio e il suo cruccio per il silenzio che ha circondato la strage, di cui a Caltagirone esiste una vaga traccia in un libro di storia locale. De Roit ricorda fra sussulti e silenzi, spesso preda di un' intensa emozione: il fronte greco, i diciotto mesi in Sicilia, il corso per diventare caporale della 3a compagnia, CLIII battaglione mitraglieri. Prima della promozione si erano presentati il 10 luglio gli anglo-americani. Un arrivo ampiamente previsto, anticipato da sei mesi di bombardamenti aerei. Il pomeriggio del 7 aprile, una domenica, la compagnia aveva pagato un prezzo altissimo: sette morti e l' accampamento distrutto. Sorgeva attorno all' aeroporto militare di Santo Pietro: una lingua di terra tra aranceti e vigneti, modellata alla bell' e meglio allo scoppio del conflitto. Nonostante l' incubo delle incursioni dal cielo, non vivevano male: avevano arance, limoni, uva, carciofi, la novità dei gelsi neri. Compravano il vino dalla famiglia Verdone e durante la lunga estate siciliana s' immergevano nelle acque del fiumiciattolo Ficuzza, che scorre nei pressi e dava il nome a un immenso feudo. Per difendere l' aeroporto gli italiani avevano duecento uomini e sette mitragliatrici Breda; i tedeschi della divisione corazzata Goering avevano aggiunto un cannoncino con quattro artiglieri e un bunker leggermente defilato rispetto alla pista. Intorno alla mezzanotte del 13, pervenne l' ordine di raggiungere Santo Pietro per salire sugli autocarri germanici e filarsela assieme ai camerati. All' improvviso scoppiò l' inferno attorno al bunker presidiato da quattro tedeschi e da quattro italiani del 122° reggimento. Era sopraggiunta una colonna nemica. Il gruppo di De Roit finì in mezzo alla tempesta di fuoco. I difensori si arresero. Italiani e tedeschi furono depredati di portafogli, collanine, ciondoli, orologi, anche se di modesto valore come il Meda di De Roit. Rimasero in mutande. Camminando a piedi nudi su stoppie e rovi furono portati fino allo spiazzo accanto al sughereto. Ricevettero l' ordine di scavare una fossa e di mettersi in fila per due. Poi «Un negro dalla faccia brutta - scandisce De Roit - impugnò il parabellum e cominciò a sparare al petto dei primi due, che erano tedeschi. Dopo ammazzò gli altri due tedeschi. Il primo italiano a cadere fu il caporale Luigi Giraldi di Brescia. Ne caddero tanti di bresciani: Attilio Bonariva, Santo Monteverdi, Leone Pontara, Battista Piardi, Gottardo Toninelli, Pietro Vaccari, Mario Zani, Celestino Bressanini. Cadde il mio compaesano Aldo Capitanio. Cadde il bello della compagnia, il magazziniere Angelo Fasolo di Camin, nel padovano. Cadde Salvatore Campailla, che era un siciliano, ma faceva il postino a Nervi. Cadde Sante Zogno di Lodi. A quel punto io urlai: "Tusi, scapemo"(ragazzi, scappiamo). Mi lanciai verso il fiume con Silvio Quaiotto ed Elio Bergamo di Ancona. Quelle bestie non se l' aspettavano. Guadagnammo metri preziosi, sentimmo alle nostre spalle che in parecchi si erano messi a sparare: abbatterono i nostri compagni, quindi vennero a cercarci. Noi stavamo acquattati nell' acqua. Io e Quaiotto ci mettemmo sotto un groviglio di arbusti, mentre vidi che Bergamo aveva la testa di fuori. Le bestie tirarono alcune sventagliate di mitra. Capii che andavano a prendere il lanciafiamme. Mi diressi verso la riva opposta. Non mi videro. Trovai rifugio nel fossato sotto un albero di prugne. Giunse anche Quaiotto. Era completamente sotto choc, non faceva altro che toccare il rosario attorno al collo. Al momento di andarsene le bestie incendiarono il terreno attorno al fiumiciattolo. Alle 11 era tutto finito. Bergamo non lo vedemmo più. So soltanto che a casa sua non è mai arrivato». Bergamo era stato ucciso sotto gli occhi di Giacomo Lo Nigro. Aveva diciassette anni, abitava di fronte al bunker. Richiamato dalle raffiche, aveva assistito al breve scontro, alla fucilazione, alla fuga dei tre, alla scarica che aveva freddato Bergamo nel fiume. Lo Nigro è stato rintracciato nel 2000 dal professor Maggian, durante un seminario presso l' istituto Sturzo di Caltagirone. Lo ha fatto parlare al telefono con lo zio. Assieme hanno rivissuto il salvataggio di quei giorni: le prugne divorate per placare la fame, la notte trascorsa in un vigneto, il riparo nella stalla dei Verdone, il pane e il formaggio inviati dalla signora Verdone con il figlio. De Roit e Quaiotto furono accolti dai fratelli Giuseppe e Totò Spadaro, in seguito De Roit si trasferì nel feudo Cucuzza, amministrato da Francesco Signorelli. Qui aspettò la fine della guerra, ricambiando l' ospitalità con la sua abilità da falegname. Ritornò a Santa Maria di Camisano, in provincia di Vicenza, perché una ragazza l' aspettava dal 1939. Alfio Caruso Il superstite del massacro Virginio De Roit (nella foto), soldato di stanza in Sicilia nel luglio 1943, sopravvisse fortunosamente a un massacro di prigionieri inermi compiuto da truppe americane appena sbarcate. Sulle atrocità degli alleati nell' isola, a lungo trascurate o addirittura ignorate dalla storiografia, il Corriere ha pubblicato un' ampia ricostruzione in due puntate di Gianluca Di Feo il 23 e il 24 giugno.

Caruso Alfio

Pagina 21

(9 agosto 2004) - Corriere della Sera

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«Così mi fucilarono gli americani»

Il carabiniere Cianci racconta una strage sconosciuta nella Sicilia del ' 43

Nel corso di Husky, nome in codice dello sbarco alleato in Sicilia del luglio 1943, le truppe statunitensi, comandate dal generale George Patton, trucidarono numerosi civili e molti militari che si erano arresi. Le stragi dei prigionieri italiani a Biscari, a sud di Caltagirone, rivelate dallo storico statunitense Carlo D' Este, non furono dunque una disgraziata eccezione. Una tragedia simile, di cui mai si è scritto o parlato, si consumò a 8 chilometri da Gela, sulla strada per Vittoria, verso le 7 di mattina del 10 luglio, giorno dello sbarco; in questa località, detta Passo di Piazza, i carabinieri reali avevano costituito un posto fisso in un casale rurale. Era in posizione strategica perché i militari potessero vigilare la linea ferroviaria che correva parallela al mare. Erano una quindicina e al momento dello sbarco due erano in pattuglia. Gli altri furono svegliati dal fuoco martellante dell' artiglieria; tutto intorno scendevano centinaia di paracadutisti americani. I carabinieri, al sorgere del sole, si accorsero che la palazzina in cui si erano asserragliati era circondata dai nemici che intimavano la resa. Uno dei militari italiani, Antonio Cianci di Stornara (Foggia), 21 anni, si era arrampicato sul tetto della costruzione per vedere cosa stesse accadendo. Ha accettato di parlarne soltanto adesso, per la prima volta dopo tantissimi anni: «Ho avuto la sensazione che l' elmetto di un gruppo di soldati che si stavano avvicinando all' edificio dove eravamo alloggiati fosse tedesco; erano sei o sette e camminavano nella campagna piuttosto indifferenti. Avevamo ordini, nel dubbio, di sparare e mirai a uno del gruppo; lo colpii perché cadde subito. Gli altri si buttarono a terra subito dopo e cominciarono a rispondere al fuoco. Io sparavo con il moschetto e loro rispondevano con i mitra e avevano i binocoli per osservarci; noi eravamo in tre con il vicebrigadiere e un carabiniere, giovane come me, di Salerno. Dopo un po' , gli americani dovettero dare ordine alle loro navi di spararci con i cannoni e noi scendemmo subito nelle stanze di sotto; i nemici, vedendo che avevamo smesso di sparare, dovettero avvisare le navi che sospesero il bombardamento». Poi gli americani si avvicinarono al presidio: «A quel punto - prosegue Cianci - andai al muro perimetrale: in realtà avevo bisogno di orinare. Ma non ebbi il tempo, perché vidi un gruppo di una decina di soldati nemici. Impressionato (in quel momento ero disarmato), girai su me stesso e risalii la rampa di scale di corsa per avvisare il vicebrigadiere Pancucci che di sotto c' erano i nemici. Il nostro sottufficiale ci disse di appostarci dietro le finestre e rispondere al fuoco; subito, però, le navi ricominciarono il bombardamento. Quando Pancucci si rese conto che stavano scoppiando i vetri delle finestre, che le porte venivano scardinate e i calcinacci cadevano da tutte le parti, che la palazzina, centrata, ci sarebbe crollata addosso, mi ordinò di esporre alla finestra un lenzuolo; un altro di noi fece lo stesso con la tovaglia bianca del tavolo dove consumavamo il rancio». Bandiera bianca, la resa dei carabinieri era inevitabile: «Abbandonammo tutte le armi nelle stanze e ci avviammo verso le scale dove due paracadutisti ci aspettavano con le armi puntate; urlavano e ci facevano capire a gesti di scendere in fila indiana e con le mani alte e bene in vista. Nel cortile fummo allineati tutti quanti - nel conflitto a fuoco nessuno era stato colpito - e ci fu chiesto se c' erano altri nelle stanze; alcuni degli americani salirono nei locali per controllare. In realtà non c' era nessun altro militare. A questo punto la situazione sembrava essersi rasserenata e i paracadutisti ci consentirono di appoggiare le mani sulla testa con le dita incrociate, per non stancarci». Poi la situazione precipitò: «Altri militari americani arrivati in un secondo momento - ricorda Cianci - cominciarono a percuotere con i calci dei fucili le porte dei locali attigui a quelli della caserma, in cui erano alloggiati dei contadini. Questo, credo, fece pensare ai nostri guardiani che avessimo mentito e che alle loro spalle ci fossero altri nostri compagni asserragliati. Non stettero a pensarci due volte e cominciarono a sventagliarci con raffiche di mitra. Quando ci spararono, tre o quattro di noi morirono subito, parecchi furono feriti e io feci finta di essere stato colpito. Siccome mi lamentavo, terrorizzato, uno degli americani mi venne vicino e mi aprì la camicia perché io gli indicavo di essere stato ferito all' altezza del cuore. Quando vide che non avevo niente mi rassicurò: "Good, good". Vicino a me, alla mia destra, c' era un carabiniere morto; un altro commilitone di Salerno era gravemente ferito alla spalla sinistra e piangeva. C' erano altri carabinieri a terra, ma ero spaventatissimo e non mi accertai se fossero morti o feriti». La buona sorte aveva risparmiato Cianci, ma le disavventure non erano finite: «Dopo una mezz' ora, quando si erano calmate le acque, ci misero in colonna, compresi i feriti, e ci portarono in mezzo alla campagna. Rimanemmo tre giorni sulla spiaggia con un freddo notturno terribile; ci mettevamo uno sopra l' altro per riscaldarci. Quando ci imbarcarono per l' Algeria, sulla rampa delle navi ci perquisirono e rubarono tutto quello che avevamo (portafoglio, denaro, penne stilografiche, collanine d' oro, anelli, orologi). Quando arrivammo in Nord Africa, dovemmo fare una marcia di 60 chilometri e il vicebrigadiere, che aveva gli stivali, cominciò a perdere sangue e a rimanere indietro. Io gli detti la mia camicia per coprirsi le piaghe ai piedi e un altro carabiniere glieli avvolse con le sue fasce gambiere. Gli dissi di buttare gli stivali per alleggerirsi, ma lui li legò con i lacci e se li portò nel campo di concentramento assicurati al collo». Di quell' episodio nessuno ha mai saputo nulla. Solo una testimonianza del carabiniere Francesco Caniglia di Oria (Brindisi), ormai deceduto da qualche anno, a me recapitata, ha consentito che l' anziana figlia di Michele Ambrosiano, carabiniere richiamato e padre di cinque figli, ammazzato con altri militari a Passo di Piazza, potesse avere una parvenza di giustizia. La signora mi ha detto che l' unico sogno rimasto, ora che è molto anziana, è che la stazione dei carabinieri di Sommatino (Caltanissetta), dove la sua famiglia ha le radici, sia intitolata al padre. RIPRODUZIONE RISERVATA * * * Studi e ricerche L' Italia campo di battaglia L' autore di questo articolo, Fabrizio Carloni, ha dedicato diversi studi alle vicende della Seconda guerra mondiale in Italia. Negli anni scorsi ha scritto due libri: San Pietro Infine. 8-17 dicembre 1943: la battaglia prima di Cassino (Mursia, 2003) e Il corpo di spedizione francese in Italia, 1943-1944 (Mursia, 2006). Carloni ha individuato e intervistato il carabiniere Antonio Cianci nell' ambito di una ricerca sullo sbarco in Sicilia. Sull' argomento ha pubblicato due saggi sulla rivista «Nuova Storia Contemporanea», mentre un suo volume sulla battaglia di Gela, con diverse novità, uscirà nei prossimi mesi.

Carloni Fabrizio

Pagina 29

(9 agosto 2010) - Corriere della Sera

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MessaggioInviato: Sab Ott 16, 2010 2:06 pm    Oggetto:  
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Ovviamente la storiografia ufficiale si guarda bene dal rivelare questi fatti, che potrebbero seriamente compromettere l'immagine edulcorata dei "liberatori" e mettere in discussione oltre 60 anni di vulgata antifascista. Il fatto che lo stragismo degli alleati fu inferiore a quello dei tedeschi lo si dovette al fatto che nell'Italia del sud non vi fu un "partigianesimo fascista", le sorti della guerra volgevano a favore delle plutocrazie, dunque la popolazione stanca si arrese evitando di opporre una seria resistenza contro gli invasori. Di contro gli alleati coi loro bombardamenti aerei terroristici contro la popolazione civile commisero una strage senza pari, che supera di gran lunga le stragi naziste in Italia.
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AquilaLatina ha scritto:
... Di contro gli alleati coi loro bombardamenti aerei terroristici contro la popolazione civile commisero una strage senza pari, che supera di gran lunga le stragi naziste in Italia.


...anche Pansa, che pure non é uno storico ma un giornalista e può anche non piacere, nel suo ultimo libro che sto leggendo "I vinti non dimenticano" (pp. 47 - 59), rievoca brevemente tali fatti dichiarando fonti alla mano che il numero delle vittime civili dei bombardamenti alleati oscilla dai 70.000 ai 100.000, quando quelli caduti per mano tedesca o della R.S.I., dice Pansa citando a sua volta Rochat, sarebbero 10.000, se includiamo poi i deportati politici, militari ed ebrei in germania la cifra supera complessivamente di poco i 41.000. E questo senza contare i danni cagionati al patrimonio italiano sempre dai cosiddetti "liberatori". Paccato non abbia mai denunciato quanto avvenne in Sicilia nei giorni dello sbarco.

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MessaggioInviato: Sab Ott 16, 2010 8:43 pm    Oggetto:  
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Perchè, di quello che ha combinato il corpo marocchino a Casperia e più in generale in Ciociaria (e prima ancora in sicilia) ne vogliamo parlare?
Non solo i famosi strupri ma anche furti rapine e massacri su vecchi e bambini (che avevano magari la sola colpa di difendere madri/figlie...).

Giorgio Rochat arriva sempre in ritardo... anche su Cefalonia nei suoi ultimi scritti si allineato sui documenti e sui dati di Massimo Filippini (ovviamente senza alcun riferimento all'autore), dopo decenni di allineamento alla vulgata...
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MessaggioInviato: Dom Nov 20, 2011 3:18 pm    Oggetto:  
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Sicilia, 1943. I civili vengono fatti allineare a bordo strada, un sergente imbraccia un mitra e li falcia. Cadono in 37. Ma il fucilatore non è il solito tedesco con il tipico elmetto grigio calcato sugli occhi. E’ un G.I. americano, di quelli che al ritmo dello swing liberavano l’Europa regalando cioccolata, gomme da masticare e Lucky Strike alle popolazioni affamate e sinistrate dai bombardamenti. Quella strage non fu un caso isolato. Anzi. Ma per l’Italia fu un caso dimenticato. Finché il nipote di uno di quei 37 sfortunati «italian sons of bitches» non si è improvvisato storico…

di Luciano Garibaldi, da “Storia in Rete” n. 27

E’ uscito un libro di cui pochi hanno parlato ma che svela una importante pagina della nostra storia recente, ingiustamente dimenticata. Stiamo parlando di «Le stragi dimenticate», dedicato ai massacri compiuti dagli americani subito dopo lo sbarco in Sicilia. Una sorta di «armadio della vergogna» di cui non si sospettava neppure l’esistenza. Lo ha scritto Gianfranco Ciriacono, (che lo ha dovuto pubblicare privatamente e a sue spese). Ciriacono è un appassionato studioso di storia, ma le motivazioni che lo hanno spinto ad intraprendere questa ricerca sembrano principalmente influenzate dall’esperienza personale. Infatti suo nonno paterno era nel gruppo di contadini trucidati dagli americani nel luglio del ’43 nei pressi di Piano Stella. Suo padre, allora appena un ragazzino, si salvò solo perché uno dei soldati, un attimo prima di sparare, lo tolse dal gruppo e gli intimò di andar via.
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Ciriacono, ricorda la prima volta che sentì parlare nella sua famiglia di questo episodio?
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«Sin da bambino, mi chiedevo perché non avessi un nonno con cui giocare come tutti gli altri miei amichetti. Poi, crescendo, ho iniziato le ricerche che mi hanno portato a scoprire gli eccidi americani in Sicilia. Oltre alle motivazioni sentimentali, occorreva recuperare una pagina di memoria ignorata dalla storiografia ufficiale. Era opportuno dare voce a coloro che normalmente non lasciano tracce nella “storia”. Chi vince una guerra acquista – di fatto – anche il diritto a non essere giudicato per come si è comportato durante il conflitto: è la legge del più forte. Ma chi ha perduto, ingiustamente, i propri familiari, ha diritto alla giustizia? Ha diritto alla verità? Nei confronti dei tedeschi, il governo italiano ha rivendicato – e ottenuto – di processare ufficiali della Wehrmacht responsabili di massacri atroci. Io, con il mio libro “Le stragi dimenticate”, ho cercato di dare voce a vittime innocenti di cui non si conosceva neppure l’esistenza».
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A un certo punto del libro, lei riporta notizie di violenze e stupri sulla popolazione civile che sarebbero stati perpetrati soprattutto da soldati americani di origine italiana. Quale documento ha letto? Su quali fonti si basa questa informazione?
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«A raccontare degli stupri, così come delle violenze perpetrate nei confronti della popolazione civile inerme, sono gli atti della Corte Marziale americana. La struttura giudiziaria militare americana (JAG Branch) con giurisdizione sui reati commessi dai soldati in quell’ambito, ha processato diverse centinaia di soldati. Nella fattispecie, le mie informazioni provengono dagli interrogatori di alcuni membri della 45a Divisione che parteciparono allo sbarco e che raccontano come le peggiori atrocità furono commesse da soldati italo-americani. Altri scritti memorialistici, sempre in mio possesso, raccontano peraltro di molti altri italo-americani che si prodigarono per aiutare i propri conterranei sconfitti».
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Il libro si sofferma sulla distribuzione delle terre che il regime fascista aveva attuato in quella parte della Sicilia sud orientale. Suo nonno, contadino bracciante, aveva ottenuto un piccolo podere con altre famiglie che appunto costituivano la nuova comunità “coloniale” di Piano Stella, in provincia di Agrigento. Poveri contadini che effettivamente avevano ricevuto un aiuto concreto da Mussolini. Potrebbe questo spiegare l’accanimento dei soldati americani contro di loro?
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«Lo escludo. Nelle giornate immediatamente precedenti lo sbarco, gli abitanti dei borghi colonici avevano cercato di nascondere tutti gli orpelli che potevano ricondurre alle strutture al fascismo. Era gente umile e aveva mostrato sin dall’inizio la propria umanità nei confronti dei soldati americani. Basti pensare che, nelle ore precedenti la strage, mio nonno, assieme ad altri, aveva prestato le prime cure ad un paracadutista americano rimasto ferito ad una gamba. Tutto questo nonostante la presenza di truppe tedesche sul territorio. Purtroppo, la sincera umanità mostrata dai coloni di Piano Stella fu contraccambiata dalla cieca ed immotivata ferocia delle truppe americane».
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Oltre alla strage di contadini di cui faceva parte il nonno dell’autore, nel libro si racconta che furono trucidati dagli americani soldati italiani presi prigioneri. Eccone una sintesi. Nei pressi dell’aeroporto di Biscari, il 14 luglio, il capitano John Compton (comandante di una compagnia di fanteria) «ordinò di uccidere i prigionieri», un gruppo di trentasei italiani, «parecchi dei quali indossavano abiti civili». «Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria catturò quarantacinque italiani e tre tedeschi. Un sottufficiale, il sergente Horac T. West, ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie perché fossero interrogati dal Servizio S-2 del Reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata, dove i componenti furono allineati. Spiegando che avrebbe ucciso quei «sons of bitches», il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporalmaggiore e, freddamente, eliminò gli sventurati italiani».
Lei, per ricostruire gli episodi, é riuscito a risalire ai documenti della Corte Marziale americana. Alla fine, solo West fu giudicato colpevole, scontando comunque solo pochi mesi di prigione per poi tornare a combattere, sempre in Italia. Per quale motivo, secondo lei, la giustizia militare americana, pur avendo subito individuato e processato i colpevoli di quei crimini, non andò fino in fondo?
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«Dai documenti in mio possesso si evince un interessamento delle alte sfere militari per non far trapelare nulla agli organi di stampa. Esiste un carteggio tra il generale Patton e il suo vice Bradley in cui il primo cerca di dissuadere Bradley di rendere pubblica la vicenda di Biscari. Tra i documenti si trovano anche lettere del futuro presidente Eisenhower e di membri del Congresso con cui si chiedeva una revisione del processo. Nei due processi celebrati si cercò di salvaguardare gli ufficiali. Infatti l’unico ad essere condannato fu il sergente West».
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Nel libro, lei ricostruisce i primi giorni dello sbarco, lo stress dei soldati che prima avevano affrontato una tempesta in mare, il sergente West che non dorme da tre giorni… Secondo una delle testimonianze conservate nei documenti della Corte Marziale, alcuni commilitoni di West lo descrivono come “fuori di testa”. Lui, un soldato della Guardia Nazionale dell’Alabama, con due figli, di colpo si trasforma in un terribile assassino assetato di sangue. Come si spiega?
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«Quell’uomo aveva pagato a duro prezzo la crisi del ’29. Era un cuoco affermato, ma aveva perduto il lavoro e sofferto la fame. Così, aveva preferito imbracciare un fucile mitragliatore, più che per liberare l’Europa dal giogo nazifascista, per cercare una rivincita economico-sociale. Questa la mia interpretazione, rafforzata dalla considerazione che, tra gli americani, c’erano parecchi volontari ormai non più giovanissimi, tutti travolti – chi più chi meno – dalla crisi economica del ’29».
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Cosa è successo a West e Compton dopo la guerra? Hanno avuto una vita normale, o anche la loro vita è stata segnata da quegli episodi, come poi avverrà a molti reduci dal Vietnam?
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«Il Capitano Compton, dai documenti in mio possesso, morì durante lo sbarco di Salerno del settembre 1943. Della vita del sergente West poco si sa. So soltanto che, prima la Procura Militare di Padova, e poi quella di Palermo, competente territorialmente, hanno chiesto all’Interpol di accertare che fine abbiano fatto sette militari che parteciparono alle stragi».
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E’ rimasto il mistero dei resti di quei poveri soldati italiani, molti originari della provincia di Brescia, che non furono mai ritrovati. Lei é riuscito a sapere dove sono sepolti? Il governo italiano ha mai cercato questi soldati o rivolto ufficiale richiesta al governo americano? Se non lo ha fatto, secondo lei, perché?
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«È mia convinzione, confermata anche da qualche accenno negli atti della Corte Marziale, che i corpi degli sventurati soldati italiani si trovino presso cimiteri militari americani. Di certo, negli archivi storici italiani questi uomini, di cui sono riuscito a ricostruire le generalità, risultano dispersi. Ancora oggi, le famiglie di quei soldati che ebbero la sventura di incrociare le divise delle truppe americane, rimangono in attesa di notizie certe e di un giaciglio dove poter ricordare con un fiore ed una lacrima il parente morto in guerra».
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Secondo lei, chi fu il vero colpevole morale di quegli episodi?
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«Il mandante morale delle stragi fu certamente il generale Patton. Già prima di partire per l’Algeria, e poi durante le fasi dello sbarco, aveva diramato ordini perentori del tipo: «Voi siete una divisione di killers, non bisogna fraternizzare con le popolazioni locali, non occorre fare prigionieri». E per finire: «Kill, kill, and kill some more» («Uccidere, uccidere e uccidere ancora»). Ordini inequivocabili di un generale, che le truppe eseguirono senza rendersi conto di venirsi a trovare palesemente fuori legge».
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Perché ha deciso di scrivere «Le stragi dimenticate»? Per dimostrare che nessuno è immune dai crimini di guerra?
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«Che la storia la scrivano i vincitori è fatto arcinoto e ciò può trovare una spiegazione, seppure perversa ed inaccettabile, laddove si tratti di storici appartenenti alla nazione vincitrice, ma nel nostro caso ciò che ripugna è il silenzio degli storici di casa nostra, di quelli che per più di 60 anni non hanno ritenuto importante studiare, indagare, informarsi ed informare sugli accadimenti di quei giorni. C’è voluto il mio lavoro per aprire il caso. Ritengo che dopo 64 anni occorra ristabilire la verità storica sugli eccidi di Biscari e Piano Stella: sarebbe, seppur tardivo, un atto di giustizia e il giusto riconoscimento per il tributo di sangue pagato dalla nostra gente».
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L’operazione Husky per la principale storiografia rappresenta un grande successo strategico militare, decisivo per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Per lei, al di là del tragico episodio che ha coinvolto la sua famiglia, il primo sbarco alleato in Europa rappresenta soltanto l’inizio della fine dell’Asse o anche un crimine di guerra?
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«La liberazione dal nazi-fascismo rappresentò certamente per un nuovo periodo storico che ha riconsegnato al nostro Paese libertà, democrazia, pace e prosperità. Ma le stragi americane, ahimè, non si fermarono solo a Biscari e Piano Stella, continuarono nelle giornate seguenti con la stessa virulenza a Comiso, dove furono uccisi, violando la convenzione di Ginevra, 60 soldati tedeschi e 50 soldati italiani. A Canicattì, poi, furono uccisi 8 civili per mano di un ufficiale americano. Così come a Butera, e via dicendo, fino ad arrivare nelle vicinanze di Palermo. Per lo più si trattò di stragi rimaste nella memoria delle comunità e confermate da diverse testimonianze oculari di soldati italoamericani, per le quali tuttavia manca il supporto documentaristico. Ma non c’è dubbio che quelle stragi vi furono».
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L’impressione che resta dopo avere letto la sua ricostruzione, è che la popolazione locale abbia subito voluto dimenticare. E’ cosí? E secondo lei perché?
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«L’icona del soldato americano rappresentava la libertà: dolciumi, sigarette e razioni di cibo. L’America aveva mandato la crema della sua gioventù in tutto il mondo, non a conquistare ma a liberare, non a terrorizzare ma ad aiutare. Grazie alla martellante e danarosa propaganda che ha bombardato il mondo per sessant’anni, l’opinione pubblica ha, in linea di massima, recepito e fatto propria, come verità di fede, questa oleografia storico-militare, tanto che nessuno ha mai pensato di sottoporre a verifica il vero comportamento degli arcangeli della libertà e della democrazia. Questo è certamente uno dei motivi per cui la popolazione locale ha faticato a creare una memoria comune. L’altro dato è che i 73 soldati, per lo più bresciani, non avevano alcun rapporto di parentela con gli abitanti del territorio. Pertanto la loro scomparsa non è fu notata da nessuno».
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Il suo libro è ricavato dalla sua tesi di laurea presentata all’Universitá di Catania, pubblicata poi da un editore locale. Aveva provato a proporre la sua ricerca ad un editore nazionale?
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«Proprio in questi giorni ho concluso un contratto con un buon editore nazionale. Le posso dire in tutta sincerità che non è stato facile. Ancora oggi, in Italia, è arduo parlare di verità scomode. Basti pensare che le istituzioni repubblicane non hanno ancora riconosciuto tali eccidi, nonostante gli atti della Corte Marziale americana che ha dichiarato colpevoli i soldati a stelle e strisce».
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MessaggioInviato: Ven Giu 01, 2012 7:57 pm    Oggetto:  
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...riguardo le cosiddette reazioni ufficiali della repubblica delle banane pseudo-italiana alla "scoperta" di tali fatti, va registrata l'interrogazione parlamentare dell'ex missino, poi alleanzino Gennaro Malgeri, che oltretutto non ricevette nemmeno una risposta scritta da "sua emittenza" l'ex presidente del consiglio.

Atti parlamentari - camera dei deputati

XIV LEGISLATURA — ALLEGATO B AI RESOCONTI — SEDUTA DEL 30 GIUGNO 2004

MALGIERI. — Al Presidente del Consi- glio dei ministri. — Per sapere – premesso che:

in due articoli pubblicati sul Corriere della Sera, rispettivamente il 23 e il 24 giugno 2004, a firma Gianluca Di Feo, viene rivelata (almeno in Italia) ed ana- lizzata con dovizia di particolari, la vicenda relativa agli eccidi compiuti tra il 12 ed il 14 luglio 1943 da soldati statunitensi a Biscari (oggi Acate), Comiso e Canicatti ; i soldati americani della 45esima Divisione comandata dal generale George Smith Patton, appena sbarcati in Sicilia, uccisero a sangue freddo, in cinque diverse occasioni (dettagliatamente documentate dal giornalista del Corriere) decine di prigionieri italiani e tedeschi disarmati; a Biscari il sergente Horace West fece uccidere 37 soldati, il plotone comandato dal capitano John Compton ne passò per le armi altri 36; a Comiso vennero assassinati dagli stessi militari 60 italiani e 50 tedeschi; a Canicatti gli americani spararono sulla folla;
tre mesi dopo il sergente West ed il capitano Compton furono processati dalla Corte marziale quali responsabili dell’eccidio. Compton, che si difese asserendo di aver ubbidito agli ordini del generale Patton, fu assolto, mentre West fu condannato all’ergastolo, ma la sentenza non venne mai eseguita: per sei mesi venne tenuto in un carcere del Nord Africa, poi il Ministero della Guerra americano inviò al Comando alleato di Caserta una « raccomandazione» nella quale si affermava che «questa storia non puo` essere pubblicizzata »;
secondo molti testimoni, il generale Patton ordino` l’eccidio con queste parole: «Se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali »;
oggi alcuni storici americani, ha do- cumentato Di Feo, « assolutamente non sospettabili di revisionismo », come risulta dai menzionati articoli del Corriere della Sera, hanno approfondito il caso, giungendo paradossalmente ad ipotizzare che, sulla base della sentenza emessa nei confronti del capitano Compton, si sarebbero dovuti assolvere alla stessa maniera i militari tedeschi fucilati per aver ucciso pri- gionieri statunitensi;
nell’inchiesta del Corriere si legge inoltre: «mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul “massacro di Biscari” e le sue ripercussioni – il primo nel 1988 fu di James J. Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson – nel nostro Paese la vicenda e` stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da Mondadori, la que- stione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai pero` un’iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome » –:
se il Governo italiano intenda acqui- sire dal Governo degli Stati Uniti tutta ladocumentazione disponibile relativa alla vicenda;
se ritenga di chiedere al Governo degli Stati Uniti un atto di formale riconoscimento delle responsabilità relative agli eccidi perpetrati;
in che modo intenda onorare il ricordo delle vittime.


 

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MessaggioInviato: Sab Giu 02, 2012 4:08 pm    Oggetto:  
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"La mistica appunto precisa questi valori...nella loro attualità politica...e dimostra l'universalità di luogo e di tempo del Fascismo"(Giani)
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MessaggioInviato: Mer Giu 06, 2012 6:17 pm    Oggetto:  
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Operazione Husky: Vae victis!
Gela 1943, gli efferati eccidi USA preludio alla colonizzazione dell'Italia


di Giuseppe Biamonte
Uccidi gli Italiani, il libro del senatore Andrea Augello, uscito per i tipi di Mursia nella nuova edizione ampliata e aggiornata, è stato recentemente presentato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Un gremito parterre ha assistito, quasi in religioso silenzio, agli interventi dei vari oratori, invitati per l’occasione (giornalisti, politici, storici).

Tra questi si è distinto, per il suo puntuale rigore storico-scientifico, il prof. Giuseppe Parlato, docente di storia contemporanea presso la libera Università S. Pio V di Roma e presidente della Fondazione Ugo Spirito, autore di numerosi saggi storici (ricordiamo in particolare la preziosa trilogia di studi sul fascismo: Fascisti senza Mussolini, Il sindacalismo fascista, vol. II, e La sinistra fascista, storia di un progetto mancato).

L’opera di Augello ha il pregio principale di aver definitivamente messo in soffitta la vulgata pseudo storica che ha sempre dipinto lo sbarco alleato in Sicilia come una sorta di passeggiata, che gli invasori avrebbero intrapreso, tra ali di folle osannanti alla liberazione dalla tirannide nazifascista, senza trovare alcun ostacolo sul loro cammino.

Come ha invece rigorosamente dimostrato l’autore nel suo saggio di microstoria, attraverso la pubblicazione di documenti inoppugnabili, testimonianze dei superstiti e dei parenti di chi allora subì sulla propria pelle la ferocia gratuita degli invasori statunitensi, la Sicilia del 1943 fu l’isola dell’eroica resistenza dei militari italiani della “Livorno” e di quelli germanici della “Goering”, ma soprattutto dei civili siciliani, che con il loro coraggio, la loro abnegazione e il loro sacrificio resero durissimo lo sbarco delle soverchianti forze d’occupazione alleate (tre divisioni britanniche, tre statunitensi e una canadese).

La 7a armata statunitense era comandata dal generale George Smith Patton. Tra questi campioni di democrazia d’esportazione – definizione oggi più che mai di grande attualità guardando le cronache belliche contemporanee, dalle quali emerge il perpetuarsi degli stessi crimini compiuti all’ombra della bandiera a stelle e strisce - si distinse in particolare la 45a divisione Thunderbirds della Guardia Nazionale per le violenze, le spoliazioni dei prigionieri, le fucilazioni sommarie contro i militari italiani dopo la resa e gli eccidi di inermi civili (vecchi, donne, bambini).

Mandante morale di tali crimini contro l’umanità fu lo stesso Patton, che, nell’inchiesta che seguì, ne uscì, grazie alla “ragione di Stato”, candido come un agnello.

Il cowboy californiano, che, stando ai suoi biografi, amava esibirsi con tanto di cinturone e Colt Single Action Army nella fondina odiava in modo particolare gli italiani, da lui apostrofati col gentile epiteto di sons of bitches (figli di prostituta).

Un odio atavico il suo, che, come ha ricordato il prof. Parlato, scaturiva forse da una vicenda legata all’attività industriale della madre, Ruth Wilson (figlia del ricco uomo politico e sindaco di Los Angeles Benjamin Davis Wilson), i cui affari nel settore tessile subirono un tracollo che il clan famigliare imputava agli scioperi degli operai dell’azienda, in massima parte immigrati italiani dal nostro Meridione.

Per inciso la ricca famiglia Patton aveva inoltre investito molti dei propri capitali in attività immobiliari (investimenti che riguardavano anche il porto californiano di San Pedro e l’isola di Santa Catalina, situata a circa 35 km a sud di Los Angeles) e il padre del generale killer (“Kill, kill and kill some more” è una delle sue ricorrenti frasi di indottrinamento dei soldati liberatori) fu anche uno dei fondatori della Sunkist Company, l’odierna multinazionale californiana dei succhi di frutta.

Celebre per l’agghiacciante cinismo fu l’appello che il rude George indirizzò alle truppe prima dello sbarco: “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!”.

Tra i componenti dell’orda selvaggia primeggiarono per zelo omicida il sergente Horace T. West e il capitano John C. Compton: 37 furono gli italiani assassinati da imputare al primo, perlomeno 36 al secondo. Grazie alla caparbia e puntuale ricerca di Augello si è risaliti finalmente all’identità di tutti gli assassinati e i parenti potranno ora piangere sulle sepolture dei propri cari.

Teatro degli eccidi fu il territorio di Biscari (odierna Acate), nel Ragusano, dove infuriarono i combattimenti per la conquista dell’aeroporto di San Pietro.

Una curiosità storica di un certo rilievo è la presenza tra i militari germanici dell’atleta Carl Ludwig Long, medaglia d’argento nel salto in lungo alle olimpiadi berlinesi del 1936, che videro la vittoria del mitico negro americano Jesse Owens.

Sull’avvenimento si è molto ricamato di fantasia. La solita vulgata vedrebbe nel biondo atleta tedesco addirittura un “antinazista” che sarebbe stato punito per aver stretto la mano al vincente Owens e spedito perciò in Sicilia, vale a dire su un fronte da considerare all’epoca di gran lunga il più tranquillo del resto d’Europa.

Una notizia che anche il giornalista televisivo tedesco, Udo Gümpel, presente tra gli invitati, ha definito inattendibile.

Qui Luz (così era popolarmente chiamato l’atleta di Lipsia) troverà sfortunatamente la morte, adempiendo fino in fondo, a dispetto delle menzognere illazioni di taluni “storici” a senso unico, al suo dovere di soldato tedesco.

Stessa cosa dicasi per il caso Owens e le ridicole affermazioni di alcuni autori “democratici” (Hitler non volle salutare il vincitore USA perché negro), platealmente smentite, con grande scorno dei soliti noti, dallo stesso atleta di colore, non solo nella sua autobiografia (The Jesse Owens Story, 1970), ma anche nelle interviste della stampa dell’epoca, come quella apparsa su The Pittsburg Press del 24 agosto 1936. Usando parole cortesi nei confronti del cancelliere tedesco, del quale riconobbe i pressanti impegni politici che limitavano la sua presenza ai giochi, Owens disse:“(…) Accadde che dovette [Hitler n.d.r.] lasciare lo stadio prima della cerimonia di premiazione dei 100 metri. Ma prima di andarsene – io mi accingevo a raggiungere una postazione radiofonica – passai accanto alla sua tribuna. Egli, allora, mi salutò con un cenno della mano e io feci altrettanto. Penso che sia stato di cattivo gusto criticare l’uomo del momento di un Paese estero” (l’articolo in originale è consultabile in  ).

Tornando ai fatti siciliani, Biscari non fu un caso isolato. Altri efferati episodi si registrarono all’aeroporto di Comiso e a Canicattì. A Comiso 110 militari dell’Asse furono sterminati a colpi di mitragliatrice (50 italiani e 60 tedeschi), mentre a Canicattì si fece strage della folla di civili che aveva tentato di saccheggiare una fabbrica (cfr. anche  ).

Indi nella zona di Stella, in provincia di Agrigento, fu perpetrato l’eccidio della comunità contadina e lo stesso territorio comunale di Gela fu teatro della barbarie dei liberatori, con numerosi episodi di massacri di civili e militari dell’arma dei carabinieri. Ad onor del vero, di queste stragi ne troviamo ampi e documentati resoconti anche in altre pubblicazioni che si sono occupate in questi ultimi anni dello sbarco alleato in Sicilia, che le stesse autorità italiane, di comune accordo con quelle statunitensi, hanno sempre cercato di relegare nel dimenticatoio della storia della II guerra mondiale, ignorando persino le denunce degli stessi sopravvissuti. Nel 2004 è stato infatti pubblicato il libro di Gianfranco Ciriacono, Le stragi dimenticate. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella (cfr. l’intervista all’autore a cura di Luciano Garibaldi pubblicata nell’ottima rivista “Storia in Rete”, n. 27, gennaio 2008, reperibile in  ) e, nel 2011, Gela 1943.

Le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia, di Fabrizio Carloni, edito sempre da Mursia. Una puntualizzazione doverosa, del tutto assente però negli interventi dei convenuti, riguarda il rapporto sbarco americano-mafia siciliana, con tutte le implicazioni politiche del dopoguerra, che taluni “scettici” si ostinano ancora a negare nonostante la vasta letteratura a riguardo (una sintesi bibliografica in  ).

Siamo del parere che una sommaria analisi storica e geopolitica degli avvenimenti, al di là dei fatti nudi e crudi, metta in evidenza come lo sbarco alleato, definito “operazione Husky” (già nel termine si vuole evidenziarne la forza bruta), fu meticolosamente progettato anche dal punto di vista ideologico.

Le efferatezze che ne seguirono non furono fatti isolati addebitabili al sadismo criminale di singoli personaggi, bensì conseguenze dell’indottrinamento psicologico al quale furono sottoposte le truppe d’occupazione. Un documento approntato dal comando americano e citato dal prof. Parlato dipinge i siciliani come pericolosi trogloditi, ai quali i soldati portatori di democrazia avrebbero dovuto riservare “particolari attenzioni”.

Come non scorgere in esso i prodromi del disegno di dominio atlantico (politico, militare, economico, culturale) che, dallo sbarco di Sicilia e dalla devastazione dell’Europa, passando da lì a pochi anni per la Corea e il Vietnam, giunge fino ai giorni nostri con l’assalto all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia e ora alla Siria e, prossimamente, forse anche all’Iran.

Con l’aggiunta della onnipresente longa manus dello zio Sam dietro alle politiche golpiste, stragiste e destabilizzanti negli affari interni dei singoli stati nazionali, sia in Europa che in America Latina, nonché i tentativi di “rivoluzioni colorate” nell’est europeo di questi ultimissimi tempi.


Difficilmente sulla stele a ricordo dei caduti, promessa dall’assessore siciliano Missineo nel luogo del martirio, leggeremo: “Agli eroi di Sicilia barbaramente trucidati nel luglio 1943 per aver difeso la Patria dagli invasori alleati”

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MessaggioInviato: Gio Giu 07, 2012 11:42 am    Oggetto:  
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...già quando uscì la prima edizione del libro "Uccidi gli italiani" ne avevamo discusso sul forum, commentandolo positivamente
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...ho letto anche la nuova edizione nella quale sono stati aggiunti i nomi di una parte degli italiani (civili e militari) vittime delle rappresaglie americane. L'elenco però è ben lungi dall'essere completo essendo il numero ben più elevato della settantina di nomi che Augello è riuscito a rintracciare. Ad ogni modo è un primo passo per ridare una identità e una dignità agli ITALIANI che che non vollero arrendersi allo strapotere militare del nemico anglo-americano.

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MessaggioInviato: Ven Lug 20, 2012 9:57 am    Oggetto:  
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Almeno un primo doveroso riconoscimento ufficiale è stato tributato alle eroiche vittime dell'Asse che combatterono per difendere l'Italia dall'invasore anglo-americano e che da esso furono vilmente trucidate a sangue freddo. Purtroppo la lista non é completa, poiché molti altri caddero a tradimento sotto i colpi degli invasori... ecco il servizio della Tv della repubblica bananara.

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...di seguito i filmati della commemorazione storica dell'episodio con alcuni degli autori dei libri dedicati alle stragi alleate in Sicilia

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" Forse che non conoscendo a fondo il pensiero del Duce si può affermare di essere fascisti? Noi diciamo di no! Che il fascismo non è istinto ma educazione e perciò è conoscenza della sua mistica,che è conoscenza di Mussolini" (N. Giani)
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MessaggioInviato: Lun Ago 06, 2012 12:37 pm    Oggetto:  
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Il primo l' hanno censurato! Very Happy
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MessaggioInviato: Mer Ago 08, 2012 12:21 am    Oggetto:  
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di Filippo Giannini

Mussolini approdò in Sicilia, a Palermo il 6 maggio 1924. Era in programma una visita ufficiale di quindici giorni. Da continentale aveva una visione vaga della mafia, ma ben presto la sua conoscenza su quel fenomeno si sarebbe approfondita.
Accompagnato in auto, a Piana degli Albanesi, dal sindaco di quella cittadina, Francesco Cuccia, detto don Ciccio, che ostentava sul petto la Croce di Cavaliere del Regno, pur essendo stato chiamato in giudizio per omicidio in otto processi, tutti risolti per insufficienza di prove, Mussolini avvertì un certo imbarazzo per il comportamento del notabile seduto al suo fianco.
Don Ciccio, osservato che il suo ospite era seguito da alcuni agenti, confidenzialmente diede un colpetto sul braccio di Mussolini e, ammiccando, gli disse: <Perché vi portate dietro gli sbirri? Vossia è con me. Nulla deve temere!>. Mussolini non rispose, ordinò di fermare la macchina e di far ritorno a Palermo.
Il giorno dopo ad Agrigento parlò ai siciliani e fu una dichiarazione di guerra alla mafia: <Voi avete dei bisogni di ordine materiale che conosco: si è parlato di strade, di bonifica, si è detto che bisogna garantire la proprietà e l’incolumità dei cittadini che lavorano. Ebbene vi dichiaro che prenderò tutte le misure necessarie per tutelare i galantuomini dai delitti dei criminali. Non deve essere più oltre tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra>.
Mussolini rientrò a Roma il 12 maggio e il giorno dopo convocò i ministri De Bono e Federzoni e il capo della polizia Moncada e chiese ad essi il nome di un uomo idoneo a battere il fenomeno malavitoso siciliano> (da “Benito Mussolini nell’Italia dei miracoli”). Il prescelto era Cesare Mori che per la lotta alla mafia si avvalse della preziosissima collaborazione del maresciallo Spanò.
In pochi anni la mafia venne stroncata, al punto che i così detti Pezzi da 90 furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti, dove trovarono fertile terreno. Purtroppo il fenomeno mafioso fu stroncato, ma non le sue radici, come vedremo.
A questo punto, e per completare gli antefatti del come “siamo caduti così in basso”, dobbiamo andare con la mente allo sbarco dei liberatori in Sicilia, ed esaminare, anche se sommariamente, il notevole apporto dato dalla mafia siculo-americana alla riuscita dell’operazione dei gangsters d’oltre oceano. Quanto segue è ripreso dal mio volume Dal 25 luglio a Piazzale Loreto.
E’ noto che la Sicilia – più di ogni altra regione italiana – manteneva da decenni stretti legami con gli Stati Uniti, data la notevole emigrazione di siciliani in quel Paese.
L’apporto della mafia americana alla riuscita dello sbarco in Sicilia è sempre stato minimizzato, o addirittura negato, dalle autorità storiche alleate; ma la documentazione in merito è così ricca da contestare l’assunto; e ciò è comprensibile, dato che fu una delle tante pagine vergognose dell’intera vicenda.
I primi contatti con la malavita americana non riguardarono l’operazione “Husky” (così fu indicato lo sbarco in Sicilia), vanno ricercati nell’individuare dei battelli, battenti bandiera americana, che navigavano in Atlantico, e che sin dai primi mesi del 1942 rifornivano di nafta, a peso d’oro, i sommergibili tedeschi che, prolungandone le missioni in mare, facevano strage di navi mercantili alleate. Per dar la caccia a questi “fornitori”, che si supponeva appartenessero all’organizzazione mafiosa, il “Naval Intelligence”, nella veste del comandante Radcliffe Haffenden, prese contatto con Giuseppe Lanza, di origine siciliana e capo del mercato del pesce che, coinvolgendo altri personaggi, fece sapere che se si voleva stroncare la rete dei battelli atlantici, il personaggio all’uopo indicato era Luky Luciano. Dopo qualche tentennamento il “Naval Intelligence” inviò due alti ufficiali della Marina U.S.A. ad incontrare Moses Polakoff, avvocato del gangster, e tutti insieme si recarono nel carcere per un colloquio con l’influente detenuto. Questo ottenne la revisione del processo che poi risulterà essere la strada per il suo definitivo rientro, da uomo libero, in Italia. Lucky Luciano fornì le informazioni necessarie, tanto che, in poche settimane, la Marina americana riuscì a sgominare la rete che alimentava i sommergibili tedeschi.
Così, quando verso la fine del 1942 maturò l’idea di uno sbarco in Sicilia, Haffenden si rivolse di nuovo a Luciano. Questi chiese di essere messo in contatto con i suoi “colleghi” Joe Adonis e Franck Costello, nonché Vito Genovese e altri; tutti insieme questi “gentiluomini”, tramite oscure ramificazioni che erano sopravvissute ai duri colpi inflitti dal prefetto Mori, e tra questi Calogero Vizzini, indiscusso capo della mafia siciliana, si attivarono per favorire il programma predisposto dal controspionaggio americano. Vizzini garantì alloggi e assistenza ad alcune centinaia di agenti americani paracadutati o sbarcati nell’isola e fornì loro informazioni militari di tale importanza che questi agenti, la notte dello sbarco, riuscirono ad uccidere la maggior parte delle sentinelle che vigilavano sui centri di comunicazione e di direzione delle artiglierie costiere.
Una delle funzioni di Adonis era identificare e reclutare italo-americani con collegamenti in Sicilia. Nel maggio 1943 fu creata la “Sezione F” che aveva il compito di radunare e selezionare la massa di dati che venivano raccolti. Sempre in quel mese l’ammiraglio Hewit scoprì che non aveva ufficiali che parlassero italiano. Hewit contattò prontamente Washington, chiedendo che gli venissero forniti ufficiali qualificati per questo compito. La richiesta fu accolta e vennero selezionati quattro ufficiali in possesso delle qualifiche richieste. Questi fecero parte della prima ondata di sbarco e presero terra nella fascia tra Gela e Licata. La loro missione consisteva nel raccogliere informazioni sui campi minati e sui depositi militari dell’Asse.
Al momento dello sbarco gli ufficiali americani della “Sezione F” erano in possesso di un elenco di personaggi siciliani fornito dalla mafia di New York. La maggior parte dei nomi dell’elenco risultarono essere personaggi della malavita siciliana, come a guerra finita testimoniò uno degli ufficiali: il tenente Paul A. Alfieri.
Ė opportuno citare almeno l’opera disgregatrice effettuata dai gruppi di separatisti guidati da Finocchiaro Aprile. Questi poteva contare sull’aiuto di personalità della nobiltà terriera siciliana che notoriamente aveva, sin dai tempi di Nelson, forti legami con l’Inghileterra. Questi gruppi antifascisti operarono dal 1942 con una serie di sabotaggi, il più notevole dei quali fu condotto contro l’aeroporto di Gerbini, sede della caccia tedesca.
Lo stesso clero siciliano – o almeno la maggior parte di esso – non fu secondo nell’opera di disgregazione morale e di aiuto alle iniziative alleate tese a svilire lo spirito combattivo dei militari.
Se fino all’autunno del 1942 le intenzioni degli strateghi angloamericani erano distanti dal solo esaminare la possibilità di un attacco alla Sicilia, in quanto gli italiani, a detta di Alexander e di Montgomery, si erano battuti bene in Africa, a maggior ragione, ritenevano, avrebbero difeso con più forte motivazione il proprio territorio. E questo era sostenuto anche dalla stampa internazionale. Ma ciò che, a nostro avviso, convinse ancor più gli Alleati che la Sicilia era un obiettivo invitante, e dai rischi strettamente militari relativamente circoscritti, era il fatto che “Supermarina” già da alcuni mesi (esattamente dal 6 dicembre 1942) aveva spostato la ancora temibilissima flotta italiana dai porti del sud Italia a quelli, ben più distanti, al nord. La motivazione era di allontanarla da facili offese aeree. E’ un fatto che gli alleati, dopo l’occupazione del nord Africa, pur disponendo, quindi, di basi aeree tali da portare attacchi in qualsiasi area del bacino del Mediterraneo, non sganciarono alcuna bomba sulla flotta italiana.
Solo lo sviluppo delle situazioni sopra riportate convinse Churchill e Roosevelt che la Sicilia era un obiettivo appetibile perché di rischi limitati: anche se, poi, le cose non andarono esattamente come gli angloamericani si aspettavano.
Le responsabilità dei personaggi incontrati in questo capitolo furono notevoli, perché senza le loro manovre la guerra si sarebbe decisa altrove, non avrebbe devastato il nostro Paese e non avremmo subito l’8 settembre con tutto ciò che quella data ancor oggi rappresenta.
L’invasione della Sicilia venne preceduta da mesi di terrorismo aereo, coinvolgendo in questa operazione città piccole e grandi. Scrive Antonio Falcone (“StoriaVerità”, N° 22): I bombardamenti a tappeto subiti da Messina furono di tale intensità che alla fine non restava più da bombardare che le macerie, cosa che gli alleati continuarono a fare con particolare accanimento. Palermo arrivò a subire ben dodici incursioni nello spazio di 120 minuti: le “fortezze volanti” si succedevano in formazioni di 50 per volta e aravano la città in lungo e in largo scaricando a casaccio tonnellate di esplosivo. Nei primi di luglio le incursioni diventarono ininterrotte, con il bombardamento contemporaneo di Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Agrigento, Trapani, Augusta ed altri centri. Poi fu la volta dei centri minori, e poi anche quella dei villaggi e persino delle campagne, dove gli incursori si divertivano a mitragliare perfino i contadini intenti ai lavori. Il giorno e la notte precedenti lo sbarco, l’offensiva raggiunse il massimo di intensità, tanto che i pochissimi aerei italiani ancora in grado di combattere riuscirono ad abbattere 58 apparecchi nemici in 48 ore. Come racconterà poi uno di questi ultimi difensori del cielo siciliano, le formazioni nemiche erano così massicce che bastava sparare nel mucchio, alla cieca, per essere sicuri di colpire. Al momento dello sbarco, l’isola era dunque completamente disarticolata>.
Veniva messa in pratica anche in Sicilia quella “metodologia” studiata nei dipartimenti di Buchinghamshire, procedura da adottare per la distruzione delle città nemiche. L’insediamento avvenne nel marzo 1940: il Quartier Generale del “Bomber Command”, costituitosi ufficialmente sin dal 14 giugno 1936 presso Uxbridge. Uno degli organizzatori della nuova tecnica di guerra fu il già ricordato Sir Arthur Harris, tristemente definito proprio dai suoi “the Butcher”, cioé “il macellaio”.
Fu proprio sulla Sicilia che vennero usate, verso la fine del 1942, le prime bombe “block-buster” da 8.000 libre. Oltre alla morte che proveniva dal cielo, si doveva lamentare la quasi totale distruzione degli impianti, delle comunicazioni, della rete stradale e ferroviaria e, di conseguenza, i rifornimenti dal continente si ridussero vicino allo zero e l’amministrazione militare dovette provvedere a sfamare i civili. Edda Ciano, la figlia del Duce, in quel momento si trovava in Sicilia quale crocerossina e scrisse una lunga lettera al padre evidenziando le spaventose carenze alimentari, mediche alle quali erano sottoposti i siciliani che, a suo dire, si comportavano ugualmente con coraggio di fronte ai bombardamenti.
Lo scopo della “guerra totale” si stava raggiungendo in quanto la popolazione esausta, affamata, attendeva l’arrivo degli invasori come la fine di un incubo, come una “liberazione”.
Quanto sopra riportato è confermato dai verbali segreti riguardanti una riunione presieduta da Hitler del 20 maggio 1943; riunione a cui parteciparono von Keitel, Rommel, Neurath e parecchi altri alti ufficiali; il manoscritto della riunione è custodito nella biblioteca dell’Università della Pennsylvania. Hitler chiede notizie sulla situazione in Sicilia a Neurath e questi risponde: <Sì, mio Führer, ci sono stato e ho parlato col generale Roatta (in quel momento comandante della 6° armata italiana in Sicilia, nda). Tra l’altro Roatta mi ha detto di non aver troppa fiducia nella difesa della Sicilia. Ha sostenuto d’essere troppo debole e di avere truppe male equipaggiate. Soprattutto ha una sola divisione motorizzata; le altre sono fisse. Ogni giorno gli inglesi fanno del loro meglio per bombardare le locomotive delle ferrovie siciliane, perché sanno benissimo che è quasi impossibile portare materiale per sostituirle o ripararle, quando non sia impossibile del tutto (…). Delle navi traghetto – credo che ce ne fossero sei - n’è rimasta soltanto una (…)>.
In questa situazione, appena sufficientemente tracciata, il 10 luglio 1943 le forze alleate mettevano piede sull’isola. Per la precisione, i primi a toccare terra furono gli uomini di una Brigata aerotrasportata britannica e un reggimento di paracadutisti americani dell’82° Divisione partiti da Tunisi. Quest’operazione si sviluppò la sera del 9 luglio, cioè sette ore prima degli sbarchi; l’intento era di prendere alle spalle le difese costiere italiane. L’operazione risultò disastrosa per gli alleati: 61 velivoli vennero abbattuti (alcuni addirittura dal “fuoco amico”), altri dovettero rientrare alle basi o andarono dispersi. Solo dodici alianti britannici e circa duecento paracadutisti americani poterono prender terra nei punti stabiliti. Ma la maggior parte di essi venne catturata.
La mattina del 10 luglio, improvvisamente, la battaglia divampò sul mare, nel cielo, e nella striscia di territorio costiero corrispondente all’angolo sud-orientale della Sicilia, tra Licata e Augusta


Che la tensione nervosa e il timore dell’ignoto degli invasori fossero elevati è l’unica giustificazione che si può concedere per le atrocità messe in atto sin dai primi momenti degli sbarchi.
Si deve ad un paracadutista americano l’aver portato a termine la prima “operazione bellica”: toccata terra nella campagna di Vittoria (Ragusa), pugnalò un pastore accanto alle sue pecore. Questo non fu che l’inizio delle efferatezze compiute dalle forze Alleate – come documenteremo nel corso di questo volume – ricordandone le più eclatanti, anche se poco o affatto conosciute.
Il maestro Rocco Tignino di Licata, ben noto nel paese per il suo antifascismo, capì subito che se gli americani entravano nel paese la guerra era finita. Il maestro esce sul balcone esultante e per tre volte urla: viva la libertà. Una raffica di mitra, sparata dagli americani, lo fulmina all’istante.
Il podestà di Biscari Salvatore Mangano, suo figlio Valerio, studente liceale, il fratello Ernesto, ufficiale medico in licenza dal fronte russo, decisero di portare le proprie donne lontano dalla zona di sbarco e di combattimento. Il prefetto indossava la divisa delle autorità fasciste per facilitare <il transito nel caso si fossero imbattuti in qualche posto di blocco dell’esercito italiano>. Tutti presero posto nella “Balilla” di proprietà del prefetto e si avviarono a Modica, piccolo centro in provincia di Ragusa. <Arrivati a metà strada della provinciale Acate-Vittoria, l’auto venne fermata da una pattuglia di americani che da qualche ora avevano raggiunto quello snodo viario>. Gli americani fecero scendere gli occupanti; gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Benché disarmati furono fucilati sia il Podestà che il figlio Valerio. <Molte autorevoli testimonianze vogliono che il figlio fosse stato ucciso nell’atto di scagliare un sasso in faccia agli esecutori per vendicare l’ingiustificata e gratuita morte del padre. Raccontano anche che sia stato trovato abbracciato al padre col volto imberbe sfregiato da un’arma da taglio (forse un colpo di baionetta)>. Certamente anche il capitano medico Ernesto Mangano venne ucciso <insieme a parecchi altri “ritenuti pericolosi”>, in quanto <di lui non si ebbero mai più notizie>.
Carlo D’Este, nome italiano di un ufficiale americano, autore del libro “1943: lo sbarco in Sicilia”, scrive che la difesa italo-tedesca fu costretta ad arretrare e a concentrarsi intorno agli aeroporti di Comiso e Biscari. Alla difesa partecipavano soprattutto i militari della “Livorno” e reparti della 219° Divisione Costiera. L’attacco era portato dagli americani della 45° Divisione, comandata dal generale Patton, e in particolare su Biscari operavano i fanti del 180° Reggimento. Carlo D’Este a pagina 254 e seguenti scrive: <La lotta prolungata per la conquista del campo d’aviazione di Biscari diede origine al primo ripugnante incidente della campagna. In due episodi separati, settantatre prigionieri di guerra italiani, furono massacrati da un capitano e da un sergente del 180° Reggimento della 45° Divisione. Gli scontri, che erano iniziati il giorno D tra le due forze avversarie, si erano fatti accaniti intorno alla strada provinciale 115. Prima dell’invasione, Patton aveva parlato personalmente all’intera divisione e aveva avvertito le sue truppe di ciò che le aspettava in Sicilia: (dalla documentazione che più avanti presenteremo, Patton) “ammonì (i suoi uomini, nda) di fare molta attenzione nei casi in cui i tedeschi o gli italiani avessero alzato le mani mostrando l’intenzione di arrendersi. Affermò che qualche volta il nemico si comportava in quel modo per far abbassare la guardia ai soldati. Patton avvertì i membri della 45° Divisione di stare attenti a quell’insidia e di ‘uccidere quei figli di prostituta’, a meno che non fossero certi della loro reale intenzione di arrendersi”>. Da parte sua il colonnello Federeck E. Coockson, della 180°, affermò che le parole del generale Patton bisognava interpretarle nel giusto significato: <Vero è che desiderava una Divisione di killers e che durante i combattimenti non dovevamo prendere prigionieri>.
Continua D’Este: <Vicino all’aeroporto di Biscari, il 14 luglio una forza di fanteria incominciò a essere bersagliata dall’artiglieria pesante e dal fuoco dei tiratori scelti. Durante lo scontro che ne seguì dodici uomini furono feriti dalle granate prima che la piccola forza nemica si arrendesse. Risultò che si trattava di un gruppo di trentasei italiani, parecchi dei quali indossavano abiti civili. Il comandante della compagnia di fanteria ordinò di uccidere i prigionieri, al che essi furono allineati sull’orlo di una vicina fossa e giustiziati da un plotone di fanteria. Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria catturò quarantacinque italiani e tre tedeschi>. Un sottufficiale americano ricevette l’ordine di scortare i prigionieri nelle retrovie per essere interrogati. <Dopo circa un chilometro e mezzo di strada il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono allineati. Spiegando che avrebbe ucciso quei “figli di prostituta”, il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente eliminò gli sventurati italiani>.
Gli ispiratori e gli autori di questo massacro furono, oltre al generale Patton, il capitano Jhon T. Campton che impartì l’ordine, e il sergente Horace T. West che l’eseguì. Lo stesso sergente West, nel corso del giudizio, affermò <che nel corso del trasbordo, fecero ricorso all’uso di droghe>. Lo stesso sergente, sempre nel corso dell’inchiesta, fra l’altro disse: <Sin dai primi combattimenti, ebbe l’impressione che i soldati tedeschi fossero molto crudeli; ma non da meno furono i soldati americani che, alle prime case che visitarono, rastrellarono e rubarono tutto ciò che era commestibile e violentarono le donne che vi vivevano, alla presenza dei bambini>.
I due episodi non passarono inosservati e il generale Omar Nelson Bradley, comandante del Secondo Corpo d’Armata, ordinò che gli autori fossero immediatamente deferiti alla Corte Marziale, con l’accusa di “premeditato assassinio di 84 prigionieri di guerra”.
La Corte Marziale a fine agosto 1943 sentenziò la non colpevolezza del generale Patton e del capitano Campton; mentre il sergente West fu condannato all’ergastolo. Dopo un anno di prigione, la condanna del sergente fu commutata in servizio di prima linea. Il capitano Campton, ripreso servizio, morì durante un’azione di guerra.
E non abbiamo accennato alle prodezze dei marocchini del generale francese Alphonse Juin, o delle americanate compiute a Pantelleria o a Castelnuovo delle Marche, o la teoria del Moral Bomber. E – a proposito – quando si parlerà dei barili di gas nervino (made in Usa) che ancora, pericolosissamente, giacciono sul fondale di Bari?
Ne riparleremo!
Dopo essere stati liberati e soggiogati da cotanti manigoldi e essere ancora sottomessi al loro america way of living, ci chiediamo ancora COME SIAMO CADUTI COSI’ IN BASSO?
Nel 2002 mi recai in Sicilia nelle zone dove avvennero i fatti. Raccolsi varie testimonianze e al ritorno, per accrescere la documentazione scrissi al Department of the Army di Arlington in Usa, al quale chiesi tutta la documentazione del caso. In data 8 ottobre 2002 il Dipartimento mi inviò quanto richiesto, cioè il processo a carico degli autori del massacro. Il tutto, tradotto in italiano, è contenuto in appendice nel mio volume sopra citato.

Termino questo articolo oggi, 27 luglio 2012, quando hanno inizio le olimpiadi. Solo per curiosità: quanti sanno che nelle Olimpiadi del 1932 l’Italia Fascista nel medagliere fu seconda solo dietro agli Stati Uniti e nel 1936 si piazzò terza?
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MessaggioInviato: Lun Ott 29, 2012 11:27 am    Oggetto:  
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...conosco personalmente G.Bartolone e posso senz'altro affermare che è stato tra i primissimi ad indagare anni addietro sui crimini degli Alleati durante lo sbarco in Sicilia, col rigore scientifico necessario ad un ricercatore che non si vuol limitare ad articoli sensazionalistici finalizzati alla celebrità di un effimero momento ma ad un'autentica ricerca storica che sancisca un effettivo ed indiscutibile progresso nella conoscenza di fatti ed avvenimenti epocali. Questa intervista riassume in modo efficace i molti anni che egli ha dedicato a tale ricerca, pertanto, la consiglio a tutti coloro che vogliono farsi un'idea chiara sui punti ormai storicamente accertati ed incontrovertibili inerenti la tragica vicenda dell'invasione alleata dell'Italia.


IERI COME OGGI: I CRIMINI DIMENTICATI DEGLI ANGLOAMERICANI

LA SICILIA E L’ITALIA MERIDIONALE DURANTE L’INVASIONE ALLEATA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE


 

Federico Dal Cortivo per Europeanphoenix ha intervistato lo storico siciliano Giovanni Bartolone autore del libro revisionista “Le altre stragi”, da anni impegnato in ricerche sullo Sbarco alleato in Sicilia, la Mafia e la Seconda Guerra Mondiale.

D: Prof. Bartolone, oggi assistiamo alla sistematica violazione delle più elementari norme di comportamento in caso di guerra da parte degli Stati Uniti e dei suoi Alleati della Nato. A farne le spese le popolazioni afghane e libiche e prime ancora quelle irachene, serbe, somale, vietnamite ecc. Tutto cade nell’oblio mediatico embedded, non se ne parla e al massimo è giustificato come “danni collaterali”. Eppure questo è già accaduto in Europa e nel nostro caso in Italia, dopo che le forze d’invasione Alleate sbarcarono in Sicilia con l’Operazione denominata Husky (Colosso) nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943: 2500 navi e mezzi da sbarco, ottanta battaglioni di fanteria, 400 carri armati, 14000 veicoli e 1800 pezzi d’artiglieria. Sette le divisioni di fanteria, tre britanniche, una canadese e tre statunitensi, una divisione corazzata Usa, due brigate corazzate britanniche e una canadese, più truppe aerotrasportate e forze speciali, più ingenti forze aeree e navali.

Lei descrive tutto questo nel suo libro “Le altre stragi”. Numerosi furono i crimini di guerra compiuti dai soldati angloamericani e canadesi, ma al seguito vi erano anche indiani, sudafricani, australiani neozelandesi, polacchi, truppe di colore francesi, greci, polacchi e anche brasiliani. Prima di addentrarci nello specifico ci illustri la situazione tattica e strategica in cui si trovava in quell’estate del 1943 lo scacchiere del Sud Italia.




Dopo la perdita del Nord Africa, nel maggio del 1943, era quasi sicuro che presto o tardi gli Alleati avrebbero aperto, come chiedeva Stalin, un secondo fronte in Europa. Non si sapeva però il luogo: Sicilia, Sardegna, Grecia, o altro? Il peso del conflitto fino a quel momento in gran parte gravava sulla Russia, che si lamentava. Durante la Conferenza di Casablanca, Marocco, gli Alleati dopo lunghe discussioni, decisero che l’assalto alla Fortezza Europa sarebbe iniziato con lo sbarco in Sicilia, la cui conquista avrebbe provocato il crollo del Fascismo e l’uscita dalla guerra dell’Italia.

La Conferenza di Casablanca (nome in codice Symbol) si tenne dal 14 al 24 gennaio 1943, per pianificare la strategia europea degli Alleati per il resto della guerra. Furono presenti il presidente Americano Franklin D. Roosevelt, il premier britannico Winston Churchill e il generale Charles de Gaulle, capo della Francia Libera.

Durante la Conferenza, svoltasi all'Hotel Anfa, fu deciso che, dopo la fine delle operazioni militari in Africa Settentrionale, si sarebbe attaccata l'Italia, considerata un obiettivo facile (Churchill la definì "il ventre molle dell'Asse" - the soft underbelly of the Axis), sia per la vicinanza alle basi aeronavali alleate in Tunisia, sia per il suo stato di crisi politico-militare interna. Inoltre, si stabilì un piano congiunto anglo-americano di bombardamento sistematico della Germania, oltre che dell’Italia, per distruggere il potenziale bellico dell'industria tedesca e abbattere il morale della popolazione in vista di un futuro sbarco oltre il Vallo Atlantico, rinviato, nonostante i piani studiati nell'estate 1942 (operazione Round-Up), al 1944. I due leader anglosassoni si accordarono anche sul principio della resa incondizionata da imporre alle Potenze nemiche: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria finale, senza trattative con la Germania, con l'Italia o con i loro alleati. Era già, infatti, chiaro ai comandi alleati che la resistenza nemica in Africa sarebbe presto finita, presa ormai nella morsa da ovest e da est rispettivamente dagli americani e dai britannici.


Churchill e Roosevelt dovevano stabilire una strategia che portasse alla definitiva sconfitta dell'Asse in Europa e che nello stesso tempo fosse avallata anche dal dittatore sovietico Stalin, loro alleato. La Russia premeva ormai da qualche tempo affinché fosse aperto dagli Alleati il secondo fronte in Nord Europa, per diminuire la resistenza tedesca su quello orientale. Le mire di Stalin di dominare l'Europa centrale e orientale erano chiare. Chiedeva che l'impegno angloamericano si tramutasse in uno sbarco nel nord della Francia. Avrebbe evitato eventuali diversioni degli Alleati nella sua sfera d'influenza. Churchill era consapevole delle mire espansionistiche sovietiche e sebbene le considerasse una minaccia futura, era disposto al momento a dimostrarsi compiacente. Tuttavia non voleva piegarsi interamente ai voleri russi tanto che la sua linea strategica militare andava a scontrarsi con quella russa. Per Churchill la priorità era di colpire duro l'Italia. Per Londra l’Italia dal punto di vista militare, economico e politico era in pessime condizioni. Gli italiani, pensava, sottoposti a continui bombardamenti, con i viveri razionati, erano stanchi della guerra e avevano perso fiducia nel Duce e nel Fascismo. L'esercito, valoroso ma mal equipaggiato e mal guidato, pieno negli alti gradi di traditori, aveva subito dure sconfitte in Africa e premeva affinché si uscisse subito dalla guerra. Tutto questo rendeva possibile un crollo del regime e l'uscita dell'Italia dal conflitto, la quale però poteva anche essere raggiunta tramite uno sbarco nella Penisola.

Churchill voleva occupare la Sardegna: avrebbe permesso uno sbarco nell'Italia centrale e da lì un’offensiva nei Balcani. Questa strategia era fortemente osteggiata dal capo di stato maggiore statunitense Marshall, il quale, già contrario alle operazioni in Nord Africa, pressava per sbarcare nella Francia settentrionale, sconfiggere la Germania e poi il Giappone. Ma la sua tesi non convinse Roosevelt, il quale soprattutto per ragioni logistiche considerava lo sbarco in Francia un azzardo: poteva tramutarsi in un disastro tipo Dieppe 1942. Questo sbarco fu rimandato al 1944, prima era necessario eliminare la presenza dell’Asse nel Mediterraneo, che minacciava le rotte verso l'Egitto.

Le tesi di sir Alan Brooke, capo di stato maggiore britannico, sull'impossibilità di uno sbarco in Francia, anche per il forte numero dei sommergibili tedeschi e la scarsità di navi trasporto truppe, persuasero gli americani ad attaccare l'Italia, se non si voleva stare a guardare combattere i soli sovietici. La strategia di Churchill, di sbarcare in Sardegna, fu subito osteggiata dagli americani, che capirono dove lo statista inglese si sarebbe voluto spingere. La sua strategia era avvertita dagli americani come la risultante del mai sopito spirito colonialista britannico che tanto era detestato e avversato a Washington. Inoltre Roosevelt, in ottimi rapporti con Stalin, non voleva provocare nuove tensioni all'interno di un'alleanza che era ancora sentita come precaria e contingente. Si decise così di conquistare la Sicilia allo scopo di alleggerire la pressione germanica sul fronte russo, rendere più sicure le linee di comunicazione nel Mediterraneo e aumentare la pressione sull'Italia.
Churchill accettò la decisione di sbarcare in Sicilia perché se l’Italia si fosse arresa subito, vi sarebbe stata la ragionevole speranza che anche la neutrale Turchia entrasse in guerra contro la Germania, il che avrebbe portato ad avere un piede nei Balcani e frenarvi l’avanzata sovietica. Churchill nella successiva conferenza di Washington, paventava che l'operazione Husky, il nome in codice dello sbarco in Sicilia, fosse interpretata in maniera limitativa, tant'è che caldeggiò ripetutamente, con Eisenhower, comandante in capo delle forze armate alleate nel Mediterraneo, il completo sfruttamento delle opportunità che l’occupazione comportava, ricordando l'importanza dei campi d'aviazione di Foggia e del porto di Napoli. Gli americani non capivano però tanta preoccupazione e diffidavano delle insistenze britanniche nell'occupazione della Penisola.

Nella notte tra il 9 e il 10 luglio iniziava lo sbarco nella cuspide meridionale dell’Isola. Vide impegnate la 7ª Armata del generale americano George Patton e l'8ª Armata del generale britannico Bernard Montgomery contro il 6° Corpo d'armata italiano, comandato dal generale Alfredo Guzzoni, coadiuvato da 3 Divisioni tedesche - la 15ª Panzergrenadier Sizilien, comandata dal generale Eberhard Rodt, la Panzer Hermann Goering, agli ordini del generale Paul Conrath e la 29ª Divisione Granatieri corazzati, la celebre Falco (dal 19 luglio), annientata a Stalingrado e da qualche mese ricostituita, comandata dal generale Walter Fries - e dal 3° e 4° Reggimento paracadutisti, agli ordini dei tenenti colonnelli Ludwing Heilmann ed Erich Walter e dal gruppo Neapel, formato da un Battaglione del gruppo Fullriede e dalla 215ª Compagnia corazzata, comandato dal colonnello Geisler. Nonostante la dura resistenza, le numerose perdite, gli innumerevoli atti d’eroismo e l'ottima tattica di sganciamento e ripiegamento attuata dai reparti dell’Asse, specie dai tedeschi, gli Alleati, entrando il 17 agosto a Messina finirono la campagna. Avevano speso più tempo del previsto e ben di più di quanto avevano impiegato i tedeschi a conquistare la Francia, la Polonia e la Iugoslavia.

L’enunciazione del nuovo principio della resa incondizionata provocò l’incattivirsi della guerra, della volontà di resistenza dei nemici e una decina di milioni di morti in più. Prima di Casablanca le Potenze durante una guerra cercavano di giungere a un compromesso che chiudesse in anticipo un conflitto in corso. Dopo Casablanca la pace significava la sconfitta totale del nemico.

Nella campagna di Sicilia, le perdite nelle truppe dell'Asse furono consistenti. Le forze militari presenti in Sicilia toccarono la cifra di 320.000 uomini. Di questi, quasi 192.000 erano italiani e 62.500 germanici. Gli addetti ai servizi erano 60.000 italiani e 5.000 tedeschi.

I militari italiani uccisi furono 4.678. Quelli tedeschi furono 4.325. I prigionieri italiani furono 116.681, mentre quelli tedeschi 5.523.

Alla fine della campagna, si registrarono tra le file italiane 36.072 dispersi, mentre tra quelle tedesche 4.583.

Gli Alleati lasciarono sui campi di battaglia 2.237 soldati statunitensi e 2.062 britannici. I feriti americani furono 5.946 mentre quelli britannici 7.137.

I prigionieri americani furono 598, quelli britannici 2.644 (tra cui molti dispersi). In Sicilia si ammalarono di malaria 9.892 americani e 11.590 britannici.

La Marina USA ebbe 546 caduti e 484 feriti; in quella britannica vi furono 314 morti e 411.

L’Aviazione americana lamentò 28 morti, 40 feriti e 88 dispersi. Per quella britannica non ho al momento i dati.

Le cifre anzidette sui caduti dell’Asse non furono quelle reali. Perché si riferiscono alle salme inumate nei cimiteri siciliani. Ben dice il generale Emilio Faldella, in quel tempo Capo di S.M. delle FF. AA. Sicilia, quando ricorda che: “Molte salme furono inumate sui campi di battaglia, in fosse comuni, che non furono in seguito individuate; Marinai e numerosi Aviatori si inabissarono nei mari intorno all’Isola”.

Non ho il numero delle perdite civili ma furono moltissime.

D: Che cosa avvenne dopo che le truppe d’invasione sbarcarono, quale fu il comportamento tenuto sul campo nei confronti dei soldati italo-germanici? I britannici distribuirono un manuale a uso delle loro truppe, dove gli italiani e la loro terra erano dipinti come arretrati e semibarbari, senza contare i proclami di Patton del tipo “Uccidete, uccidete senza pietà, massacrate con determinazione”, anche i prigionieri.

Nei primi giorni dopo lo sbarco i comportamenti degli invasori furono molto duri verso i prigionieri e verso i civili. Compirono numerose stragi, completamente ignorate dalla storiografia ufficiale. Solo da qualche anno sono state portate alla luce da alcuni studiosi indipendenti. Dopo l’atteggiamento nei confronti degli italiani cambiò: non potevano a sangue freddo assassinare migliaia di prigionieri di guerra. Le rappresaglie potevano colpire anche i loro uomini. E le voci di stragi contro i civili o militari dell’Asse già cominciavano a circolare. Meglio smettere.

Ai militari alleati furono consegnati due manuali nei quali i siciliani erano dipinti come semibarbari e arretrati. Mi riferisco al Soldier’s Guide to Sicily, destinato ai soldati, e il Sicily Zone Handbook 1943, riservato agli ufficiali.

Gli alleati temevano di più tedeschi, di meno gli italiani. Li avevano visti all’opera sui vari fronti e ne avevano apprezzato il coraggio. Ma sapevano delle deficienze di comando e di armamento del Regio Esercito. Dopo alcuni vergognosi episodi – ad esempio la caduta della piazzaforte di Augusta e le diserzioni di massa di alcuni reparti delle unità costiere, costituiti principalmente da militari anziani, i difensori nell’Isola ebbero una triste sorte: se si arrendevano senza combattere, li disprezzavano inglesi e tedeschi; ma se si facevano ammazzare in battaglia, allora quel sacrificio appariva inutile! C’è da dire che la storiografia più recente sta ristabilendo la verità. E i numeri degli italiani caduti in Sicilia dimostrano il sacrificio e il valore del soldato italiano in Sicilia. Per motivi vari molti avevano l’interesse parlare male delle truppe italiane impiegate in Sicilia. Una parte del Fascismo repubblicano, ad esempio Farinacci, vide in certi vergognosi episodi accaduti in Sicilia il tarlo che avrebbe portato poi alla crisi dell’esercito dell’8 settembre. L’antifascismo vincitore non poteva esaltare i caduti di una guerra fascista, e furono date disposizioni per limitare il numero delle onorificenze per la Campagna di Sicilia. La pubblicistica anglosassone spesso e volentieri ignora la presenza di truppe italiane durante i combattimenti, e anche quando furono impiegati solo reparti italiani parla di tedeschi. Sicuramente la preponderanza delle forze nemiche spinse numerosi militari siciliani, specie quelli dei reparti costieri e delle classi anziane, a sbandarsi e tornare a casa, ma tanti altri impugnarono le armi contro i nemici. Numerosi furono i civili che parteciparono ai combattimenti. E numerosi furono quegli che poi aderirono ai gruppi del Fascismo clandestino, costituitisi già l’indomani dell’occupazione dell’Isola.

Indubbiamente il discorso di Patton agli ufficiali in Algeria alla vigilia dello sbarco contribuì al compimento di alcune stragi. Del resto gli angloamericani venivano per occupare una terra nemica: la Sicilia, l’Italia. La loro parola d’ordine al momento dello sbarco era: “Uccidi gli italiani”.



D: Ci può citare gli episodi più famosi, ma al tempo stesso i più sottaciuti per tanti anni, in cui le truppe dei “liberatori” si macchiarono di crimini di guerra? Quali furono le misure prese dai comandi Alleati una volta che si vennero a sapere degli eccidi commessi? Vi fu qualcuno che pagò davanti alla Corte Marziale o alla fine si preferì zittire tutto e mandare assolti o condannati solo a pene lievi gli imputati?Il paragone con la strage del Monte Cermis del 1998, dove alla fine nessuno degli ufficiali dell’Us Air Force ha pagato, è d’obbligo; mai nessuna Norimberga fu istituita per gli Alleati, che invece ancor oggi pretendono di giudicare gli sconfitti e processare anche i loro capi, Saddam e Milosevic sono gli esempi a noi più vicini.

Durante l’invasione della Sicilia gli Alleati si resero responsabili di alcune stragi. Di tre furono vittime i civili, di altre i militari italiani.

Penso che ci siano stati anche altri massacri di militari tedeschi, oltre a quelli dei quali parlo, visto l’odio che avevano gli alleati contro i soldati del Reich, considerati il male assoluto. Salvo alcune accuse del generale Rodt per alcune fucilazioni di alcuni soldati arresisi ai canadesi nella Sicilia centrale, non ho al momento altre prove in merito. E’ solo una mia supposizione.

Anche i tedeschi durante la Campagna di Sicilia compirono due stragi di civili - una a Canicattì e l’altra a Castiglione – e vicino Messina massacrarono alcuni carabinieri sbandati, presi per disertori. Questi crimini sono stati volutamente dimenticati dalla cultura dominante. Anche se la strage di Castiglione è un po’ nota, soprattutto, ma erroneamente, per essere stata indicata da molti studiosi come la prima strage tedesca in Italia. E’, generalmente, però sconosciuta a livello di massa. Ed è celebrata sotto tono, durante le annuali celebrazioni resistenziali. Ricordare questa strage avrebbe portato, presto o tardi, a parlare delle altre compiute dagli Alleati in Sicilia.

Quelle avvenute in Sicilia nel 1943 sono tra le pagine più nere della storia militare americane. Pagine sulle quali gli storici negli Stati Uniti di­scutono da molti anni, mentre in Italia queste vicende sono pressoché sconosciute. Nelle università nordamericane ci sono corsi dedicati a queste stragi, come quello te­nuto a Montreal sul tema “Dal massacro di Biscari a Guantanamo”. Negli USA anni fa gli esperti di diritto militare hanno valutato le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla ba­se delle precedenti decisioni emesse delle corti marziali che giu­dicarono i “fucilatori d’italia­ni”. Perché - com’è a­gli atti di quei processi - i militari america­ni si difesero sostenendo di avere soltanto ubbidito agli ordini del generale Patton. “Ci era stato detto - dissero - che il ge­nerale non voleva prigionieri”.

Per fortuna però da alcuni anni il velo di oblio e di omertà incomincia a squarciarsi, grazie al lavoro oscuro ma prezioso di alcuni solitari studiosi, specie siciliani.

L’Isola patì a causa della guerra più di qualsiasi altra regione d’Italia: bombardamenti a tappeto, disoccupazione, carestia, banditismo, stragi, ecc. Solo il terribile flagello della guerra civile le fu risparmiato. Del resto la Sicilia nei piani Alleati era indicata col nome in codice di Horrified (atterrita, sconvolta). Con fine senso dell’umorismo volevano indicare quali dovevano essere le condizioni dell’Isola e dei siciliani al momento dello sbarco. La Sicilia fu la prima e la sola regione italiana a essere “occupata” e i siciliani furono gli unici italiani a essere definiti e trattati da “nemici”. Il resto dell’Italia, fu, come dicevano gli antifascisti, “liberato” e dall’autunno del 1943, dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, gli italiani cominciarono a essere considerati “cobelligeranti” dagli Alleati. I siciliani pagarono sulla loro pelle, tutti i risentimenti, i rancori, gli odi che guerra aveva istillato nell’animo degli Alleati. Sicuramente l’odio, accumulato contro gli italiani durante la guerra, anche se di molto inferiore a quello accumulato contro i tedeschi, considerati il “nemico principale”, quasi il “male assoluto” da debellare, contribuì a creare la mentalità propizia al compimento delle stragi. Per David Irving:

“In quegli anni precedenti Norimberga, i quartieri generali americani prendevano la questione alla leggera. Perfino lo scrupoloso Eisenhower, scrivendo a George Marshall nel 1943, aveva parlato del problema dei prigionieri come di un im­paccio al quale West Point non aveva preparato adeguatamente i suoi ufficiali. E arrivava ad aggiungere: «Peccato che non abbia­mo potuto ammazzarne di più». All'inizio degli anni '70, quando fu pubblicato il carteggio di Eisenhower, l'atteggiamento era mu­tato e l'osservazione infelice fu espunta su insistenza del dipartimento della Difesa. Se fosse stato Patton a pronunciare quelle pa­role, i suoi colleghi le avrebbero prese come un tipico segno del suo temperamento truculento. Ma gli umili soldati venivano addestrati a trasformare le parole in atti, e quando Patton pronunciò effetti­vamente una frase del genere, per poco non fu la sua rovina”.

Per Joseph S. Salemi, un docente italoamericano dell’Università di New York, il cui padre si rifiutò di sparare a dei civili inermi a Canicattì, l’immagine che gli Alleati avevano dei siciliani contribuì al verificarsi delle stragi. L’immagine che emerge dalla guida, distribuita ai soldati alleati al momento dell’imbarco per Sicilia, non è molto lusinghiera: “Il Soldier’s Guide to Sicily è un documento di disprezzo, paura e razzismo”. E via elencando. “L’implicazione”, conclude Salemi, “è chiara: i siciliani sono poveri, sporchi, degradati, senza moralità, criminali, viziosi, analfabeti, sessualmente immondi ed abituati al pugnale. Per farla breve, non sono umani. Una guida di questo genere prepara il sentiero alle atrocità”.

LE STRAGI DI CIVILI

LA STRAGE DI VITTORIA

Le stragi in Sicilia iniziarono il 10 luglio 1943. Lo stesso giorno dello sbarco. Nelle ore successive all’invasione una moltitudine di civili evacuò Acate, dirigendosi verso la vicina Vittoria. Tra i profughi, in macchina, Giuseppe Mangano, la moglie, Carmela Albani, il figlio Salvatore Valerio, detto Alberto, il fratello, Ernesto, capitano medico del Regio Esercito, e la donna di servizio. Dopo il casello ferroviario, un gruppo di militari fermò l'auto, dove viaggiava la famiglia Mangano. Il podestà, dopo aver mostrato i documenti, chiese il rispetto della Convenzione di Ginevra concernente l’esodo dei civili in zona d'operazioni militari. La richiesta esasperò ancora di più quei militari “avvinazzati e inferociti", che cominciarono a colpire gli uomini e a maltrattare le donne. Tentò di difenderli. Si qualificò. Dopo un attimo d’esitazione, i soldati, notando che l'uomo indossava la camicia nera e portava all’occhiello della giacca la “cimice” del Partito Nazionale Fascista, puntarono i fucili, intimando alle donne di entrare in una casa vicina e agli uomini di alzare le mani. Oltre ai Mangano, i militari presero altri uomini prigionieri. In dodici, tutti civili, furono condotti vicino al caseggiato rurale Iacona e fatti allineare. Alle 19 circa, alcune scariche di mitra posero fine alla loro esistenza. Secondo alcuni testimoni, Valerio, cercò di difendere il padre, si liberò dal soldato che lo teneva prigioniero, prese un sasso e cercò di colpire un soldato, ma fu ucciso da un impressionante colpo di baionetta alla guancia sinistra. Aveva 14 anni, era figlio unico e frequentava il Ginnasio. I corpi restarono insepolti per alcuni giorni. Del capitano non si è saputo più nulla. Non si conoscono i nomi degli altri fucilati. Non mi sorprenderei se i responsabili della strage fossero individuati in alcuni paracadutisti del 2° Battaglione del 505° P.I.R. USA: essi erano "ubriachi" o "avvinazzati ", paracadutisti e hanno occupato Vittoria. A causa del lancio errato erano andati a finire per sbaglio a Vittoria. Secondo altre voci i Mangano furono ammazzati perché gli americani vollero rapinarli dell’auto e dei preziosi che i civili portavano con loro. Quest’unità era aggregata al momento dello sbarco all’82ª Divisione aviotrasportata USA.

LA STRAGE DI PIANO STELLA DI CALTAGIRONE

Alle 17 circa del 13 luglio un’altra strage di civili avvenne a Piano Stella, a un paio di chilometri dall’aeroporto di Biscari. A Piano Stella vivevano circa 40 famiglie d’agricoltori, assegnatari di lotti e case coloniche. Furono assassinati a colpi di fucile mitragliatore il profugo di Vittoria Giovanni Curciullo, il figlio tredicenne Sebastiano, i calatini Giuseppe Alba, Salvatore Sentina e il reduce della I guerra mondiale Giuseppe Ciriacono. Solo il figlio dodicenne del Ciriacono, Giuseppe, fu risparmiato. Tutti erano stati in precedenza prelevati da un vicino rifugio, costruito artigianalmente dal Ciriacono come ricovero familiare dai bombardamenti che avevano per obiettivo il vicino aeroporto. Nessuno di loro aveva compiuto atti ostili contro gli invasori o possedeva armi. Anzi, qualche ora prima avevano curato un soldato americano ferito. Per lo storico Nunzio Vicino la strage sarebbe una conseguenza dell'intervento in aiuto dei soldati italiani e tedeschi, impegnati contro paracadutisti americani nel vicino bosco Terrana, del perito agronomo Fiore, detto “l’ingegnere”, ex squadrista, romano, assegnato come consulente e dirigente tecnico al Borgo. Fiore, avrebbe ucciso un paracadutista nemico, sceso davanti casa sua, provocando la rappresaglia degli americani, avvisati da un altro militare, non notato dall’“ingegnere”. Fiore riuscì a scappare aiutato da alcuni abitanti della zona. Per lo storico Gianfranco Ciriacono, Fiore sarebbe andato via un paio d’ore prima della strage. Seguirono un tentativo americano di occultare i corpi e una denuncia ai Carabinieri. I quali informarono i superiori. Ritengo che i probabili responsabili della strage siano da ricercare tra i soldati dell'82ª Divisione aviotrasportata.

LA STRAGE DI CANICATTI’

Un altro eccidio di civili avvenne a Canicattì, Agrigento. Nel registro dei morti risultano i nomi di: Diana Antonio, 50 anni, bracciante; Messina Vincenzo, 40, contadino; Salerno Giuseppe, 31, nato a Villalba, bracciante; Corbo Vincenzo, 22, contadino; La Morella Alfonso, 43, contadino; Todaro Vincenza 11, “scolara”. La strage avvenne il 14 luglio, alle 18, nella Saponeria Narbone-Garilli di viale Carlo Alberto. Ne sarebbe autore il tenente colonnello che si era insediato al Comune come responsabile dell'AMGOT, un ente alleato, formato in gran parte da ufficiali della riserva, il cui compito era di ristabilire le funzioni di governo nelle zone italiane occupate. L’ufficiale quel giorno si trovava al Municipio in compagnia d’alcuni interpreti del servizio di spionaggio americano. Tra questi militari c'era il padre d’origine siciliana di un docente della New York University e del Brooklyn College, il professor Joseph S. Salemi. Il professore, a distanza di molti anni ha raccolto la testimonianza del padre, Salvatore, presentata poi in una relazione. Poco prima delle 18 un civile italiano entra nel Municipio di Canicattì. Lamenta che la popolazione sta saccheggiando il deposito di viveri e la fabbrica di sapone. Chiede l’aiuto degli americani. Sulla strage ci sono due versioni. Per Salemi quando il responsabile dell’AMGOT capì la natura delle lamentele del “proprietario o un suo agente” chiamò un gruppo di P.M. e un sottotenente. Ordinò d’accompagnarlo alla fabbrica e d’arrestare i saccheggiatori. Decise poi di recarsi sul posto di persona. E ordinò a tre appartenenti al G-2 di accompagnarlo. Per Salvatore J. Salemi, che l’accompagnò, “andava alla saponeria direttamente per sparare … Volle ammazzare qualcuno: la faccia rivelava i pensieri”.

La P.M. aveva già arrestato dalle 30 alle 40 persone, molte donne e bambini. Dopo il suo arrivo, il colonnello ordinò al sottotenente di sparare sui civili. Il giovane restò pietrificato e non si mosse. Il colonnello ripeté inutilmente l’ordine ai P.M. Si rivolse allora al personale del G-2 che l’aveva accompagnato. Ordinò a ognuno di loro di sparare. Nessuno di loro voleva però uccidere dei civili inermi. Vedendo che il suo ordine non era stato eseguito, il colonnello tolse dalla fondina una Colt automatica calibro 45. Fece fuoco ad alzo zero, da una distanza di tre metri circa sui civili inermi. Svuotò tre caricatori. I borghesi cercarono di scappare, e alcuni forse ci riuscirono. Egli però uccise o ferì la maggioranza dei civili. Erano imprigionati tra il muro della fabbrica e i militari che li bloccavano. Un bambino, di circa 12 o 13 anni, ricevette un colpo nello stomaco. Morì poco dopo. Il suo stomaco era scoppiato. Per la versione ufficiale, nascosta nei “National Archives”, accadde:

“La mancanza di cibo sfociò in disordini che furono domati solo con gran difficoltà dai 14 M. P. ... Avevano per prima cosa sparato sopra le teste della teppaglia turbolenta. Quando cessarono gli spari, la folla scese nelle strade e continuò a urlare.

Il tenente colonnello McCaffrey allora fece un rapporto sulla situazione al Capo di stato maggiore della 3ª Divisione che diede ordine di fucilare i saccheggiatori catturati in azione, se necessario, per ristabilire l’ordine, e di chiamare il colonnello Johnson, comandante del 15° reggimento fanteria, per aiuto. Un plotone di fanteria e un buon interprete furono mandati dal colonnello Johnson. Al plotone fu assegnato il compito di requisire tutte le armi e le munizioni della città... 50 fucili e munizioni furono trovati alla stazione ferroviaria e un quantitativo maggiore d’armi fu rinvenuto in altre parti della città.

In un altro punto della città, il tenente colonnello McCaffrey, stava assistendo all’individuazione dei possessori d’armi e munizioni, catturò un certo numero di saccheggiatori nell’atto di portar via del sapone. Li arrestò. Vide altri che su carretti trasportavano sapone per le vie. Ordinò loro di fermarsi e quando i conducenti continuarono, egli fece fuoco sulle loro teste. I conducenti scapparono. Inseguendo i carretti in fuga, giunse a una fabbrica di sapone, fuori della quale c’era una gran folla, che evidentemente stava saccheggiando il posto. Il tenente colonnello McCaffrey e il plotone di fanteria cercarono di fermare il saccheggio e di arrestare i saccheggiatori. Non ubbidirono ai loro ordini. Il tenente colonnello McCaffrey allora sparò ad alcuni uomini nella folla e i fanti arrestarono gli altri. Sei uomini furono uccisi. Qualcuno dei fuggiaschi potrebbe essere stato ucciso”.


Salemi Jr accusa il colonnello George Herbert McCaffrey. Il colonnello fece carriera. Divenne prima responsabile per la provincia d’Agrigento, poi capo della Regione Militare d’Occupazione 2, Calabria e Basilicata. Chiuderà la carriera militare partecipando con un alto incarico governativo alla guerra di Corea.

Fatto il danno, bisognava mettere la sordina, non far sapere nulla in giro. Le ripercussioni potevano essere enormi, le carriere potevano essere compromesse, qualcuno poteva essere accusato di crimini di guerra. Meglio la censura. Tanto pesante che solo oggi, dopo quasi 70 anni, comincia a squarciarsi il velo che copre quelle stragi.

I civili assassinati a Piano Stella forse furono uccisi anche per le parole pronunciate da Patton in uno dei discorsi tenuti a Mostagem, in Algeria, davanti agli ufficiali suoi subordinati. Queste parole furono poi ripetute dagli ufficiali ai soldati in procinto di sbarcare nella cuspide meridionale dell’Isola. Durante il processo Compton al capitano Jean Reed chiesero se Patton avesse detto qualcosa sui civili. La risposta fu: “Disse che se le persone nelle città persistevano nel rimanere nelle vicinanze della battaglia ed essi erano nemici, noi dovevamo spietatamente ucciderli, spazzarli via”. Anche se Ciriacono e gli altri civili erano rimasti nei pressi delle zone di combattimento, questo non ne giustifica l’assassinio. E' sempre un crimine contro l’umanità. Meno giustificata ancora è la strage alleata di Vittoria. Il podestà d’Acate e gli altri stavano sfollando dalle zone di combattimento e furono uccisi a freddo a un posto di blocco. Giuseppe Mangano avrebbe pagato perché ancora indossava il distintivo del Partito Nazionale Fascista o perché rispondeva in malo modo a dei soldati italoamericani, ma gli altri perché furono uccisi? Qual è la loro colpa? Ma indossare il 10 luglio 1943 un distintivo del P.N.F. poteva essere considerato un crimine da pagare con la vita? Il P.N.F. era un legittimo organo dello Stato italiano, già riconosciuto dagli Alleati.



LE STRAGI DI MILITARI

LA STRAGE DEI CARABINIERI DI GELA

Le stragi di prigionieri italiani iniziarono con l’invasione. La prima, fino a questo momento conosciuta, fu compiuta a Gela verso le sette del mattino del 10 luglio 1943. L’eccidio si consumò a 8 chilometri da Gela, sulla Statale 115 per Ragusa. In località chiamata Passo di Piazza, i Reali Carabinieri avevano costituito un “posto fisso”. I militari, al comando del vicebrigadiere Carmelo Pancucci di Agrigento, dovevano vigilare la linea ferrata che correva parallela al mare, poco distante. Erano una quindicina. Per fortuna però al momento della strage due erano di pattuglia, come da ordini, nonostante fosse in corso lo sbarco. Dopo la resa della “stazione”, secondo alcuni documenti ufficiali, i carabinieri furono prima disarmati, perquisiti e derubati di tutto quello che avevano di prezioso; poi furono messi allineati al muro vicino al pozzo con le mani sulla testa e fucilati alla schiena. Otto rimasero sul terreno. Tra questi, certamente morì, Michele Ambrosiano, richiamato e padre di cinque figli. Un carabiniere della provincia di Avellino, Nicola Villani, fu ferito gravemente. Tre si salvarono con certezza: il vicebrigadiere Pancucci e i carabinieri Francesco Caniglia di Oria, Brindisi, e Antonio Cianci di Stornara, in provincia di Foggia.

La figlia maggiore di Ambrosiano, Anna Maria, nel 2010 nutriva ancora rancore contro il Pancucci, il cui ordine di sparare contro i nemici aveva determinato, a dire della signora, la morte del genitore. Aveva ancora un astio violento anche nei confronti dello Stato che aveva lasciato la madre vedova di 35 anni con cinque figli piccoli senza assistenza e con una pensione di 500 lire. La famiglia aveva patito la fame e aveva tirato avanti anche grazie all'aiuto del nonno materno, emigrato in America prima della guerra e che inviava dollari e vestiti.

La figlia del defunto vicebrigadiere Pancacci, di Agrigento, ricorda che il papà, dopo la guerra le raccontava, che il posto fisso affidatogli era stato attaccato, dopo il sorgere del sole luglio, da un soverchiante gruppo di americani. Dopo una resistenza iniziale che era costata la vita di quattro carabinieri, il sottufficiale, anziano ed esperto anche per avere combattuto in Africa Orientale come Camicia Nera, per pietà dei sopravvissuti, uno dei quali padre di cinque figli, aveva preso la tovaglia bianca del tavolo su cui mangiavano e l'aveva platealmente sventolata per arrendersi. Questo gesto non aveva però fermato il fuoco nemico. Pancucci e i suoi camerati furono poi portati in Algeria. Un elemento oggettivo che in parte conferma la tesi di Caniglia è offerto dal Diario storico della legione territoriale dei Carabinieri Reali di Palermo, relativo al periodo dal 10 luglio a1 31 dicembre 1943. Nel brogliaccio erano riportati come deceduti tre carabinieri per “eventi bellici” presso la stazione di Passo di Piazza (Donato Vecce, Antonio Di Vetta, Michele Ambrosiano), mentre 13 dei militari erano citati come caduti in mani nemiche: Vicebrigadiere Carmelo Pancucci e i carabinieri Francesco Caniglia, Antonio Cianci, Giuseppe Di Giovanni, Nicolò Gambino, Aldo Gianni, Alessandro Giannini, Mario Imbratta, Raffaele Matera, Annibale Musilli, Giuseppe Rodio, Nicola Villano e Gaetano Vitellaro. Mentre Caniglia parla di 12 uomini in organico al posto fisso, il Diario storico della legione di Palermo lascia credere che fossero 16 e Cianci racconta di 16-18.

C'è da rilevare che la redazione del documento fu scritta dal colonnello comandante Lauro Andreoli, a Palermo, il 29 febbraio 1944. La Sicilia era stata restituita all’amministrazione del governo del Sud del maresciallo Badoglio solo da pochi giorni: l’11. Penso che non sia stato facile accusare ai propri superiori gli occupanti americani di aver fatto pochi mesi prima una strage in Sicilia. Forse il colonnello però pensò che la cosa potesse essere utile all’Italia nel dopoguerra.
Nella notte erano stati lanciati sui cieli della zona numerosi paracadutisti americani. I carabinieri, all’alba, si accorsero che erano circondati dai nemici che intimavano la resa. Uno dei carabinieri, Antonio Cianci, 21 anni, era salito sul tetto della casa per vedere cosa stesse accadendo. Dopo 66 anni Cianci racconta la strage:

“Ho avuto la sensazione che l'elmetto di un gruppo di soldati che si stavano avvicinando all’edificio dove eravamo alloggiati fosse tedesco; erano sei o sette e camminavano nella campagna piuttosto indifferenti. Avevamo ordini, nel dubbio, di sparare e mirai a uno del gruppo; lo colpii perché cadde subito … Io sparavo con il moschetto e loro rispondevano con i mitra e avevano i binocoli per osservarci; noi eravamo in tre con il vicebrigadiere e un carabiniere, giovane come me, di Salerno. Dopo un po’, gli americani dovettero dare ordine alle loro navi di spararci con i cannoni e noi scendemmo subito nelle stanze di sotto; i nemici, vedendo che avevamo smesso di sparare, dovettero avvisare le navi che sospesero il bombardamento”. Poi gli americani si avvicinarono al presidio: «A quel punto - prosegue Cianci - andai al muro perimetrale: in realtà avevo bisogno di orinare. Ma non ebbi il tempo, perché vidi un gruppo di una decina di soldati nemici. Impressionato (in quel momento ero disarmato), girai su me stesso e risalii la rampa di scale di corsa per avvisare il vicebrigadiere Pancucci che di sotto c' erano i nemici. Il nostro sottufficiale ci disse di appostarci dietro le finestre e rispondere al fuoco; subito, però, le navi ricominciarono il bombardamento. Quando Pancucci si rese conto che stavano scoppiando i vetri delle finestre, che le porte venivano scardinate e i calcinacci cadevano da tutte le parti, che la palazzina, centrata, ci sarebbe crollata addosso, mi ordinò di esporre alla finestra un lenzuolo; un altro di noi fece lo stesso con la tovaglia bianca del tavolo dove consumavamo il rancio». Bandiera bianca, la resa dei carabinieri era inevitabile: «Abbandonammo tutte le armi nelle stanze e ci avviammo verso le scale dove due paracadutisti ci aspettavano con le armi puntate; urlavano e ci facevano capire a gesti di scendere in fila indiana e con le mani alte e bene in vista. Nel cortile fummo allineati tutti quanti - nel conflitto a fuoco nessuno era stato colpito - e ci fu chiesto se c’erano altri nelle stanze; alcuni degli americani salirono nei locali per controllare. In realtà non c’era nessun altro militare. A questo punto la situazione sembrava essersi rasserenata e i paracadutisti ci consentirono di appoggiare le mani sulla testa con le dita incrociate, per non stancarci». Poi la situazione precipitò: «Altri militari americani arrivati in un secondo momento - ricorda Cianci - cominciarono a percuotere con i calci dei fucili le porte dei locali attigui a quelli della caserma, in cui erano alloggiati dei contadini. Questo, credo, fece pensare ai nostri guardiani che avessimo mentito e che alle loro spalle ci fossero altri nostri compagni asserragliati. Non stettero a pensarci due volte e cominciarono a sventagliarci con raffiche di mitra. Quando ci spararono, tre o quattro di noi morirono subito, parecchi furono feriti e io feci finta di essere stato colpito. Siccome mi lamentavo, terrorizzato, uno degli americani mi venne vicino e mi aprì la camicia perché io gli indicavo di essere stato ferito all’altezza del cuore. Quando vide che non avevo niente mi rassicurò: "Good, good". Vicino a me, alla mia destra, c’era un carabiniere morto; un altro commilitone di Salerno era gravemente ferito alla spalla sinistra e piangeva. C’erano altri carabinieri a terra, ma ero spaventatissimo e non mi accertai se fossero morti o feriti”.

La sorte aveva risparmiato Cianci, ma le disavventure non erano finite. Fu deportato, con Pancucci in un campo di concentramento gestito dai francesi di De Gaulle, in Africa. Ricorda Cianci:

“Dopo una mezz’ora, quando si erano calmate le acque, ci misero in colonna, compresi i feriti, e ci portarono in mezzo alla campagna. Rimanemmo tre giorni sulla spiaggia con un freddo notturno terribile; ci mettevamo uno sopra l’altro per riscaldarci. Quando ci imbarcarono per l’Algeria, sulla rampa delle navi ci perquisirono e rubarono tutto quello che avevamo (portafoglio, denaro, penne stilografiche, collanine d’oro, anelli, orologi). Quando arrivammo in Nord Africa, dovemmo fare una marcia di 60 chilometri …”.

LE STRAGI DI BISCARI

Altri massacri avvennero nella zona di Biscari, l’odierna Acate. All'attacco dell’aeroporto di Biscari andò la 45ª Divisione, detta Thunderbird, dal totem sulle mostrine. Era formata da indiani cherokee, seminole e apache, prelevati dalla Guardia nazionale, provenienti dall’Arizona, dall’Oklahoma e dal New Mexico e cow boy. C’erano anche numerosi italoamericani. Anche se privi d’esperienza, gli uomini della 45ª erano tra i più addestrati, sia sul piano tecnico sia su quello psicologico, dell'intero esercito statunitense ed erano affidati a un ottimo comandante, Troy Middleton. Inoltre, il generale George Patton, comandante della VII armata americana li aveva arringati in modo fin troppo esplicito: “Uccideteli, uccideteli, uccideteli”. Addestrarsi agli ordini di Patton non era mai stato uno scherzo ma ora l'addestramento diventava particolarmente duro comprendendo anche 36 ore consecutive in azione, senza alcuna pausa. Quello sulle coste isolane fu il loro battesimo del fuoco. Aveva­no l'ordine di conquistare entro 24 ore gli aeroporti di Ponte Olivo (Gela), Comiso e Biscari o Santo Pietro: erano necessari per trasferirvi dall’Africa gli aerei Alleati. Gli americani volevano difendere dal cielo le teste di ponte già costituite, mantenere e accrescere la supremazia aerea nella zona. Gli italiani, oltre a proteggere l'aeroporto, dovevano garantire il lento ripiegamento delle loro truppe e della Divisione H. Goering verso le pendici dell'Etna. Gli americani pensavano di conquistare in breve tempo gli obiettivi. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità te­desche li fermò per quattro giorni. Questo fatto li fece andare in bestia, causando diverse stragi nella zona.

Il 27 giugno, Patton aveva parlato agli ufficiali dell’Armata avvisandoli su quanto poteva capitare in Sicilia. Il generale Albert C. Wedemeyer, che assistette all'evento, scrisse: «Li ammonì di fare molta attenzione nel caso in cui i tedeschi o gli italiani avessero alzato le mani mostrando l'intenzione di arrendersi. Affermò che qualche volta il nemico si comportava in quel modo per far abbassare la guardia ai soldati. I nemici in parecchie occasioni avevano sparato sui nostri uomini ignari e avevano gettato granate. Patton avvertì i militari della 45ª di stare attenti e di “uccidere quei figli di prostituta, a meno che non fossero stati certi della loro reale intenzione di arrendersi"».

Gli scontri erano stati molto duri vicino a quello che gli americani avevano chiamato “il Viale di Adolph”, la Strada Provinciale 115. Molti persero il controllo dei nervi. Moltissimi erano persuasi che Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. De­cine di soldati, graduati e ufficiali testi-moniarono al processo: “C’era stato det­to che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti c’è stato letto il discor­so del generale. "Se si arrendono, quando tu sei a due-trecento metri da loro, non ba­dare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano. Nes­sun prigioniero! E' finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una di­visione di killer, perché i killer sono immor­tali!”

Di una strage, avvenuta quel maledetto 14 luglio a Santo Pietro, abbiamo due testimoni. Furono massacrati 33 uomini, 29 soldati italiani e 4 tedeschi. Si erano arresi agli americani. Ma li fucilarono lo stesso. Virginio De Roit, classe 1912, vicentino, di Santa Maria di Camisano, apparteneva alla 3ª compagnia, CLIII battaglione mitraglieri. I soldati avevano il compito di difendere l’aeroporto di Santo Pietro. Per difendere l’aeroporto i nostri avevano 200 uomini e sette mitragliatrici Breda; i tedeschi della Goering avevano aggiunto un cannoncino con quattro artiglieri. A mezzanotte circa del 13 luglio, alla compagnia di De Roit, folta di veneti e di bresciani, arriva l’ordine di salire sugli autocarri tedeschi e di ripiegare su Santo Pietro, lasciando la posizione. Mentre i soldati si accingevano a ritirarsi, scoppiò l’inferno attorno ad un bunker presidiato da quattro tedeschi e da quattro italiani del 122° reggimento. Erano arrivati i nemici.

De Roit e i suoi camerati investiti da un pesante fuoco nemico furono costretti ad arrendersi. I nemici prima li derubarono d’ogni oggetto di valore. Poi ordinarono di spogliarsi e di togliersi le scarpe. In mutande, camminando scalzi su sassi e rovi, furono condotti fino a uno spiazzo accanto al sughereto. Qualcuno ordinò di scavare una buca e di mettersi in fila per due. Poi… “Un negro dalla faccia brutta, ricorda a 61 anni dai fatti De Roit, impugnò il parabellum e cominciò a sparare al petto dei primi due, che erano tedeschi. Poi ancora due tedeschi. De Roit, il suo compaesano Silvio Quaiotto e l’anconetano Elio Bergamo si buttano nel vicino fiume Ficuzza. Intanto le mitragliette americane compiono l’eccidio. Sotto i loro colpi cade Battista Piardi di Pezzaze: aveva 25 anni, si era sposato l’anno prima. Cade Leone Pontara di Concesio, 23 anni. Cade Mario Zani, contadino d’Iseo. Cade Attilio Bonariva di Lozio. Cadono anche Gottardo Toninelli e Pietro Vaccari di Brescia e altri loro giovani commilitoni. Muoiono il caporale Luigi Giraldi di Brescia, Aldo Capitanio, compaesano di De Roit. Cade Angelo Fasolo di Camin, Padova. Cadono Salvatore Campailla - siciliano, postino a Nervi - e Sante Zogno di Lodi. Bergamo non lo vedemmo più. So soltanto che a casa sua non è mai arrivato”. Altri sette figurano fra i dispersi o i "morti presunti": sono Luigi Ghiroldi di Darfo, Attilio Bonariva di Lozio, Leone Pontara di Concesio, Battista Piardi di Pezzaze, Gottardo Toninelli e Pietro Vaccari di Brescia, Mario Zani d’Iseo.

Nel dopoguerra De Roit parlò della strage anche al suo distretto militare: “Lascia stare - gli dicevano - adesso ci sono i partigiani, comandano gli americani”. Così il massacro è stato affidato solo al lutto privato delle famiglie. Incerta la sorte dei corpi dei soldati. Secondo De Roit le salme furono bruciate, poi deposte nel cimitero di Caltagirone. Secondo altre voci furono bruciate con un lanciafiamme, seppellite nel Cimitero di guerra americano di Gela e poi portate in America. Qualche anno fa su quest’eccidio la Procura di Padova ha aperto un fascicolo. Sconosco i risultati.

Dopo la conquista dell’aeroporto di Biscari, avvenuto nelle prime ore del 14 luglio, il sergente West, della compagnia “A” del 180° Fanteria, fu chiamato dal maggiore Roger Denman, dal quale ricevette in consegna 46 uomini, tedeschi e italiani. West doveva trasferirli nelle retrovie, lontano dall'aeroporto, in un luogo dove non avrebbero potuto osservare i movimenti delle truppe. Il sottoufficiale designò il caporale Michael Silecchia e i soldati Amerigo Bosso, William Pastore, Herman Redda, Jerry Browne ed Ewald Wilhelm. Dopo aver allineato i prigionieri in due colonne, ordinò di marciare lungo la strada provinciale che collegava l'aeroporto con Acate. Ai prigionieri, per evitare che potessero scappare, fu ordinato di spogliarsi e di togliersi le scarpe. Dopo circa 400 metri, il sergente li fece fermare e separò nove o dieci prigionieri.

Dalle testimonianze, raccolte, è evidente che la condotta dei prigionieri era buona. Non ci furono tentativi ribellione. Nessuno cercò di fuggire. West manifestò, dopo aver fatto fermare i prigionieri, l'intenzione di ucciderli, dicendo: "Sto uccidendo questi figli di prostituta". West chiese e ottenne dal sergente Brown un mitra, una Tommy gun e un caricatore di 30 cartucce. Erano circa le 12 del 14 luglio. Nessuno, da parte degli altri soldati presenti, sollevò obiezioni o tentò di bloccare il sergente West. Nemmeno i militari italo-americani ebbero pietà dei loro connazionali. Dopo aver fatto disporre i prigionieri in due colonne con la faccia rivolta verso di lui, iniziò a sparare, puntando la mitragliatrice ad altezza d'uomo. Un testimone dichiarò che "i prigionieri iniziarono a urlare e a implorarlo". Dicevano: "No, no, in italiano". Tutto inutile. West continuava a uccidere, senza pietà. Tre dei prigionieri cercarono invano di fuggire. Uno dei soldati ebbe l'ordine di ucciderli. Mirò e ammazzò. Uno dei fuggiaschi cadde cinque o sei passi più avanti. West ricaricò l’arma. Se qualcuno respirava ancora, sparava il colpo di grazia.

Sempre quel 14 luglio, verso le 15, sulla stessa maledetta collina che porta all'aeroporto di Biscari, accade un’altra strage. Il capitano John Compton, della compagnia "A" del 170° fanteria, ordina al suo combat team l’assassinio d’altri 36 prigionieri di guerra. Il combat team del capitano Compton aveva avuto solo quel giorno ben 12 morti su 34 uomini. Il combat team cerca di snidare i nemici che bloccano la sua avanzata. C'e una postazione nascosta su una collina che continua a bersagliare la pista. Un italiano si presentò ai nemici con uno straccio bianco. Da quel fortino uscirono in 40: cinque, secondo l’imputato, avevano giacche e maglie civili, ma i pantaloni e gli stivali erano militari. Gli altri erano in divisa. Dire che alcuni prigionieri indossassero abiti civili potrebbe essere una bugia per alleggerire di molto la posizione processuale dell’imputato. Dopo aver visto i prigionieri, il capitano ordina al sergente Hair di formare un plotone d’esecuzione per giustiziare quei "figli di prostituta" che per tutto il pomeriggio hanno bersagliato il suo combat team. Li fa mettere in riga e, sotto il suo comando, ordina la loro esecuzione. In 24 si offrono volontari. In 10 sparano centinaia di pal­lottole sul mucchio degli italiani. L'in­chiesta termina con l'incriminazione del solo ufficiale per l’omicidio di 36 uomini. I loro corpi non furono seppelliti. Giacciono forse ancora là, nella zona del torrente Ficuzza, ad Acate.

Il giorno dopo, il cappellano militare della 45ª, William E. King, mentre percorreva in jeep la S.P. Biscari - aeroporto di Biscari, intravide un gruppo di corpi. Contò i resti esanimi di 34 italiani e di 2 tedeschi. Erano allineati, invece del casuale cadere in combattimento, senza scarpe e senza camicie. Tutti erano stati colpiti all’altezza del cuore. Alcuni avevano il cranio aperto, come se fossero stati colpiti da un’ascia o da un badile. Passò circa due ore a discutere con molti soldati che avevano lasciato i loro posti per manifestargli la loro forte insoddisfazione per il trattamento riservato ai prigionieri. Non volevano più andare a combattere: si doveva smettere di ammazzare i prigionieri che “avevano alzato le mani, o che avevano cercato di arrendersi, e l’uccisione di prigionieri alle spalle”. Fu proprio grazie alla ferrea volontà del cappellano King se i massacri di Biscari non furono insabbiati. King raccontò tutto al tenente colonnello Willerm O. Perry, Ispettore generale di Divisione, figura si­mile ai nostri pubblici ministeri. Perry riferì al generale Omar Bradley, che probabilmente voleva togliersi qualche sassolino dalle scarpe contro Patton. Secondo alcuni storici militari quando Bradley seppe di questi incidenti, inorridì e rife­rì subito tutto a Patton. Il quale, secondo Bradley, liquidò bruscamen­te l'argomento. Lo definì “una probabile esagerazione”. Patton chiese all’altro “di dire all'ufficiale responsabile delle fucilazioni di riferire che gli uomini uccisi erano cecchini o che avevano tentato di fug­gire o qualcos'altro, altrimenti la stampa farà il diavolo a quattro e anche i civili s'infurieranno. D'altra parte, ormai sono morti, e non c'è più niente da fare”. Secondo altri, Patton decise di far processare “quei bastardi”. Bradley però ordinò che i due uomini fossero deferiti alla Corte marziale. I due erano imputati di avere “fucilato con premeditata cattiveria, volontariamente, illegalmente e con crudeltà 73 prigionieri di guerra”.

Il maggiore Roger Denman testimoniò che il 12 giugno ‘43, a Camberwell, Patton avrebbe detto agli ufficiali: "L’organizzazione che era in azione non doveva fare troppi prigionieri, di cercare di non fraternizzare con loro" e che "durante i combattimenti non dovevamo prendere prigionieri, specialmente se erano stati cecchini e avevano combattuto le nostre linee avanzate". Insomma, "l'ordine era di non fare prigionieri nei casi appena citati". La notte stessa dello sbarco, su una delle navi che trasportavano le truppe, il colonnello Willam W. Schaffer lo ricordò ai soldati, attraverso gli altoparlanti. Secondo il sergente Brown, Patton avrebbe detto che "non voleva prigionieri". Il leitmotiv, prima di partire dal Nord Africa, era: "Uccidi, uccidi, uccidi; e ancora uccidi". Altre testimonianze dello stesso tenore arrivano soprattutto dai sottufficiali. Gli ufficiali, invece, riportano versioni diverse del discorso di Patton. Per il colonnello Federech E. Cookson, le parole di Patton bisogna interpretarle nel giusto significato: "Vero è che desiderava una divisione d’assassini, ma solo quando un nemico avesse continuato a sparare fino a una distanza di 200 metri circa, e poi si fosse avvicinato con le mani in alto in segno di resa, questi non doveva essere fatto prigioniero. Conoscendo bene il generale Patton, posso affermare che lui sicuramente voleva dire che non bisognava prendere prigionieri durante uno scontro a fuoco”.

La sentenza fu emessa il 3 settembre, lo stesso giorno in cui a Cassibile il generale Castellano firmava l’armistizio. La condanna all’ergastolo però fu scontata solo in piccola parte. Qualcuno era terrorizzato dalle possibili riper­cussioni di quei massacri. Temeva il dan­no d'immagine in Italia - era stato appena stipulato l'armistizio - e il rischio di ritorsioni sui prigionieri americani. Si decise di tenere lontano West dagli USA: agli arresti in una base in Africa settentrionale. Quando la sorella di West però iniziò a scrivere al Mini­stero della Guerra, a sollecitare l'intervento del parla­mentare della sua contea, qualcuno a Washington incominciò preoccuparsi per un altro motivo: la scottante vicenda poteva finire sui giornali, e, quindi, conosciuta in tutto il mondo, paesi dell’Asse compresi.

Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del Ministero della Guerra sollecita al Comando Alleato di Ca­serta un “atto di clemenza” per West. Così dopo solo sei mesi, West è rilasciato e mandato al fronte. Morirà nel suo letto, in America, dopo molti anni.

Al processo contro Compton, tutti si difesero dicendo che non avevano riposato per tre giorni, che la compagnia aveva avuto numerose vittime e, soprattutto, richiamando il discorso di Patton. Tut­ti i testimoni - tra cui diversi colonnelli - confermarono le frasi di Patton, quel terribile “se si arrendono solo quando gli sei addosso; ammazzali”. Al­cuni riferirono anche che Pat­ton aveva detto: “Più ne prendiamo, più ci­bo ci serve. Meglio farne a meno”. Compton fu assolto.

Si sviluppò una complessa manovra per nascondere stragi. Rimaste, infatti, so­stanzialmente ignorate fino al 2005. Proprio in quei giorni, Patton è in pratica silura­to. Nei film e nelle biografie più vecchie, la caduta in disgrazia di Patton è collegata agli schiaffi dati a due soldati americani, ri­coverati per “choc da bombardamen­to” in un ospedale da campo a Troina. Ora però alcuni storici sospettano che la vicenda degli schiaffi fu usata per coprire le stragi di prigio­nieri: potevano avere effetti pesantissimi sull'opi­nione pubblica mondiale, sui rapporti con il governo Badoglio e sui prigionieri americani in mano dei tedeschi.

Il 18 agosto 1943 cessò ogni resistenza italo-tedesca in Sicilia. Patton rimase a Palermo, nell’attesa di nuovi incarichi. La maggior parte delle Divisioni della VII Armata fu trasferita alla V Armata, assegnata alla Campagna d’Italia. Anche se “disoccupato” era in ogni caso utile. Nei mesi successivi Patton non fu mai ufficialmente interpellato sui piani operativi degli Alleati. Ma, riservatamente, spesso qualcuno degli alti gradi statunitensi lo consultava sulle strategie da seguire e dei progetti operativi. Era forse il miglior stratega alleato sul fronte europeo.

L’inchiesta si chiude con un fascicolo top secret che evidenzia il peso delle frasi di Patton. Il documento però non sollecita ini­ziative contro Patton. Mancano pochi giorni al D-Day e la dura espe­rienza dello sbarco di Anzio sta convincendo Ei­senhower a riutilizzare il focoso generale, molto popolare tra i soldati e in America. Soprattutto però si vuole impedire lo scandalo. Inoltre, la sua incriminazione avreb­be reso più difficile la tutela del segre­to sulle atrocità.

Il capitano Compton cadde in battaglia in Italia nel novembre 1943. Stava andando a prendere alcuni tedeschi che sventolavano una bandiera bianca. La sua assoluzione è, però, diventata un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra gli addetti ai lavori della giustizia militare americana dopo la fine del conflitto. Un precedente “riservato”. Si voleva evitare anche ogni influenza sui processi ai criminali di guerra tedeschi. Oggi alcuni storici statunitensi, ­assolutamente non sospettabili di revisionismo, ritengono che, sulla base della sentenza Compton, dovessero essere assolte le S.S. fucilate per gli omicidi di prigionieri americani.

A Biscari gli americani si resero protagonisti di almeno un’altra strage. Su questo caso, fino a oggi non si sono celebrati processi. Solo adesso la magistratura ha aperto un fascicolo, a Palermo. La strage ha un testimone: Giuseppe Giannola, classe 1917, palermitano, miracolosamente sfuggito tre volte alla morte. Le vittime: una cinquantina di prigionieri. Erano avieri e artiglieri, posti a difesa dell’aeroporto di Biscari. Ecco com’è andata, nel racconto dell’aviere Giannola:

“Il 10 luglio il maggiore ci ha detto: “E’ ora di fare il nostro dovere”. Sono stati distribuiti i moschetti: i vecchi fucili ‘91’ della Grande Guerra. … Il 13 ci siamo schierati nelle trincee intorno alla pista. Il primo attacco è cominciato nel pomeriggio: abbiamo sparato per più di un’ora, un caricatore dietro l’altro … Li abbiamo respinti, ma non potevamo fare di più.. Prima dell’alba i nemici hanno circondato il rifugio. Due bombe sono esplose davanti alle uscite. Ci hanno urlato di venire fuori con le mani alzate e abbiamo obbedito. Siamo stati perquisiti, ci hanno tolto tutto, lasciandoci in mutande o con i pantaloni corti. Hanno buttato via le scarpe per impedirci di correre. Poi ci hanno fatto marciare verso la costa. Dopo poco, una trentina di artiglieri sono stati uniti al nostro gruppo. I sorveglianti? Erano in otto. Non rammento i loro volti, mi sembra che qualcuno parlasse un poco d’italiano… Io pensavo che fosse tutto finito. Pensavo a Palermo, la mia città, dove quella sera ci sarebbero stati i botti: sì, era l’alba del 14 luglio 1943, la festa di Santa Rosalia. Da noi, nelle trincee dell’aeroporto di Biscari, non si sentiva più sparare... Mentre gli americani ci spogliavano, io pensavo alla festa, pensavo a casa. Poi abbiamo camminato sotto il sole: saremmo stati in cinquanta, tutti senza scarpe, a torso nudo, in mutande o con i pantaloni corti. Dopo qualche ora ci hanno fatto fare una sosta, stavamo seduti in un campo all’ombra degli ulivi. Quelli che ci sorvegliavano si sono appartati, fumavano e parlavano. Tempo un quarto d’ora e ci siamo alzati di nuovo: ci hanno fatto mettere su tre file. Io ero in mezzo a quella centrale, accanto avevo due commilitoni, palermitani come me che conoscevo sin da quando eravamo bambini. A quel punto gli americani hanno cominciato a sparare… Sono stato colpito subito: un proiettile mi ha spezzato il polso e mi sono buttato a terra. Ho fatto solo in tempo a fissare l’immagine di quel sergente gigantesco, con il tatuaggio sul braccio, che impugnava il mitra. Poi i corpi degli altri mi sono caduti addosso. Non vedevo nulla, sentivo solo quegli scoppi che non sembravano finire mai. Prima raffiche lunghe, quindi delle esplosioni secche, sempre più rare. Erano i colpi di grazia… Io stavo fermo, con il braccio infuocato e la faccia che si copriva del sangue dei miei amici. Sono rimasto immobile per un paio d’ore, finché il silenzio non è diventato totale. “Se ne sono andati”, ho pensato. Lentamente, quasi paralizzato dalla paura, ho spostato i corpi e mi sono alzato. Ho fatto solo in tempo a guardarmi attorno ed è arrivata la fucilata. Ricordo il botto e il calore che mi bruciava la testa. Sono caduto, sorpreso d’essere ancora vivo. Il proiettile mi ha preso di striscio, scavando un solco tra i capelli: sarebbe bastato un millimetro più giù per ammazzarmi. Con terrore ho cercato di non respirare. Sapevo che ci doveva essere qualche americano lì intorno, appostato per non lasciare nessuno vivo. Con la faccia a terra credevo di non avere più scampo. Invece nulla … Non so quanto tempo sia passato. Mi dicevo: Non muoverti. Ma avevo sete. Il polso spezzato e la ferita alla testa bruciavano. Il dolore ha superato la paura. Mi sono mosso carponi, temendo un altro sparo. Ho camminato così fino ad una strada sterrata… Non si sentiva più la battaglia. E’ passata un’ambulanza e si è fermata. Si sono resi conto che ero un italiano, ma mi hanno dato da bere e bendato le ferite con attenzione. Poi a gesti mi hanno fatto capire di restare vicino alla strada: "Verranno a prenderti”. “Io mi sono seduto: avevo solo i pantaloncini, il resto del corpo era impastato di terra e sangue. E’ arrivata una jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la jeep, lo ha mandato via. E’ rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato la carabina. Ha mirato al cuore e ha sparato”.

Giannola, forse grazie ad un miracolo di S. Rosalia, sopravvisse. Fu poi curato e fatto prigioniero dagli inglesi. Nel 1947 ricostruì due volte la strage, facendo un resoconto dettagliato agli ufficiali dell’Aeronautica incaricati di determinare l’origine delle sue ferite. Non fu creduto. Smise fino al 2004 di raccontare la sua storia. Fu addirittura dichiarato disertore. Poi ricevette due medaglie. Quel giorno a Biscari non ebbero la stessa fortuna gli avieri Argento, Del Pozzo, Giacalone, Macaluso, Raimondi, commilitoni di Giannola, e tutti gli altri italiani arresisi agli americani.

Era ancora in vita il 10 luglio 2012 quando a Santo Pietro fu inaugurato da alte autorità istituzionali un monumento che ricorda i caduti italiani e tedeschi uccisi nella zona dagli americani.

Una seconda lapide è stata apposta a Piano Stella per ricordare l’eccidio dei civili italiani massacrati.

Fino all’ottobre del 1943 non risulta che gli ordini di non fare prigionieri siano stati revocati.

Mi chiedo: a) quando sono stati revocati gli ordini di non fare prigionieri i tedeschi o i fascisti arresisi? b) quante stragi sono ancora sconosciute? c) con quanti morti?

CONTINUA...

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" Forse che non conoscendo a fondo il pensiero del Duce si può affermare di essere fascisti? Noi diciamo di no! Che il fascismo non è istinto ma educazione e perciò è conoscenza della sua mistica,che è conoscenza di Mussolini" (N. Giani)


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